“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 02 February 2020 00:00

Fellini, Pasolini, le tette e il culo

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Quella che segue è una divagazione nata dalla lettura di un articolo o, per meglio dire, di un testo di una conferenza trascritta e pubblicata alla vigilia del centenario della nascita di Federico Fellini. Il pezzo ha aperto le danze di pubblicazioni e celebrazioni di questo ricco anno felliniano, è firmato Goffredo Fofi, è qui ed è molto bello. Parla della figura del matto e del marginale nel cinema del riminese e lo fa con grande competenza, vasta cultura cinematografica e conoscenza diretta di alcuni dei protagonisti del ’900 italiano. Fra l’altro suggerisce una spiegazione diversa dalla vulgata sulla rottura tra Fellini e Flaiano, forse causata non dall’invidia fra due artisti che, a parità di talento, godevano di un diverso grado di successo, bensì da certe reazioni inappropriate del regista dinanzi alla figlia minorata dello scrittore e sceneggiatore dei suoi film più belli.

Tuttavia, a un certo punto, Fofi glissa su un aspetto che riconosce come importante, ma definisce “un po’ rétro”, è il rapporto di Fellini con le donne, “i personaggi femminili, le tettone, le saraghine, le ‘Anite-Ekberg’ dei suoi film, i manifesti giganti che prendono vita e ossessionano Peppino De Filippo eccetera, eccetera”. Anche l’eccetera eccetera è di Fofi, il quale relega questo lato del fellinismo a un certo strano modo di essere maschi al tempo del colera. Un modo superato, deleterio e irrispettoso nei riguardi della donna. Soprattutto film come Giulietta degli spiriti e La città delle donne, continua il critico, andrebbero analizzati solo da donne, perché “può scattare nei maschi una complicità con Fellini, anche un po’ deteriore”. Attenti alla virgola: c’è il rischio che la complicità sia deteriore, ma la complicità maschile è in sé un rischio, a prescindere. Scatta lo spirito di caserma, quel meraviglioso posto in cui continuano a mandarci anche ora che il servizio militare maschile obbligatorio è finito (non da tanto e chissà ancora per quanto).
Eppure nessun intellettuale dell’area politico-culturale di Fofi, per quanto indefinibile possa essere l’area politico-culturale di un intellettuale libero, aprirebbe oggi una conferenza su Pasolini con allusioni a un certo modo (rétro?... antico-greco?...) di essere omosessuale. Lo faceva la stampa di destra, chiamandolo ora “la Pasolina”, ora “comunista col cu... ore”. In tempi più recenti, eppure già lontanucci, ricordo un dibattito televisivo con Ruggero Guarini che si limitava a segnalare come gli scandali friulani che misero in imbarazzo il PCI locale e spinsero il poeta ad andarsene a Roma continuerebbero a imbarazzarci ancora oggi. Si beccò gli strali di Laura Betti, che vigilava in diretta con occhi di bragia.
E invece, chissà perché, ormai si può tranquillamente dire che c’è un modo deteriore di essere eterosessuale. E non parliamo dello stupratore o del padre/marito padrone, ma semplicemente di un concetto di “mascolinità tossica” sempre più esteso ormai, fino a coinvolgere i vitelloni gentili alla Franco Interlenghi. Nuovo peccatore, in questo rinnovato senso del peccato, è il “maschio che si volta”. A un certo punto Fofi cita proprio Gli italiani si voltano, cortometraggio di Alberto Lattuada inserito nel film collettivo L’amore in città. È un film girato per strada, come un reportage muto, e mostra gli effetti sulla popolazione maschile dell’incedere elegante di un pugno di belle donne variamente vestite. Fofi lo cita in quanto retaggio di una cultura ancora più arretrata di quella a cui apparterrebbe Fellini, e invece a me pare un lavoro che, oltre a testimoniare una freschezza ingenua di un momento unico nella storia d’Italia, già libera eppure ancora repressa (siamo agli inizi degli anni ’50), anticipa inquadrature che avremmo rivisto più tardi in François Truffaut, un francese che si voltava. Il protagonista de L’uomo che amava le donne non fa altro, per tutto il film, se non voltarsi, guardare, seguire. Come una figura mitologica condannata a un’unica ossessione, un unico gesto e un unico tragico destino, muore mentre cerca, dal letto di un ospedale, di rubare un’ultima occhiata alle gambe di un’infermiera. In fondo, la flânerie è stata anche questo: il flirt di un secondo tra due parallele che magari si incontreranno nell’eternità, basti leggere A una passante di Baudelaire. Tutti esemplari di maschi eterosessuali del tempo che fu, senza dubbio.
In tempi assai più recenti e prosaici si è voltato pure Pier Luigi Bersani. Lo dice Francesco Piccolo nel suo Il desiderio di essere come tutti, laddove si narra la caduta di Berlusconi che, come sappiamo, non cadde sui sospetti legami mafiosi ma sul bunga-bunga. A testimoniare una certa vaga comunanza antropologica tra destra e sinistra, Piccolo racconta di aver visto il segretario del suo partito all’aeroporto di Fiumicino. Avanza serio e pensoso, ma quando incrocia “due ragazze bellissime, con dei gonnellini stretti e corti”... zac!, si gira e guarda il culo. “Da quel momento” – continua lo scrittore – “ho cominciato a osservarlo alla tv con un sentimento diverso, positivo, mentre si indignava contro tutto e tutti; mi faceva più simpatia; e ogni volta ho pensato che se avesse messo nel suo ruolo politico un po’ di quella debolezza fugace che aveva avuto quando ha pensato fammi vedere se hanno un bel culo, forse sarebbe stato più coinvolgente”.
Sulla proposta politica di esibizione della “debolezza fugace” si sarà nel frattempo ricreduto anche Piccolo, visto che se c’è una cosa che non manca alla politica italiana è l’esibizione di debolezze fugaci, vuoi per i culi, vuoi per la Nutella. Ma le debolezze di un artista sono un’altra cosa. Fofi lo ammette quando afferma che il cinema di Fellini, pur abbondante di tettone, “si colloca all’opposto del cinema delle maggiorate”, sebbene poi liquidi l’autore come un maschio etero succube del suo tempo. Fellini vola più alto dei suoi pur parziali e amorevoli detrattori proprio perché sa elaborare un discorso e un universo poetico che comprende (nel senso di includere e di capire) le maggiorate e gli uomini che le guardano. Tanto per cominciare, possiamo credere quanto ci pare di aver superato i turbamenti del vecchio Peppino davanti alle tette di Anita Ekberg, che gli frullano in testa con la musichetta “bevete più latte”, ma quando poi un assessorato decide di fare una campagna per invitare a bere meno vino ricorre nuovamente alle tette e parte l’ennesimo tormentone polemico, come dimostrano le recentissime liti su un cartello pubblicitario della Regione Sicilia.
Soprattutto in un film Fellini aveva colto in pieno vaghezza e vacuità di un certo discorso femminista (ma non faremo finta che esista un solo femminismo) sul maschio. In il regista Guido Anselmi cerca un equilibrio tra due oggetti di mero amore o profonda attrazione chimica: Sandra Milo e Anouk Aimée. Quest’ultima è la donna perfetta, quella che Guido non a caso ha scelto come compagna ufficiale nelle occasioni pubbliche, sebbene poi si scopra che in camera dormono su letti separati e Guido raggiunge l’altra amica in una pensioncina poco distante. Ed è proprio in un battibecco fra i due letti, a luce già spenta, che Mastroianni pronuncia uno sfogo che potrebbe essere un manifesto: “Io non lo so che cosa credi di vedere, di scoprire tu nella mia vita riducendo tutto alla meschinità di uno che ruba in cucina”.
La rappresentazione del maschio eterosessuale oggi pare sempre più condannata a questa scelta tra le mani sporche di sangue o le dita di marmellata (o Nutella?): il violento continuatore del tradizionale mestiere delle armi (anche nel tinello di casa) o l’infoiato goloso che si volta e sbava e rubacchia in cucina. Questa dicotomia è la lettura fatta da quel modello femminile vincente che è appunto Anouk Aimée. Corpo asciutto, sguardo severo anche quando ride, sintassi affilata quando parla e un sottile malumore per l’andazzo generale di casa e dell’intero globo terracqueo.
La definizione di questa donna futura ha colonizzato anche il mondo dell’infanzia. Cos’è tutto questo accapigliarsi su Greta Thunberg se non anche un dibattito accalorato su come stiamo crescendo i nostri figli e, soprattutto, figlie? La mia bolla digitale vale quel che vale, ma è piena di rampolli esibiti con orgoglio ogni volta che fanno uno sciopero, impresa ben più prestigiosa di un secchionissimo 9 in pagella (parentesi nostalgica che potete saltare: eroismo era quando, dopo uno sciopero, bisognava falsificare sul libretto delle “giustifiche” la firma “del padre o di chi ne fa le veci”, dicitura decrepita eppur così acutamente freudiana e malinowskiana: c’è sempre uno che fa le veci del padre, chiamiamolo zio o genitore ipsilon e non ne parliamo più).
Questa apoteosi della donna e del bambino coscienti e impegnati è encomiabile e prevedibile: siamo occidentali e sentiamo il dovere di forzare il passo della Storia. Eppure chissà se chi spinge tanto verso il modello Anouk e affossa la procace Venere Milo ama veramente le donne e i bambini presi nella loro autentica diversità plurale. Si amano i figli perché scelgono la facoltà che volevamo noi o anche quando delinquono? Quando sono lo specchio vanesio delle nostre brame o semplicemente, come la prima volta che li abbiamo visti al mondo, perché esistono? È il problema che proprio Pasolini, omosessuale, scapolo e senza figli, proiettava nel suo rapporto con il concetto gramsciano di popolo. Molti, a suo tempo, lo bollarono come paternalista e populista (ben prima che l’aggettivo si appiattisse sugli Orbán e Salvini), mentre i suoi tanti ammmiratori odierni tendono a rimuovere l’intoppo. Eppure è un grumo di contraddizioni che il poeta esprime magnificamente dialogando con le ceneri di Gramsci. In quel sommo poemetto Pasolini dice di sentirsi “attratto da una vita proletaria / a te (cioè a Gramsci) anteriore”, di amare nel popolo l’allegria e non “la millenaria sua lotta”, la sua natura e non la sua coscienza di classe. Anche qui la grandezza della poesia sta nell’aver oggettivato un problema, non nell’aver creduto di risolverlo. È il verbo del dibattito politico che si fa carne, la carne del poeta, a costo di dare un pizzico di ragione perfino a certi titoli fascisti. Perché un po’ è vero, anche se non andrebbe detto con malignità, che Pasolini era comunista col culo e/o col cuore (sono la stessa cosa, non lo dico io, lo dice la scienza, leggete L’animale donna di Desmond Morris, in particolare ai capitoli Il seno: nella femmina umana si sarebbe sviluppato tanto proprio per imitare i glutei quando le scimmie umane hanno cominciato a guardarsi di fronte e non di dietro; Le natiche: i cuoricini trafitti che disegnavamo sui diari scolastici non c’entrano nulla con il muscolo cardiaco, sono più simili alla stilizzazione di un culo).
Questa passione che chiamiamo amore è qualcosa di più grande della stima, ed è pur vero che il maggior problema nei rapporti amorosi, qualche volta, è proprio la mancanza di stima, cosa che non ci preoccupa finché restiamo innamorati (ma fatevelo dire dagli avvocati matrimonialisti cosa succede quando l’amore finisce). Chi nella donna ama la sua coscienza, “la millenaria sua lotta” per l’emancipazione, difficilmente tollera un modello di donna che, per citare un’altra polemica italica recente e smisurata, sta un passo indietro come le vallette a Sanremo. Eppure il mondo è davvero pieno di donne che stanno bene stando un passo indietro o che stanno bene nelle scollature generose; così come è pieno di bambine che amano il rosa, i diademi di plastica, i bambolotti, i meccanismi più vecchi (vieti?) d’identificazione con quel femminile lì. E all’università scelgono, senza imposizioni apparenti del “turbopatriarcalismo apolide”, Lingue piuttosto che (occhio: è avversativo!) Medicina, e se prendono Medicina poi fanno Pediatria e non Cardiochirurgia. “Anche essere uno stereotipo comportava una grande fatica”, ricorda ancora Francesco Piccolo nel più recente L'animale che mi porto dentro. Si riferiva ai maschi, ma vale anche per l’animale femmina quando un certo stereotipo non corrisponde alla spinta propulsiva del progressismo di genere. La cosa si fa persino drammatica se quello stereotipo finisce addirittura per regredire alla figura di femmina sottomessa e autopunitiva. Così, in questo momento storico, mentre in America si rischia l’esilio maccartista per una battutina su un paio di tette, agli ultimi Grammys fa incetta di premi una ragazzina diciottenne che canta cose del tipo: maglietta bianca, ora rossa di sangue del mio naso, ematomi sulle ginocchia per te... ma mi piace quando prendi il controllo della situazione anche se sai che non ti appartengo, ti lascio fare... a mia madre piace canticchiare da sola, ma questa canzone non la canterà se andrà a leggersi il testo (solidarietà alla mamma di Billie Eilish).
Curiosamente un certo femminismo più agguerrito, pronto a spazzare via gli stereotipi che ha dovuto sempre combattere, diventa pasolinianamente più contemplativo e rassegnato quando si parla di un tema come il velo islamico, che in Italia non merita la metà delle parole spese sul ruolo di una valletta a Sanremo proprio perché le battaglie che l’avanguardia delle nostre donne sta ingaggiando oggi sono altre, riguardano i ruoli di potere nelle redazioni dei grandi giornali, nelle multinazionali e nei partiti, dove effettivamente sono ancora in minoranza. Le altre sisters, quelle che sono saltate nel postmoderno senza passare dal moderno, dovranno cavarsela da sole. E se si coprono è meglio, così i porci italiani non si voltano e il Lattuada di turno si fa una sega.
A proposito, in quel film collettivo c'era anche un corto di Fellini: Agenzia matrimoniale. Tra l’apertura totale degli incontri fortuiti e la solida concretezza dei matrimoni combinati c’è tutta la gittata del grido della carne. L’erotismo pavloviano, meccanico, ci dirà Fellini anni dopo, spinge Casanova ad accoppiarsi finanche con gli automi. L’alternativa è incanalare l’eterna disponibilità alla copula in seno alla coppia stabile e procreativa. Non a caso i corridoi in cui si nascondono gli uffici dell’agenzia dal nome fin troppo scoperto di Cibele (Magna Mater) pullulano di bimbi come il corridoio del treno in cui Snaporaz/Mastroianni si incammina verso la toilette dove lo aspetta la bella e misteriosa passeggera che lo introdurrà nella “città delle donne”.
Sono i bimbi sani annunciati e promessi dalla bellezza di chi si sceglie e si unisce, ma sono anche i figli mancati, per esempio quelli che Federico e Giulietta non ebbero mai, oppure la figlia minorata dei Flaiano che avrebbe scatenato nel regista le stupide reazioni poi giustamente rinfacciategli dallo sceneggiatore furioso. È l'inganno che la carne infligge e subisce, il segreto nascosto sotto le curve muliebri che l’uomo del futuro dovrebbe smettere di guardare. All’ultimo povero testardo, dopo aver spiato un ultimo culo, non resterà che ripetere con il poeta: “Ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”.

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