“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 16 April 2021 00:00

Sul corpo panico, la transizione

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L’individuo, colui che appare come dicente, è corpo. Organismo periferico – paradosso celatamente disvelato – e alieno al corpo consumato come ente transitorio. L’individuo si annuncia come multitudo corporum, marginale all’ego nucleico e figurativamente cutaneo, divezzato alla compromissione: un corpo profferto al biancore del vuoto, volumico e perimetrale. Il senso dell’anonimia scevera l’organismo materiale cui si congiunge piuttosto che il verbum  la voragine dell’oralità: il corpo esso stesso include la pertinenza aerea attendendo al silenzio.

Così il corpo statico, endemico alla quiete, apprende la morte. Condizione di intelligibilità ontologica coi modi brutalmente usuali che traversano l’individuo e lo trainano al muto: il processo di morte agisce sul corpo attestandone retroattivamente l’assioma per il quale dicente è colui che è. Il corpo, sottraendoci alla trascendenza, diviene veicolo per una condizione immanente all’individuo che si pone al suo proprio limite: così ogni esito viene escluso alla multitudo corporum e sconfitto qualsivoglia inganno di perpetuità. Il decesso strutturale – che oscuramente concerne l’ambito dell’erotico e del sensuale – si conduce analogico al silenzio come ente affabulante, sino ad accennare al corpo che si impone nella sua putrefacente nudità: esso, col processo necrotico che lo perturba, è. Scrive Georges Bataille: “La nudità è la negazione della condizione dell’essere chiuso in sé; è uno stato di comunicazione che rivela la ricerca di una possibile totalità dell’essere, al di là del ripiegamento su se stesso”.1 Il corpo nudo si manifesta finanche col silenzio – discinto verbum – negando, e dunque turbinosamente attestando, la propria ricerca nucleizzante, e non ne è escluso il processo decompositorio poiché nella fattispecie dinamica il corpo assume forma divenendo principio intelligibile.
Che la morte coabiti al corpo, parve manifesto persino all’incognito estensore di un testo gnostico del III secolo d.C., il quale scrive: “Il corpo è la scura prigione, la morte vivente, il cadavere provvisto di sensi, la bara che tu rechi attorno a te”. Che vi sia gratificazione narcisistica, e pertanto esibizione, nel corpo che marcisce nudo “nisi aliud est quam sperma foetidum, saccus stercorum et cibum vermium”2 risulta percettibile, figurativamente, nella immanenza necessaria cui tramanda la materialità ovvero la finitudine ontologica per la morte nuda. Quale praxis, il trapasso consuetudinario eccede l’antropologia panica del simbolismo funerario, e pur tuttavia manca di esimersi all’implicita concettualità del proprio manifestarsi: il corpo tace laddove si ripara all’universo rarefatto e disadorno cui la morte largisce circostanze paradigmatiche ovvero fondamenta alla significazione plurale.
L’individuo, sorretto al proprio corpo che tace, si manifesta: emerso al campo percettivo rigettando il locus dell’affezione sensibile, giacché gli eterocliti vettori della perturbabilità inconscia attengono massimamente al linguaggio e, in conclusione, alla sua enunciabilità soliloquiale piuttosto che alla tessitura organica che li comprende. Maurice Merleau-Ponty sostiene “la coscienza del mondo attraverso il corpo”, e tuttavia tale processo è obliquo e disarmonico: la collocazione assunta dal corpo si scinde ambiguamente e in transizione con lo spazio materico dei corpi altri. Il corpo, nucleico alla realtà nominativa, conversamente a sé muta come oggetto al locus alienus: in simile svolgimento, l’oscurità consapevole.
Lo spazio topologico tra corpo e linguaggio differisce, generando, per inverosimile omeomorfismo, quale silenzio un cupio dissolvi: il linguaggio disattiene al corpo cui non si riconiuga che altro corpo.
Colui che dice, profferisce il vuoto di una mancanza, e si manifesta alla differenza del corpo plurale, cosicché la storia nativa diviene transito accludente fra corpi piuttosto che paritetico convegno. Al transito politico3 consegue la mutua coartatio ovvero il costringimento biunivoco dei corpi alla compiuta interpretazione dell’actum sexualis: eppure il transito “si fonda singolarmente e casualmente sulla corporeità”4 (il corsivo è mio, n.d.r.): il corpum, interludio fra l’essenza e il decesso, travolge brutalmente operando una necroscopia all’esperienza sensibile: composito è il sintomo frammentato che lo pervade. L’uno è plurale giacché molteplice è l’ampliamento del corpo, ed esso produce piacere.
Il transito manca alla facoltà eudemonica, atteso che il piacere sessuale non ammette alcuna ideazione cautelativa: esso diviene attuabile in quanto ambito moltiplicante del proprio destino, e pur tuttavia la mutua coartatio − esibita all’ermeneutica materiale − non si ammette all’accorpamento intimo. L’atto reiterante agisce al confine epidermico mancando stentatamente al piacere: il corpo tace anch’esso fintanto che non giunga un piacere addizionante che è supplica al corpo, paganesimo totemico. Il feticcio sessuale ritrae la percezione suppletiva all’orgasmo come linguaggio relato al corpo tacente, e in attinenza al tegumento sensibile: la muta liturgia consente il processo seduttivo calamitando l’organismo al suo piacere nucleico.
L’atto si compie come lapsus allegorico attraverso uno svolgimento autenticamente sadomasochistico: esso garantisce l’avvicendamento genitale al reciproco piacere. Il feticcio assurge alla propria simbolica patologizzazione trascendendo dalle fondamenta del corpus biochimico come origine catatonica del piacere. L’implorante totemismo sadomasochista diviene esercizio del grottesco,5 giacché il nutrimentum sexualis – sorretto alla categoria antropologica delle “risposte culturali6 al bisogno – presumendo il consumo non ammette congetture simbiotiche: il corpo impiega al piacere un corpo altro senza che esso venga dissipato alla frantumazione, ché altrimenti l’atto non presupporrebbe ulteriori facoltà di sfruttamento. La soppressione dei corpi ha luogo simbolicamente e come prassi totemica.
Il piacere, vuotato dalle attenuanti procreative, consente al corpo muto una tacita oralità transinfinita7 poiché incompiuta alla sua causa suprema. Ulteriore architesto filosofico la connessione del piacere con la morte, allacciamento inevitato e probante, per tramite del teleologismo cui si fonda la reiterazione del colloquio fisiologico e non acconsentendo all’agnizione del noumeno astratto: il corpo si contamina, decompone e perisce. L’umano rimane tale e il piacere permane alla necessità di un suicidio incosciente.

 

 

 

 



1) L’erotismo, Milano, 1991
2) “Nient’altro se non fetido sperma, sacco di sterco e mangime per i vermi”, San Bernardo
3) In attinenza, si consulti il mio Per una teoria (im)politica del sessuale, Laboratorio Via delle Mura, Quaderno Cinque, Dicembre 2004
4) Cit. da Edmund Husserl
5) Aldo Braibanti, Le prigioni di stato, Milano, 1969
6) Il concetto è mutuato dagli studi dell’etnologo ed antropologo polacco Bronislaw Kaspar Malinowski
7) Rif. nota 3

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