“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 27 January 2020 00:00

“La ragazza d’autunno”: il ‘sottosuolo’ di Balagov

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La Leningrado del 1945, in cui si svolge La ragazza d’autunno (Dylda, 2019) di Kantemir Balagov non è troppo diversa dalla Pietroburgo di molti romanzi di Dostoevskij.

Innanzitutto perché si tratta della stessa città e, in secondo luogo, perché lo sguardo narrativo del regista non si discosta molto dalla concezione dostoevskijana dello spazio e degli ambienti. Gli interni rappresentati nel film sono veramente degli spazi infernali separati da tutto il resto. Gli androni e le cupe camere dell’ospedale dove vengono curati i reduci dalla guerra e dove vive Iya e, successivamente, la stanza in cui la giovane andrà a vivere con Maša, si configurano come una vera e propria tana di personaggi del sottosuolo degni del romanzo di Dostoevskij Memorie del sottosuolo. La stessa Maša, dalle connotazioni ambigue ed infernali, appare quasi come una rilettura in chiave femminile dell’“uomo del sottosuolo” dostoevskijano. Come quest’ultimo vive rabbiosamente nel suo buco infernale, covando una indicibile rabbia e un senso di rivalsa nei confronti del mondo esterno, così ella appare come un’abitatrice degli spazi bui, illuminati flebilmente da torce e candele, miseri e spogli interni dei quartieri poveri della città, vuoti e sepolcrali ambienti (resi ‘caldi’, come vedremo, dai cromatismi del fuoco) che si contrappongono alle strade invernali e ghiacciate. Importante, nel film, è anche la dimensione della soglia: come ha osservato Michail Bachtin, in Dostoevskij essa si trasforma in una sorta di luogo magico-sacrale che funge da separazione fra interno ed esterno, uno spazio liminale in cui avvengono i grandi drammi che investono le psicologie dei personaggi. Nel film, la soglia è il confine liminale fra gli interni e gli esterni: se i primi si caratterizzano come dei ‘nidi’ che, contemporaneamente, racchiudono in sé il dolore e l’angoscia ma anche una calda dimensione protettiva, i secondi sono l’emblema di una desolazione dove il gelo disegna una imperscrutabile e quotidiana condanna per le due protagoniste.
Il personaggio di Maša porta con sé il dolore della perdita del figlio e il lancinante dolore di non poterne più avere riversandolo in un senso distruttivo di rabbia nei confronti degli altri. Il suo volto emerge nell’oscurità sepolcrale delle stanze illuminato espressionisticamente dalle fiamme delle candele e sulle sue labbra si disegna un’ambigua e languida crudeltà quasi vampiresca, mentre l’immagine del sangue (sulle labbra e sul naso) ne suggella la caratterizzazione iconica (potrebbe venire in mente l’immagine vampiresca della ragazza dalle labbra insanguinate che appare in un bosco innevato ne Lo specchio di Andrej Tarkovskij). Maša si configura come una vera e propria vampira del sottosuolo: un personaggio ambiguo che racchiude in sé anche la valenza romantica dell’immagine del vampiro, incarnata letterariamente nella figura della belle dame sans merci analizzata da Mario Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930). È la vampira di Baudelaire, pervasa di una bellezza funerea, che, “come una coltellata”, penetra nel cuore tormentato del poeta. Da vampira del sottosuolo che si rispetti, ella instaura con Iya una vera e propria relazione di carattere vampiresco: ne succhia le forze e gli spiriti vitali chiedendole di avere un figlio da donarle; quasi come le strigae, le streghe succhiasangue del folklore greco-romano che rapivano i bambini per poi sostituirli con fantocci di paglia, Maša intende appropriarsi della vita che potrebbe nascere nel grembo di Iya. La ragazza instaura un vero e proprio rapporto vampiresco anche con la società che la circonda, sfruttando cinicamente il giovane ricco e ingenuo che la chiede in sposa.
Anche Iya possiede in sé dei rimandi all’immaginario letterario di Dostoevskij: quasi come Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, la ragazza deve compiere un percorso di martirio e di espiazione della colpa commessa, l’uccisione involontaria del piccolo Paska, figlio di Maša. Ella percorre un universo infernale di espiazione attraverso gli aborriti rapporti sessuali con l’ufficiale medico per poter dare un figlio a Maša. Il percorso infernale della “ragazza d’autunno” (così viene reso il titolo originale Dylda, che in russo significa “spilungona”, con un riferimento alla statura della protagonista) si srotola attraverso spogli interni ed esterni raggelati, in cui si rapprendono le immagini della città di San Pietroburgo solcate da ponti e canali. In riferimento alla rappresentazione dello spazio cittadino, l’immaginario dostoeskijano è ravvisabile anche in una inquadratura in cui vediamo Iya che cammina su un ponte proprio come la protagonista del racconto Le notti bianche (e l’inquadratura in questione potrebbe benissimo far parte di un film ispirato a quest’opera dello scrittore russo).
La ragazza d’autunno è un film in cui un ruolo fondamentale lo hanno i cromatismi e i suoni. Come già accennato, le ambientazioni in interni sono caratterizzate da luci di candele che fanno pulsare gli sfondi come materia viva e corporea. Allora gli spazi abitativi, quasi antri vuoti e sepolcrali (si ricordi che anche in Delitto e castigo la stanza ammobiliata di Raskol’nikov viene assimilata a un sepolcro), grazie al calore fisico del fuoco, si trasformano in tanti corpi pulsanti, antri accoglienti contro il gelo che imperversa nelle strade. Nei corpi-ambienti appare anche la dimensione del corpo allo stato puro, come nella sequenza che mostra i corpi nudi delle donne intente a lavarsi, entro una dimensione catartica in cui il dolore sembra essere dimenticato, sembra essere rimasto fuori dalla soglia. Il regista riesce a farci avvertire la dimensione fisica che pulsa in ogni inquadratura cromaticamente segnata dai colori del fuoco: avvertiamo quasi lo sbalzo di temperatura fra interni ed esterni, fra le strade innevate e le stanze che pulsano alla luce della fiamma delle candele e delle stufe. La soglia assume allora una importante dimensione misterica: è lo spazio magico che serra e protegge la sfera fisica e corporea di un dolore che, catarticamente, si espande in escrescenze materiche: le fiamme, la legna delle stufe, le pareti e la carta da parati, gli abiti, i letti e i mobili, le finestre che, come sottili membrane, separano il fuoco dal gelo, il silenzio matericamente rappreso dal sibilo del vento gelato.
Nel film, inoltre, c’è un suono che appare contemporaneamente come umano e disumano, come corporeo e meccanico, proveniente da un vuoto automa, dal pallido simulacro di un corpo. È il singhiozzo soffocato che emette Iya quando è preda dei suoi attacchi di angoscia. La fisicità del singulto sembra emergere dagli interstizi di sconosciuti inferni: il primo suono che udiamo nel film, mentre ancora appare il titolo iniziale, è proprio il singulto soffocato di Iya che, successivamente, vediamo nella sua corporeità meccanicamente bloccata, ridotta a marionetta ed automa. Ella è infatti connotata da una fisicità che la rende quasi “automa spirituale” e “mummia del pensiero”, secondo la definizione di Gilles Deleuze applicata a Ordet di Dreyer. La dimensione della “mummia” si esplica nel momento in cui “il pensiero subisce una strana pietrificazione”, nel momento in cui esso dimostra la sua “impossibilità a funzionare”. E, continua Deleuze, “in Ordet la mummia è diventata il pensiero stesso, la giovane moglie morta, catalettica: è il pazzo di famiglia a ridarle vita e amore, proprio perché ha smesso di essere pazzo, cioè di credere un altro mondo e sa, ora, cosa significa credere...”. Nel momento in cui il suono pare emergere da infernali meandri, il corpo di Iya si rapprende in una posa catatonica e meccanica, foriera di morte (tale posa provocherà la morte del bambino), la quale è l’espressione fisica del pensiero a sua volta rappreso e pietrificato. Quel suono disturbante che udiamo è l’emergenza sonora dell’angoscia, della dimensione di un dolore che appare insopportabile. Un’angoscia raggelata e catatonica alla quale, nel film, fanno da contrappunto catartico i colori accesi e corporei che trasformano in corpi pulsanti gli interni e gli ambienti, un “sottosuolo” in cui, forse, alla fine, è ancora sopportabile tutto quel dolore.





La ragazza d'autunno
regia Kantemir Balagov
sceneggiatura Kantemir Balagov, Aleksandr Terechov
con Viktorija Mirošnienko, Vasilisa Perelygina, Andrej Bykov, Igor' Širokov, Konstantin Balakirev, Ksenija Kutepova, Olga Druganova, Timofej Glazkov
produttore Sergej Mel'kumov, Oleksandr Rodnjans'kyj
produttore esecutivo Natalija Gorina
casa di produzione Non-Stop Production
distribuzione italiana Movies Inspired
fotografia Ksenija Sereda
montaggio Igor' Litoninskij
musiche Evgueni Galperine
scenografia Sergej Ivanov
costumi Ol'ga Smirnova
genere drammatico, storico
paese Russia
lingua originale russo
colore a colori
anno 2019
durata 130 min.

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