“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 08 March 2021 00:00

Metamorfosi. Un’altra arte, un altro mondo

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“L’arte è un buon farmaco per contrastare i mali del presente: disattenzione, superficialità, pregiudizi e sintonizzarsi con l’essenziale, l’arte offre infatti la possibilità di tornare in contatto con contenuti profondi e rimossi divenendo prezioso dispositivo del pensiero critico”. È a partire da tale convinzione che Anna D’Elia, critica d’arte e narratrice, si cimenta, nel suo recente volume Vederscorrere. L’arte che salva (Meltemi, 2021), nella lettura della realtà attuale ricorrendo agli occhi degli artisti per sintonizzarsi con il pensiero della metamorfosi, appropriarsi di una diversa dimensione spazio-temporale, costruire nuovi rapporti con l’ambiente, il corpo, l’altro e l’altrove.

Nella prima parte del volume l’autrice riflette sulle criticità contemporanee e sul ruolo dell’arte nell’era della pandemia cercando utili suggerimenti nelle opere e nei pensieri di personalità come Vincent Van Gogh, Carla Lonzi, Joseph Beuys, Miltos Manetas, Agnese Purgatorio, Adrian Paci, Shirin Neshat, Maria Lai, Pino Pascali, Marina Abramović, Frida Kahlo, Wim Wenders, Gianni Leone, Christian Boltanski, Chiara Fumai e Francis Bacon.
Ripensare oggi al concetto di libertà, sostiene D’Elia, in un momento in cui i diritti personali si confrontano con la tutela della collettività, è una necessità inderogabile ed a ciò può essere d’aiuto l’arte. Certo, sottolinea sin da subito l’autrice, è necessario pensare a un’arte estranea all’attuale “sistema dell’arte” parte integrante della nuova mappa del potere.
Convinta che l’arte possa oggi aiutare a ritrovare il senso che la vita sta perdendo, secondo D’Elia conviene riprendere il discorso inaugurato nel corso degli anni Sessanta in Italia da personalità come Carla Lonzi, Pino Pascali, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Giulio Fontana, Pietro Consagra: autrici e autori che hanno operato intendendo restituire all’arte un potenziale vitale alternativo ai modelli di vita e ai valori introdotti dal boom economico dell’epoca. Nonostante si tratti di riflessioni appartenenti un’altra epoca, forse hanno ancora qualche suggerimento da darci. “Oggi le grandi finanziarie e lo star system hanno rimosso la libertà dagli obiettivi dell’arte, catalogando i superstiti sostenitori di tali principi etici tra gli eccentrici, alla stregua di sciamani o stregoni”.
Le figure dei senza fissa dimora vacanti nel deserto urbano della pandemia, ad esempio, non mancano di evocare storie di artisti rifiutati dalla società del loro tempo come Vincent Van Gogh, a proposito del quale è inevitabile pensare allo stretto rapporto che lo legava alla natura e all’irriducibile desiderio di libertà, della sua e di quella dei poveri e degli emarginati con cui ha spartito la quotidianità e condiviso la sorte.
Ai giorni nostri, tra i pochi che si ostinano a prestare attenzione ai migranti cogliendo nelle loro miserie e traversie qualcosa che tutto sommato, piaccia o meno, ci riguarda direttamente, vi sono artisti come Adrian Paci che in Centri di permanenza temporanea (2007), focalizzando lo sguardo su una fila di individui che in aeroporto si accalcano su una scaletta in attesa di imbarcarsi su un aereo che ancora non c’è, finisce per parlare di tutti noi. Scrive D’Elia che quelle code di esseri umani rimandano alle nostre code in attesa della fine del confinamento, della guarigione, della nuova ordinanza ministeriale... “Durante il lockdown l’umanità ha vissuto il medesimo tempo sospeso che vivono i migranti, abitato dall’attesa e dall’incertezza”.
La speranza che la pandemia potesse far percepire l’umanità un tutt’uno comprendente le sue fasce più deboli, che potesse palesare la comune vulnerabilità contribuendo al riconoscimento di una condizione universale pare essere stata vana, tanto che “lo straniero” continua ad essere vissuto come una minaccia.
Agnese Purgatorio ha inteso ripensare se stessa e il proprio ruolo specchiandosi nella precarietà di quei clandestini che nessuno vorrebbe vedere. In Fronte dell’Est (2007), attraverso un fotomontaggio, l’artista con-fonde realtà e desiderio: accanto ai volti dei migranti compaiano quelli di Alda Merini, Joseph Beuys, Francis Bacon, Pier Paolo Pasolini, Lisetta Carmi ed altre personalità del mondo dell’arte e della cultura. Attraverso le sue fotografie Purgatorio disintegra gli elementi identitari a favore di un’idea di comunità elettiva costruita su una medesima sensibilità: “Una comunità extraterritoriale che attraversa epoche e Stati”.
L’urgenza di un’identità nuova, inclusiva, è ravvisabile anche nel lavoro di Shirin Neshat, da tempo votata alla costruzione di un’identità di confine capace di guardare criticamente tanto alla cultura occidentale quanto a quella islamica. Non alla parola, tramite di censure e divieti, ma al linguaggio dei gesti e del corpo, che pare conservare una memoria ancestrale, questa sì incensurabile. “Shirin fonde il bisogno di spiritualità ereditato dalla cultura iraniana e quello di libertà espresso dalle democrazie occidentali a riprova che l’identità può darsi solo come sintesi, costrutto e racconto”.
D’Elia si sofferma anche su performance come Legarsi alla Montagna (1981) organizzata da Maria Lai che, nella sua capacità di coinvolgere un’intera comunità, invita ancora oggi, in un’epoca segnata dalla pandemia, a confrontarsi sulle modalità con cui costruire qualcosa collettivamente in un periodo dominato dall’individualismo.
Secondo la studiosa diverse tematiche su cui aveva lavorato Pino Pascali, che aveva cercato nell’antica saggezza dei miti mediterranei e delle popolazioni arcaiche una via “per riportare l’arte dal territorio dell’estetica a quello della vita”, risultano cruciali ancora oggi: “Il rispetto dell’ambiente, l’interesse per l’alterità (i diversi soggetti che abitano l’io e la molteplicità delle specie e culture che abitano il mondo), la tutela della memoria come condizione necessaria per vivere il presente e costruire il futuro”. Proprio nel momento in cui l’Italia si avvia ad abbandonare la sua tradizione agraria per lanciarsi verso un’industrializzazione selvaggia e miope, Pascali ha ripetutamente denunciato i rischi a cui si sarebbe andati incontro non rispettando la natura.
Una ricerca artistica quella di Pascali non dissimile da quella di Maria Lai: entrambi hanno operato in direzione di una crescita personale e collettiva in cui razionale e intuitivo non sono ambiti  contrapposti, entrambi si sono aperti coraggiosamente verso l’ignoto nella volontà di accogliere l’altro ed “hanno rivitalizzato i territori asfittici dell’arte chiusi all’interno di recinti riservati solo a pochi e per obbiettivi ignoti alla maggior parte delle persone, riportando nelle coscienze la consapevolezza che l’arte è patrimonio di tutti e che scaturisce da un bisogno collettivo. Si sono battuti per rimuovere l’aura che avvolgeva la figura del genio, chiuso nella sua torre d’avorio, d’accordo sull’obbiettivo che l’artista dovesse incarnare un’identità nomade e mutante in grado di attraversare specie e ruoli, convinti che nessun cambiamento sarebbe stato possibile se non a partire da sé. È questo il loro lascito più grande ed oggi quanto mai prezioso”.
Oggi che il Coronavirus ha impietosamente mostrato la faccia nascosta del nostro mondo, scrive D’Eia, “una lezione importante potrebbe essere rivolta alle donne che non reggono dosi massicce di negatività e che preferiscono la retorica del bene, piuttosto che guardare in faccia il male”, la lezione di Marina Abramović che ha sempre lavorato sul “resistere alle condizioni avverse addestrandosi a sopportare dolore, sofferenze e privazioni: dei diritti civili, personali, corporei, di libertà, privacy, movimento e relazioni sociali”.
Per poter trasformare la negatività della quarantena in positività però, sostiene D’Elia, occorre rivedere la propria vita. “È un percorso impervio per chi ha fondato il suo ideale di vita sugli agi e sul benessere inteso come opulenza e comodità. Il viaggio interiore si può compiere solo attraverso prove eccezionali, come dimostrano i riti di passaggio cui sono sottoposti ragazzi e ragazze di popolazioni arcaiche per lasciarsi alle spalle i giardini dorati dell’infanzia e accedere all’età adulta favorendo una diversa percezione di sé stessi e di ciò che c’è intorno”.
La necessità di confrontarsi con il dolore è anche necessità di fare i conti con la morte, con una morte con cui l’Occidente da tempo fatica a rapportarsi. “L’oggi, si è rivelato sotto i riflettori della notte nelle carovane di camion stipati di cadaveri destinati alle fosse comuni e, sugli schermi televisivi accesi 24 ore su 24, per mostrare come si muore di Coronavirus intubati o no. La rimozione notturna delle salme, a parte la quantità agghiacciante, rispecchia l’idea occidentale della morte, abolita fin dal Cinquecento dalla vita quotidiana per trionfare come morte epica”.
Riferendosi alle fotografie in cui Wim Wenders mostra abitazioni abbandonate e cumuli di rottami,  la studiosa invita a ravvisare in quelle immagini la finitudine degli esseri viventi e delle cose. “La rappresentazione della morte dovrebbe mostrare la continuità con la vita, come fanno le fotografie di Wim Wenders, in cui una vecchia insegna, un cimitero, un negozio, una strada, un passante sono sempre il tramite tra un prima e un poi”. Chi ha subito una perdita ha necessità di una narrazione la riscatti, ed a tal proposito D’Elia porta gli esempi delle fotografie di Gianni Leone, volte a “trasformare l’assenza in sempre nuova presenza, per immaginare il futuro e dargli una forma”, e delle opere del ricordo di Christian Boltanski.
Chiara Fumai, interpellata da D’Elia, ricorda come nell’epoca del Coronavirus “il sacrificio delle donne è diventato il cardine su cui il sistema patriarcale ha fatto leva, durante la quarantena le attese nei confronti delle donne si sono ingigantite, sostenute dalla retorica che le vuole pazienti, amorose, devote, sottomesse e addette alla cura. Il Coronavirus in pochi mesi ha cancellato una secolo di lotte per il riconoscimento dei diritti basilari, retrocedendo ai livelli di schiavitù del patriarcato più opprimente”. Da parte sua l’artista ha ripreso la denuncia espressa da diverse artiste degli anni Sessanta circa il sessismo presente nella lingua allargando lo spettro segnico alla gestualità di donne esibite e sfruttate come fenomeni da baraccone sul finire dell’Ottocento operando una decostruire dei modelli precedenti.
È con un riflessione sulla capacità dell’arte di affrontare la visione del male efferato, facendo riferimento in particolare all’opera di Francis Bacon incentrata sul “divenire animale” dell’essere umano, che si chiude la prima parte del volume per lasciare spazio, nella sua seconda parte, a tre brani narrativi incentrati sul vissuto di altrettanti personaggi di finzione che si confrontano con la pandemia in corso. Infine, nella terza ed ultima parte, l’autrice lascia la parola ad alcune artiste che si confrontano direttamente con alcune grandi questioni dell’arte contemporanea: Elena Bellantoni, Gea Casolaro, Francesca Fini, Paola Romoli Venturi, Jasmine Pignatelli, Silvia Stucky, Valentina Vetturi.





Anna D’Elia
Vederscorrere. L’arte che salva
Meltemi, Milano, 2021
pp. 194

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