“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 20 January 2021 00:00

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

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Alain Fleischer è un caso di artista totale. Fotografo, scrittore, regista e direttore de Le Fresnoy, singolare laboratorio delle arti che si è posto in lungo confronto col cinema, Fleischer ha saputo contemplare le ragioni della specificità delle discipline artistiche in un processo olistico di contaminazione: nel suo percorso, lo spirito euristico del documentario non ha abdicato al fascino dell’elegia, né lo sperimentalismo ha assunto le sembianze di un rito della forma pura; in ciò, la complicità della scrittura ha costituito l’eco generativo delle cose nel dominio consapevole dei dispositivi della finzione.

Fleischer ha eretto un corpus concettuale sul minimalismo come ragione ontologica del pensiero e delle sue rappresentazioni, utilizzando entro termini criticamente sensibili i principi dell’ossessione e della coazione a ripetere. Nella serialità come momento organico del postmodernismo, il suo cinema si è mosso nella rappresentazione della distopia quale horror vacui del quotidiano, intervenendo con folle rigore nell’opera di trasfigurazione di quel dispositivo rituale e mitico che è la ragione prodromica del simulacro. La riconduzione al principio della dialettica delle arti si realizza nella tecnica suggestiva del messaggio seriale, quel desiderio insano per il rito come luogo di origine di un’esistenza di svuotamento e di consunzione psicologica.
Fleischer non ha mai filmato gli usi, il palinsesto delle azioni umane rubricate dal codice comportamentale: nel suo cinema, nulla aderisce al codice. La cerimonia visibilissima di molte sequenze delle sue opere racconta ossessivamente un catalogo di idee in intimità, di concetti in azione; allievo di Claude Lévi-Strauss, applica l’etnologia dello sguardo ai nuovi selvaggi della modernità, gli abitanti della metropoli. Nessun ornamento pletorico, nessun dramma esasperato: della monotonia delle azioni seriali il cineasta coglie gli oscuri avvicendamenti interiori dei suoi personaggi. Lui stesso scrive: “È quando ogni drammatizzazione psicologica è assente che l’oscurità appare nelle sue cerimonie più segrete”. Cinema della cerimonia non presente all’interlocuzione, diretto alla rappresentazione di un paesaggio quotidiano che è, esso stesso, rappresentazione, universo disciplinato e insieme fantastico che il cineasta registra con la macchina da presa assumendo l’orrore delle abitudini dei suoi interpreti accidentali, i loro comportamenti, le loro fissazioni, i loro itinerari, l’(in)conclusione spaventosa dei loro riti. La vecchia idea del pedinamento cinematografico ha trovato in Fleischer un interprete ossessivo, inquietante, vistosamente monocorde e maniacale, sfinitamente elencatorio.
Prossimo al cinema di Warhol, egli se ne distanzia dal momento che la sua analisi si rivolge a un mondo del tutto ordinario occultando, voyeuristicamente, la macchina da presa. Se Warhol è in qualche modo il punto di non ritorno del cinema di finzione, perché finge qualcosa che è già finto, Fleischer registra la realtà in tutta la sua insensatezza. Cinema semplicissimo, chiarissimo, radiografico, muto. Eppure nella luce si nascondono le ombre: percezioni di traumi complessi, frammenti di racconto, ragioni contro ragioni che baluginano attraverso il cinema come uno spazio ubiquo tra finzione e realtà.

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