“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 07 November 2013 01:00

Il tormento (mancato) di Pierre

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Il tentativo di questo Pierre e Jean è di operare in riduzione e scarnificazione dell’opera – via ogni possibile orpello scenico, via ogni ingombro d’inchiostro – senza rinunciare ai temi e agli umori che vi appartengono. Compattezza, velocità, accelerazione ritmata, attenzione alla micromimica facciale e gestuale, alternanza dei toni, dichiarazione esplicita del fasullo con uno sguardo diretto alla platea, doubling perché quattro personaggi – per due attori – siano vedibili, ne sono le caratteristiche fondanti. Assistiamo così ad una vertiginosa interpretazione che, quasi ruotando su se stessa di continuo, genera un costante cambio di rapporti, dialoghi, incontri, discussioni, liti e riappacificazioni, amori e dissapori, unioni e partenze.

Jean e Rose, la signora Roland e Pierre, Rose e la signora Roland, Pierre e Jean: nel breve volgere di un solo minuto – ad esempio – quattro differenti situazioni vengono poste su scena, con l’ausilio di due sedie e dei due attori. Dove adesso c’è Jean c’era la signora Roland, dove c’è Pierre ci sarà Rose, in un turbinio continuo da mascheramento consapevole che è anche uno smascheramento palese: noi non crediamo alla presenza dell’uno o dell’altra ma alla bravura interpretativa nel porgere la storia, nel riuscire a ripresentarla sul palco, nel renderla evidente a chi assiste. Che non vi sia davvero immedesimazione ma un gioco di ruolo perfettamente calibrato lo rivela l’inizio, nel quale le descrizioni che Maupassant fa dei due fratelli (seconda pagina del romanzo) diventano esposizioni reciproche: Jean presenta Pierre, Pierre presenta Jean e, ad un tempo, potrebbe dirsi che già siamo nel pieno della messinscena ma, anche, che siamo al suo prologo, ad una sua fase pre-recitativa, da chiarificazione necessaria, da indicazione propedeutica.
Pierre e Jean in questo funziona: la regia spinge il testo a procedere spedito, valorizzando al massimo il gioco-teatrale-del-giocare-al-teatro, e i due attori si mostrano pronti a sostenere uno sforzo moltiplicato al quadrato ma coincidente nel tempo: recitare ciò che si deve recitare badando, nello stesso istante, a ciò che sta per sopraggiungere: ho davanti Pierre ma tra poco avrò davanti Rose; adesso c’è Jean ma tra un secondo tocca alla signora Roland.
Ne viene, talora, un’interessantissima interrelazione testuale e re-citativa per cui l’inizio di una frase appartiene ad un personaggio, la sua conclusione ad un altro: quando accade è perché si vuol produrre svelamento, sottolineatura, messa in evidenza di un passaggio-chiave dell’opera: “So che in questi casi si lascia ai due fratelli in parti uguali” (pronuncia la signora Rose) “O no? O no?” (incalza Pierre), ed è una maniera con cui incidere a fuoco nell’aria l’importanza del frammento che si sta appena mostrando: l’insinuazione del dubbio, i primi scricchiolii, la sottolineatura di un’ombra che comincia ad avanzare. Pierre e la signora Rose sono lo stesso attore, per cui c’è continuità e non distacco apparente (mutazione della voce, dell’espressione e dello sguardo sono i segni accennati che ci fanno comprendere del cambio di ruolo) ed è come se una frase venisse scritta con due colori diversi.
Gli applausi, per tutto questo, sono meritati.
Dove invece s’insinua una perplessità personale, una piccola insoddisfazione che non è passata al momento di scrivere questo articolo, è sull’adattamento del romanzo, sulla sua riscrittura in trama teatrale. Il Pierre e Jean di Maupassant, infatti, non è soltanto una perfetta partitura sul contrasto filiale, sull’odio tra fratelli, sulla gelosia tra chi ha tutto (il denaro, una casa, una donna, l’amore dei genitori, un futuro assicurato, lo sguardo benevolo degli altri, la tranquillità dell’animo, la soddisfazione sociale) e chi non ha niente ma è anche un romanzo che – dalla sua metà in poi – vira verso l’abisso, verso lo sprofondo, verso il crollo verticale e più buio. Il Pierre di Maupassant, infatti, è palesemente un personaggio dostoevskijano, una sorta di inquisitore degli altri e di se stesso, un tormentatore assiduo, implacabile, ostinato, un indagatore d’ogni ricordo rimasto, d’ogni indizio scovato: “Vediamo, prima di tutto esaminiamo i fatti; poi ripenserò a tutto quel che so di lui, al suo modo di comportarsi con mio fratello e con me, cercherò tutte le cause che possono essere state alla base di questa preferenza…”.
Pierre passa da stati d’allucinazione ad una vera chiaroveggenza sugli eventi, dubita e afferma, disconosce e sostiene, rifiuta e poi accetta, sembra non credere (e probabilmente non vuol credere), cerca di trovare una o più spiegazioni alternative, si scortica ripetutamente la carne col pensiero pur di non dichiarare che la madre è stata l’amante di un amico di famiglia e che il fratello gli è fratello soltanto per metà. Egli tentenna, si blocca, soprassiede poi torna alla carica ed allora fantastica, scava, cerca, trova e – quando ha trovato – collega, ragiona, ricostruisce, rivive. “Sono pazzo a sospettare di mia madre” pronuncia a voce bassa, nel pieno di “un torrente di affetto e di tenerezza, di pentimento, di preghiera e di desolazione” che gli travolge il cuore. Ma − nella stessa pagina e nelle seguente e per quasi un terzo del romanzo intero − riprende subito la sua inarrestabile marcia verso il segreto, il riposto, il doloroso, il cupo, il veritiero, facendo della stessa madre che ama, e vorrebbe continuare ad amare, quasi una lurida, immeritevole di rispetto, abominevole nella finzione con cui cela la colpa.
È questa estrema lucidità da inquirente a rendere Pierre un solitario, un isolato, un diverso; è questa sua passione arcigna e spettrale, inflessibile, quasi delittuosa, a farne uno straniero, un rifiutato, un espulso. Per Pierre tutta la realtà muore: muore la madre e la sua fedeltà al padre, muore il padre ed il suo orgoglio maschile, muore la fratellanza, la possibilità di condivisione degli affetti, muore l’idea stessa dell’amore, muore il nucleo familiare, muore la casa, muore la semplicità affettuosa e accaldata di una colazione in famiglia, di un brindisi a pranzo, di un tranquillo riposo notturno. Morendo tutta la realtà egli se ne esclude e – per quanto apparentemente abbia bisogno di una piccola spinta, di una raccomandazione a partire – desidera intimamente l’abbandono, l’allontanamento, l’addio.
Tutto questo nero – ombra che vive a lato dei fatti che accadono e di cui solo Pierre sembra accorgersi – manca al Pierre e Jean adattato da Palmese, ovvero: è presente in qualche frammento, appare per qualche attimo, è dichiarato in certe battute (“Devo sapere, devo sapere…”) o mostrato in un singolo quadro recitativo appositamente più lungo (il pianto disperato e silente di Pierre, accasciato alla sedia, mentre Jean, anch’egli con le mani sul volto, attende di tramutarsi in sua madre) ma non ha l’ampiezza – e dunque l’importanza – che meriterebbe davvero. Così quando Pierre lamenta “Ma non vedi che sto morendo di dolore da un mese, che passo le notti a non dormire e i giorni a nascondermi come una bestia, che non so più quello che dico e quello che faccio”, noi possiamo dire che no, non si vede, che questo mese non c’è, che non c’è la larga realizzazione del crepaccio sul ciglio del quale Pierre cammina, sempre ad un passo dal gettarvisi dentro. Non c’è questo male sadico – gravoso, inesauribile, insaziabile – che, quando è stato associato all’arte della scena, ha fatto pensare non alla farsa ma (vedi gli studi di Arnaldo Colasanti) ad un “teatro della crudeltà”, condotto con “inquieta follia” e “mostruosità deformata” da un singolo che rimane singolo: appartato, ammalato, anormale, fatalmente destinato al silenzio, alla sparizione perpetua e definitiva.
Non c’è perché perduto nel bel gioco vorticoso; non c’è perché sacrificato all’interessante giravolta velocissima. Non c’è perché forse non può esserci tutto quando si riduce, si compatta, si operano scelte complicate. D’altronde è il destino delle cose: alcune restano mentre altre – pur fondamentali – vengono disperse, si lasciano andare, si permette che sfumino o che tacciano, anche per sempre.
Accade a Pierre nel romanzo, accade al suo tormento in teatro.

 

 

Il Teatro cerca Casa
Pierre e Jean
dal romanzo di
Guy de Maupassant
drammaturgia e adattamento Massimiliano Palmese
regia Rosario Sparno
con Raffaele Ausiello, Carlo Caracciolo
foto di scena Cesare Abbate
durata 50'
Napoli, Interno privato, 4 ottobre 2013
in scena il 4 ottobre 2013 (data unica)


 

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