Non riconosco il luogo del mio risveglio. Come sono arrivato fin qui? Probabilmente ho continuato ad avanzare in quello stato febbricitante e non mi sono accorto d’aver attraversato la foresta. Per quanto tempo ho camminato? In lontananza vedo delle costruzioni di legno – sarà meglio avvicinarsi. All’improvviso come spuntato dal nulla vedo un grosso elefante che piange le ossa di un suo simile. Ho ascoltato gli scienziati attribuirgli alcuna coscienza, ma non posso fare a meno di piangere con lui; allora decido di avvicinarmi al mastodonte, più mi avvicino e più mi sento piccolo, sono lì lì per toccarlo, ma sparisce ed io mi trovo all’ingresso di un villaggio.
Uomini, donne e bambini accorrono interessati. Non parlano ed io non so che fare, mi stanno a distanza, alcuni sorridono. Si è formato un cerchio intorno a me, capisco che vogliono io stia fermo, lì, al centro. Non mi muovo. Dopo un po’ vedo arrivare il capo del villaggio. Un uomo anziano, il più anziano del gruppo, sembra avere innumerevoli anni in più rispetto a tutte le persone del suo villaggio. Mi dice qualcosa, segue un silenzio, poi parla lungamente, gli altri restano intorno e ogni tanto spio nei loro volti per capire qualcosa: non capisco nulla.
Mi offrono del cibo e una capanna. La sera mi offrono una donna. Non conosco il suo nome ed è bellissima. Completamente nuda se ne sta all’entrata della capanna. Le faccio cenno di avvicinarsi e sedersi. La giovane donna mi guarda, ha un petto prosperoso adorno di perline colorate, la pelle profumata, grandi e diversi bracciali. Inizio a baciarla, non rifiuto la loro offerta. Le accarezzo il viso e le labbra, lei sorride: posso amarla. I miei sensi sembrano risvegliarsi e la febbre passare. Accarezzo la sua pelle vellutata, il suo seno, l’annuso fin giù all’inguine e la ricopro di baci, posso sprofondare nei suoi occhi ed assaggiare il suo sesso, prima di unirmi a lei. Ci stringiamo in abbracci che ci danno alla testa, che ci fanno spingere di più. Sul giaciglio urliamo più volte il piacere che si fonde col dolore e avvinghiati desideriamo la fusione, che non avviene: dolce amplesso di fuoco troviamo l’uno nelle braccia dell’altra. In quel momento capisco d’essere osservato, il capo furioso mi grida qualcosa, allora mi prendono e mi legano ad un palo ben saldo alla sabbia. Sono legato, ho le spalle al villaggio e il viso verso il mare.
Appena prima dell’alba sopraggiungono delle donne: sono vestite di azzurro e blu vivo, hanno dei bracciali, credo di ottone. Le donne non mi temono, mi slegano e mi immergono nel mare al canto: Odô Iyà Yémanja Ataramagbà ajejê lodô ajejê nilê! Mi lasciano lì ed io non sono capace d’emergere, resto lì: l’aurora – sento un canto provenire dal villaggio, sembra quasi una preghiera. Sento una voce in contro canto che ripete: Mawu-Lissa – percepisco la sua forza come un’intuizione che poi subito sfugge, ed io sfuggo a me stesso.
Mi sveglio, il sole è già alto, ognuno nel villaggio è intento alle proprie mansioni ed io sono faccia a terra. Provo ad alzarmi, ma subito vengo sanzionato con un calcio e mi fanno segno di stare steso. L’uomo che mi ha calciato mi dà del cibo.
Si sta facendo buio e non vedo più nessuno, il villaggio è vuoto e silenzioso; ma ecco lo stesso canto che ho sentito la mattina, non resisto.
Mi risveglio in acqua, sento i polmoni scoppiare! – emergo rapidamente appena sento: ajejê lodô ajejê nilê. Le donne vestite di blu e azzurro mi portano al palo, ma non mi legano ed io non posso muovermi. Una donna nel buio furtiva mi masturba, sono appena cosciente; poi mi dà del cibo.
La mattina sta arrivando e arrivano le donne vestite di azzurro e blu per immergermi e mentre lo fanno ripetono: Odô Iyà Yémanja Ataramagbà ajejê lodô ajejê nilê! E inizia di nuovo quel canto e la voce che chiama Mawu-Lissa poi ascolto più voci, in quel momento perdo i sensi.
Mi ritrovo al centro del villaggio a testa bassa. Le ore passano, il sole è altissimo, i suoi raggi mi distruggono. Frecce luminose trapassano la mia carne e entrano nelle ossa. Il morso della fame è tremendo, così alzo la testa per supplicare un po’ di cibo: ricevo uno schiaffo che mi riporta faccia per terra; dopo un po’ ricevo del cibo da quella persona.
Ecco la sera col suo canto: recepisco una tale forza che mi fa tremare, ogni volta resisto un po’ di più. È una forza che mi era totalmente sconosciuta… spirituale.
Affogo! Affogo! Le donne mi accolgono quando riemergo: braccia pietose e gesti morbidi salvano il mio corpo. Le donne che mi accompagnano in mare all’alba non sono sempre le stesse, ma incontro ognuna di loro più volte. Di notte una ragazza nuda, lentamente mi afferra il sesso e inizia a masturbarmi, tento di toccarla, si ritrae, ritorna e afferra di nuovo il mio sesso, provo di nuovo ad avvicinarle la mia mano, si ritrae: ci rinuncio, lei continua. Alla fine mi dà del cibo. Il cibo che mi offrono diminuisce progressivamente. Ho ancora fame.
Le donne azzurro–blu arrivano e mi porgono un insetto verde a forma di ramo, mi fanno segno di mangiarlo. Lo mangio. Mi slegano. Mi immergono in acqua e cantano: Odô Iyà Yémanja Ataramagbà ajejê lodô ajejê nilê! L’altro canto invade la mia mente: sento le voci, la voce, le voci, la forza della polifonia fulmina la mia mente, appena n’è ubriaca e così vedo le valchirie ricordo versi tanto forti e concetti così alti che mi perdo.
Il sole mi sveglia e mi stordisce. Il mio corpo pare sciogliersi al sole: sono liquido e il mondo inizia ad esserlo con me. Questa volta nessuno mi dà da mangiare. Tutti i miei sensi sono esaltati e quanto più lo diventano tanto cresce la mia debolezza. Sono stanco e affamato. La luce va verso la terra e lentamente diminuisce mentre il buio predomina in cielo, di nuovo il canto a Mawu-Lissa straripa nella mia mente con le valchirie infuriate che percorrono una terra che si alza e arriva alla mia bocca, allora sento le radici e sento percossa la mia lingua – come terra – a passi di danza: danze frenetiche, baccanti che traboccano di vino che diventa fuoco. Lava che brucia il mio corpo e odore di ginestre tutto intorno.
La freddezza del mare combatte con il fuoco che avevo in corpo, probabilmente è questa che mi salva. Le sacerdotesse che invocano Yémanja mi danno lo stesso insetto da mangiare.
I tamburi mi svegliano. Mi circondano. Sono ancora con le spalle al palo, mi trovo al centro del villaggio, ecco il capo, sono stremato, già una volta mi ha salvato dalla fame e dalla malattia: bello, dignitoso e forte nonostante l’età, è vestito di rosso vivo. Mi si avvicina e mi mette al collo una collana a tre maglie: la prima rossa, la seconda gialla e la terza blu. La folla inizia a gridare, i tamburi si risvegliano: Dan! Dan! Dan! – alcuni mostrano di essere spaventati. Arrivano le mie sacerdotesse, sono sette e sono tutte lì. Hanno più bracciali e sono vestite con un lungo telo bianco, che le copre quasi interamente. Si muovono a scatti verso me e mi legano i polsi e le caviglie, mentre le persone smettono di gridare e il tamburo regolarizza il suo ritmo. Diventa più scandito. La folla si apre, le donne vestite di bianco si allontanano. Alcuni uomini fendono la folla che si apre e loro passano correndo. Sono forti e giovani maschi, vestiti con un gonnellino di paglia e hanno il corpo colorato di giallo. Corrono, corrono per il villaggio, tra la folla che li teme e si divide, gli unici a non temerli sono i musicisti che continuano a suonare. Il loro suono è di nuovo esploso, accompagna perfettamente ciò che avviene. Mi chiedo se è la musica che commenta le azioni degli uomini o se sono le loro azioni a seguire la musica.
C’è un uomo furioso, ha gli occhi fissi su di me, le sue grosse narici buttano fuori l’aria come un toro o come un bisonte che inarca la schiena mostrando le spalle muscolose. Il giallo che ha sul corpo, in contatto col nero della sua pelle, mi inquieta. Si avvicina, ha due coltelli nelle mani, è alle mie spalle, appoggia le lame sul mio petto. Cerca di penetrarmi col sesso eretto, caldo ed enorme, spinge, spinge, spinge finché non sfonda con forza le barriere – la porta è sfondata! I soldati periti o passati all’invasore – poi con due colpi di reni penetra tutto – rinuncia alle tue difese. Il popolo canta Kokou-Agè mentre la musica cresce ed esplode mille volte. L’uomo continua a penetrarmi con forza, mentre le lame tagliano il mio petto il sangue scorre e arriva al suo bacino, gli bagna i genitali: eccitato urla! Aumenta la velocità, i pugnali anche. Piega le braccia portando con i pugnali la mia schiena al suo petto intanto il suo bacino affonda il sesso dentro me: esplode! – dove l’errore, dove l’esistenza – Alza le braccia e conficca i pugnali sulle mie spalle. Kokou si piega in ginocchio, estrae un coltello dalla mia spalla e mentre con una mano prende il mio sesso con l’altra alza il coltello al cielo, l’assale: morde il mio sesso, la lama taglia il mio torace. Il popolo unanime grida, grida di giubilo, grida di festa, mentre Kokou divora i miei genitali e dal torace sangue e intestino scendono. È uno o sono due su di me ora? Ed io? Non ho più percezione di me, mi specchio nel carnefice che sembra sdoppiarsi. Le sacerdotesse si scoprono il capo, sono infuriate, alzano le mani al cielo e trillano, trillano! Sono loro che mi masturbavano, sono le sette vergini dai sette serpenti. È tremendo, mille bocche sento su me, non più grida ma calca confusa, la bocca sui genitali è il morso sulla mia bocca ed insieme le mille bocche che strappano la mia carne. Il sangue ricopre tutto – tutto è sangue – mentre potentemente tutto tace.
Le mie ossa si avvolgono su loro stesse così che le ginocchia sono più vicine al cranio di quanto lo fosse il bacino e le mani pietose mi seppelliscono ai piedi di un giovane albero verde.
Mentre scende la sera rimuovono il mio corpo dalla loro memoria e iniziano a danzare, come la mia anima, forse, come quella delle altre persone che erano state lì prima di me. Le anime diventano canzoni, le anime stanno nei loro canti gridati, nei tamburi, nella voce roca.
Fu così che divenni poesia.
Traduzioni.
Mi sono risvegliato in una pozza di sudore. Dalla forza delle mie letture – da Petrarca a Leopardi, da Hölderlin a Nietzsche, da Musil a Bachmann, da Pasolini a Genet – quel sogno arrivò come uno straniero amaro e ammaliante che rende a me estranea la mia stessa vita e mi spinge verso l’ignoto. Mi ha voluto completamente nudo per giocare con lui. Nudo così come avevo intuito lui, così voleva me. L’intuizione come il sogno arriva chissà da dove per dare un segno, che ha bisogno di Mnemosine, l’intuizione, che è come un ferro rovente tra le mani, è sempre presente: un brutale odore di jacaranda e glicine fresco e pungente come un avvento, come una promessa o una condanna. Un attimo dopo è puro silenzio e attesa per la nascita. Ho seguito l’olfatto, che è un senso silenzioso, il senso di quel qualcosa che si dischiude per un secondo e si richiude nel silenzio e imponendo silenzio. Ascolto.
Senso nessuno; mi sembra una cosa completamente priva di senso. Io continuo ad essere scrittore per forza d’inerzia, per abitudine. Ho iniziato a scrivere poesie a sette anni e mezzo e non mi sono chiesto perché lo facessi, ho continuato a scrivere per tutta l’infanzia e l’adolescenza ed eccomi qui a scrivere ancora. L’unico senso possibile è un senso esistenzialistico, cioè l’abitudine ad esprimersi, così come si ha l’abitudine di mangiare o dormire. I limiti sono quelli linguistici, cioè io come scrittore italiano sono molto limitato, preferirei essere uno scrittore di lingua swahili, che è la dodicesima lingua del mondo ed è parlata nel Kenia, in Tanzania, in Congo, ecc…
(P. P. Pasolini)
Pasolini, con la sua intervista e i suoi Appunti per un’Orestiade Africana, mi dischiudeva una porta. Ho intravisto una strada fatta di luce, ma era ancora lontana e non sapevo se le chiavi che avevo in tasca avessero potuto aprirla, in realtà non sapevo nemmeno se avevo le capacità per trasportarla da una posizione chiusa a quella aperta.
Aprite la porta
Mi manca l’aria
e all’interno della stanza sudo
per solitudine
mi sento rinchiuso.
Non vedo finestre ma
una porta di carta mi sta davanti
ci batto con mani
testa e spalle
la porta sibila un sinistro lamento
ma terra e sangue è l’uomo non m’aprirà.
Sangue
sangue dal naso, sangue dalla bocca,
sangue dalla testa usato come inchiostro.
Mani, testa, spalle stanchezza.
Con la testa come di struzzo
nella sabbia, ancora batto
ma terra e sangue è l’uomo non m’aprirà.
Estraniato barcollo
urlo come
un bue al macello
aprite la porta!
la porta aprite!
ma terra e sangue è l’uomo non m’aprirà.
(E. Kezilahabi)
Questo urlo è tanto esistenzialista quanto la scrittura di Pasolini. Tutto il diwani è esistenzialista, Kichomi (Dilaniante, 1974) è il dolore dilaniante di Heidegger che spezza ma non schianta in schegge dirompenti in tutte le direzioni, divide e attira a sé. Lo spezzare, come Kichomi da kuchoma (infilzare, dilaniare), divide e riunisce ciò che nello stacco è tenuto distinto. Il dolore è differenza, cioè spazio tra le cose dove domina lo spezzamento che, però, congiunge, aduna nello spezzamento. Allora, se questo spazio consente alle cose e al mondo di esistere, la traduzione cosa sarebbe se non una forza contraria alla differenza e quindi, in ragione di tale tensione, la sua direzione sarebbe il nulla, la non esistenza. Fusione, unione indiversificata è l’utopia di ogni traduzione; c’è nella traduzione un qualcosa di erotico. Nell’atto sessuale (ce lo insegna Bataille) e nella traduzione c’è un drammatico tentativo di fusione, una perdita del principio di individuazione che vorrebbe dire un perdersi, ma questa tensione è utopica e ingannevole perché se raggiunta metterebbe fine all’esistenza annullando i presupposti e i proponimenti del tentativo. L’Eros e la traduzione presuppongono, quindi, un errore, da qui la coazione a ripetere tale azione, la sperimentazione e la ricerca di tecniche sempre più sofisticate. Gli esperimenti sono necessari alla comprensione, nulla conosco se non ciò che passa per il mio corpo; capire vuol dire concepire una metafora che mi spieghi il nuovo attraverso il vecchio, ciò che già conosco. Nulla conosco davvero se non sono pronto a tradurre me stesso.
Sempre bianco e nero
Mia bocca ancor t’inarchi sulla mezzanotte
lingua scura mescola in me sveglie note
legame singhiozzante, con te, per intere notti
interi giorni luce accolgo, non mi fa schietta.
Che bello, che nessuno sappia il nome tuo
che la giovane negritudine mia discenda dalla tua antica.
dalla tua antichissima, primigenia.
Tu mi chiami come la regina dello Zambesi.
(I. Bachmann)
In una buona traduzione non si traducono i nomi propri, ma trovandosi lungamente in un paese straniero, se non si traducesse il proprio nome equivarrebbe a non aver fatto nessun viaggio.
Il viaggio
Il tempo del mio viaggio albeggia la notte
coglierò tutti i baccelli lucenti in cielo
e li metterò nel fondo delle mie tasche
finché piene ad uno ad uno li mangerò.
Quando arriverò aprirò la bocca per il chapati
d’oro prima che si freddi sulla collina;
dopo non ci sarà più luce,
tutte le immagini e le metafore della luce
non ci guidavano senza oscurità.
Per questo allora come un contadino cieco
spargerò semi nell’oscurità.
(E. Kezilahabi)
La notte e il silenzio si erano ormai imposti, una notte tanto scura da oscurare tutti i nomi e le cose. Una notte adatta a sognare e un giorno silenzioso, ma senza armonia.
Kinjekitele: Sai domani cosa diranno? Il signor ufficiale dirà ai bambini - ai nostri bambini Kitunda - che ci siamo sbagliati. Lottare è un errore? Lottare per la patria sarà un errore? Vuole che io lo aiuti dicendo che invero ci siamo sbagliati. No. Domani, se lo dicessi, le persone del sud, del nord smetteranno di lottare. Perderanno il loro coraggio. No! Non dirò quella parola. Una parola è nata. I nostri bambini diranno ai loro bambini questa parola. I nostri nipoti l’ascolteranno. Questa parola un giorno non sarà un sogno, ma realtà – verità.
Kitunda: Quale parola?
(Kinjeketile non risponde)
(E. Hussein)
È nell’ora del silenzio, quella nonviolenta, quando il mio corpo si traduce in idea, che trovo una parola nel mio abisso e la riporto alla luce – come Ogun dalle viscere della terra afferrò la lama di metallo e il figlio di Liyongo che lo ficcò nell’ombelico:
[…]e se il vento mi insegnerà la lingua del silenzio
vorrà dire che quella donna ha già partorito.
(E. Kezilahabi)
Il viaggio[1]
Dar es Salaam
Nessun punto
fermo
è
Dar es Salaam
conosce l’ebano profumato
sotto lo scialle rosso
sotto i versi arabi
grida la gola nera
senza fretta senza fretta
polepole taratibu ndio mwendo
c’è sempre un culo da fottere in città
non s’affretta finché la foga dei corpi danzanti
- (quasi) si fondono
molle e dolce ebano sognante e profumato -
frenetici tamburi
muscoli frenetici
trillano glutei femminei di maschi arrapati
- eretti enormi
nella notte fonda
stellata -
suda la pelle harufu
tutto accade Poesia uhuru
ushairi wa ngoma kama mwili wa moto
odore
la Mama-lishe impasta i chapati
terra di benzina, fango e polvere
alle sue spalle pubblicità una soda nuova
Melinda Tangawizi Cocacola
il Masai forte di ebano treccine e perline
colorate minaccia col suo lungo coltello
il suo nuovo i-pod
la ngoma dei razzismi s’affretta
nel chiasso della città
una mamma muta lancia del figlio
il grido inscheletrito
damu
sembra asciutto in città
chiusa nessuna cicatrice
un brutto gioco di potere e controllo
Miranda Tangawizi Konyagi siwezi kuelewa
urlami contro il tuo essere
bloccami col tuo fucile quotidiano
in una strada qualunque
sparami in faccia la tua collana rossa rabbia
e disinteressato al colore dei fiori
che si dischiudono come molle anfratto.
Al centro – kitovu – una via di terra rossa
apprestandosi alla meta i vitenge danzano
ritmico passo sul capo sacco polveroso
caldo giorno la gola del viandante secca ha sete
Dar es Salaam nella sua lingua il silenzio grida
Bagamoyo
Tra le rovine della città – pioggia di raggi
sulle colonne in mattoni coloniali
attraversati da bovini e pescatori,
là alla spiaggia come tempio del mare –
le strutture per spennare i turisti:
non tornerò mai più Bagamoyo
non trovando la dolce malinconia del suo cielo
non l’amara gaiezza dei dagaa
non la struggente alterigia di non so quante stelle
senza non potrò ricordare della città il nome.
Se vai per mare datti cuore per i mari aperti
venduta la tua pelle per lidi lontani datti cuore
venduti i tuoi muscoli da bestia nei campi
mani, gola e cuore datti cuore tienili aperti
tieni nel palmo la bellezza e i sogni stretti nel cuore
Zanzibar
Un vento musulmano
cantilena all’orecchio
si lega sangue arcano
chiara luce Zanzibar.
Ti accoglie e ti scaccia
l’isola di ogni addio
brilla forte la sabbia
tanto profondo il mar.
Sagace sì l’oblio:
le vesti scolorate
nilipoanza safari
upeo wa wimbi bahar.
Attraverso le grate
bocca lingua e gola
parole sotterrate
si nega il Da-sein Neger.
Chiodi di garofano
sotto il piede nudo
zenzero e zafferano
tra i venti di Zanzibar.
Nessuno scudo
all’olfatto e all’udito
il mio corpo è nudo
placido amar.
Segno le onde: uno iato
tra il sangue e il vento
si increspa il mito
ibrido come l’alcazar.
Perché all’alma tormento
di mare sì vestito
perché il ritmo che sento
è uno sh di shair.
Di foresta vestito
di color di zenzero
fior di zafferano sì
d’esser pronto a danzar.
Comporre utenzi nero
un ponte di poiesis
danza il gungu nero
lingue rosse scatenar.
Il tamburo l’evento
da giogo straniero
libertà trilla il vento
spalanca Ishtar.
Campi d’alghe il sentiero
che condusse alla figlia
tra gambe nere intero
tamburi e trilli scaternar.
Liyongo preso: rapsodia
sogno profondo canto
Ogun da gungu sia
rapito e un penetrar
terra rossa: uno schianto
mischia sangue e mar
ago di rame amaranto
salvezza del generar.
Le creste del mar
sulla mia pelle
segni del frustar
com’è profonda Zanzibar.
Per strada
Dimmi come si fa ad abbracciare un baobab
t’aggrappi ai rami attraversa la faglia un bimbo
verso le radici mani ai rami urla al cielo
esplodono le faglie e l’utero terreno s’incendia
le fiamme seguono l’orientamento del baobab
lingue di fuoco come gocce un golfo da attraversare
tra essenza ed esistenza il neonato urla all’alto utero
come i fiori sotterranei del baobab urlano al cielo
e le radici celesti del baobab urlano alla terra
nostalgici e bramanti.