“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 February 2013 01:00

Che forma ha Virginia Woolf?

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Virginia Woolf desiderava possedere, visivamente, il mondo. Londra con le sue strade, le sue pozzanghere grigie, i suoi ciottoli umidi e i suoi angoli colmi di giornali e di odori e, di Londra, i palazzi coi grandi saloni, coi grandi ritratti, con le lampade grandi che davano luce. In questi palazzi soleva – talora – incontrare persone, conversare, pranzare, cenare, scegliendo un piccolo gruppo di un’immensa marea d’invitati a cui dare spettacolo: parlava, troppo ed in maniera stupefacente, perdendosi tra i fiati e gli sguardi.

Virginia Woolf desiderava possedere visivamente il mondo eppure, del mondo, aveva terrore. Aveva terrore di Londra, delle sue strade, delle sue pozzanghere grigie, dei suoi ciottoli umidi e dei suoi angoli colmi di giornali e di odori. Aveva paura dei grandi palazzi, dei grandi saloni, dei grandi ritratti davanti ai quali crocicchi d’estranei si ponevano in circolo a sentirla parlare. Aveva paura di sé stessa: della propria incapacità di prendere parte al grande spettacolo dell’esistenza diurna; della propria incapacità di misurare con attenzione gli oggetti, le persone, le sensazioni, le piccole o grandi visioni, ora chiarissime ora oscure e distorte, che le s’imprimevano sotto le palpebre.
Per questo, quanto più le scintillava attorno l’universo, tanto più trattenne sé stessa ai margini di quell’universo, come a sostare ad un passo dal chiarore: un piede nel bianco, un piede nel nero.
Chi erano gli altri? Cosa volevano dirle? Cosa volevano che dicesse o facesse? Era davvero felice? Era insoddisfatta? Era insoddisfatta di che? Perché voleva scrivere e non riusciva a scrivere? Era davvero necessario scrivere? Scrivere di che? Scrivere come?
Un piede nel bianco, un piede nel nero; ad uno sguardo dal mondo ma, dal mondo, fuori.
Virginia Woolf somigliava ad un nobile uccello da preda – pronto a volare per afferrare qualcosa (qualsiasi cosa) – ma che, per scelta restrittiva e necessaria, si limitava a starsene in gabbia. Il becco ogni tanto oltre la ferraglia opprimente, lo sguardo costantemente mosso verso ogni dove, i saltelli impazziti per non perdersi nulla di ciò che viveva di fuori.
Dalla gabbia, ovvero dalla stanza, ovvero dalla sua testa che era una stanza ed era una gabbia, lanciava versi ch’erano immagini, ancora versi ch’erano immagini, ancora versi ch’erano immagini finché il suo verseggiare non diveniva un canto e un poema: inarrestabile, fluente ed altissimo, ma quanto dolente, quanto sofferto.
“Schiamazzo come un cacatoa rosa e giallo”.
Questa donna desiderava possedere il mondo ed in effetti il mondo lo possedette: visivamente. Attraverso una propensione allucinatoria che tramutava in passione d’inchiostro, fu capace di far apparire dal cielo carrozze, dagli alberi paesi stranieri, in un brutto quartiere londinese una reggia di trecento e più stanze. Da un uomo di nome Orlando fece nascere una donna di nome Orlando. 
“Cerco di catturare le sensazioni vicine e remote di questo indifferenziato caos della vita, sempre in fermento”.”Amo l’aspetto caldo, informe, copioso della realtà”. “Voglio scrivere della passante, caduca, transitoria esistenza” prima che “una grande falena”, volando, “ricopra d’ombra” tutto quello che palpita.
Virginia Woolf fu un preziosissimo uccello, dal canto malato e soave, costretto ad una gabbia che era una stanza che era una testa. Da quella gabbia, che era una stanza, che era una testa, possedette il mondo: visivamente.
Questa sensazione d’illiberale potenza, di ristrettezza crudele e salvifica, di condizione serrata ed estranea e lucida e vergognosa ed amata e odiata la rende a perfezione Stanza di Orlando di Carmen Giordano che, su scena, innanzitutto propone una gabbia che è una stanza che è una testa e – all’interno di questa pluristruttura metaforica e mobile e anch’essa “passante, caduca, transitoria” – costringe Orlando/Virginia Woolf a saltellare, verseggiare, a scendere e salire, a passare e ripassare perlustrando ogni dove del piccolo spazio: il becco ogni tanto oltre la ferraglia opprimente, lo sguardo mosso verso ogni dove, il canto inarrestabile.
“Schiamazzo come un cacatoa rosa e giallo”.
Facendo “schiamazzare” Orlando/Virginia Woolf, all’interno di una gabbia che è una stanza che è una testa, Carmen Giordano libera drammaturgicamente il dettato di Orlando dalla mera lettura “di genere” (il maschile, il femminile, la coesistenza androgina del maschile e del femminile) e, senza tradire d’un minimo le pagine del romanzo preso in partenza (di cui si offrono parti rubate e riproposte filologicamente; parti rubate e mutate leggermente; parti rubate ed unite a frasi dei diari, allusioni ad altre opere scritte, invenzioni del tutto in aggiunta), rifinisce su palco una limpida e delicata parabola (fisica, letteraria, teatrale) sul rapporto tra l’individuo ed il mondo, tra l’individuo e sé stesso, tra l’individuo e la forma (agli occhi di sé ed agli occhi del mondo).
Tre frammenti, perché di frammenti è fatto il racconto.
L’individuo ed il mondo.
“La gente trabocca dal marciapiede. Donne con la borsa della spesa. Bambini passano correndo. Dei negozi di stoffe fanno liquidazione. Strade si allargano, si restringono. Lunghe prospettive appaiono, scompaiono rapidamente. Qui si incontra un mercato. Là un funerale. I macellai stanno in piedi sulla porta. Le donne non portano quasi più tacchi. Alla finestra di una stanza da letto una donna se ne sta immersa in contemplazione profonda e calma”. Scatti visivi, piccole percezioni momentanee, zampilli afferrati dall’immenso fluire liquido dell’apparenza. Leggiamo dal romanzo: “Di quello di cui si vede il principio – per esempio due amici che stanno per incontrarsi, attraversando la strada – non si vede la fine. Dopo venti minuti, corpo e spirito non sono più che pezzetti di carta gettati al vento fuori di un sacco”. Come un uccello in gabbia Orlando/Virginia Woolf coglie dettagli, particolari, piccoli fregi scattando da un lato, da un altro, da un altro ancora. Sa che nulla di più le è possibile. Questa inafferrabilità della completezza reale è fortemente analogica allo “sminuzzarsi della personalità”.
L’individuo e sé stesso.
“Quegli io di cui noi siamo composti e che sono sovrapposti gli uni agli altri come una pila di piatti in mano a un cameriere, hanno i loro legami, le loro simpatie, le loro piccole leggi e i loro diritti, cosicché l’uno verrà soltanto se piove, un altro se gli promettete di fargli trovare un bicchiere di vino, e così via”. Capita che “Orlando chiami Orlando” ed “Orlando, invocata, non si presenti”. La frammentazione dell’identità personale in “duemila e cinquantadue” io differenti che coesistono all’unisono in un singolo corpo, in un singolo spirito, conduce alla tragedia della forma: la limitazione finita di ciò che la Woolf giudicava infinito.
L’individuo e la forma.
“Trentasei; in macchina; una donna. Sì, ma un milione di altre cose. Snob, io? La giarrettiera, nel vestibolo? I miei antenati? Orgogliosa di loro? Si! Golosa, lussuriosa, viziosa? Io? Me ne importa un fico, se lo sono. Sincera? Credo di sì. Generosa? Oh… ma questo non conta. Viziata? Forse. Troppe cose per nulla. I libri? Tutta roba verbosa, leggera, romantica. Inutile. Gli alberi. Mi piacciono gli alberi. E le capanne. E i cani da pastore. E la notte. Gli uomini? Non so. Tutti chiacchieroni, sprezzanti, bugiardi sempre. Mi piacciono i contadini. Mi intendo di raccolti. Fama. Fama. Fama”.
“Schiamazzo come un cacatoa rosa e giallo”. Schiamazzando, Virginia Woolf si chiese: “Che cosa, dunque?”, “Chi, dunque?”.
La tragedia della forma portò alla tragedia della vita. Virginia Woolf – costretta alla gabbia che era una stanza che era una testa – si accorse di essere relegata nella prigione della definizione “scrittice”: romanzi, premi, fotografie, la gloria: limitazione finita di ciò che è infinito.
Il 28 marzo 1941 questa donna che fu mille donne e mille uomini, che amò mille donne e mille uomini, che possedette mille luoghi in mille romanzi, si gettò nel fiume Ouse: bevve acqua, affannò il suo respiro, rubò al cielo ancora qualche pezzetto d’azzurro poi colò a picco, fondendo la sua forma finita con la forma infinita del fiume.
Sul palco Maura Pettorruso – senza la cui splendida bravura attoriale (fatta di piccoli segni gestuali, burattinismo di spalle, movimento scattante di pupille, di ciglia e di gomiti, piccoli fremiti e dondolii, vociame diverso e distinto) Stanza di Orlando non potrebbe essere Stanza di Orlando – si alza, tenta il volo, monta sulla gabbia, dalla gabbia discende all’esterno, fa un passo, due passi, tre passi, si pone fissa a sinistra, reclina un po' il corpo, tende una mano, genera il buio.
Come un uccello costretto a una gabbia, questa donna costretta a una stanza che fu la sua testa, una volta libera, non poté prendere il volo. Cadde, tra le onde spumose del fiume. È il pensiero che resta mentre battiamo gli applausi.

 

 

 

Stanza di Orlando. Viaggio nella testa di Virginia Woolf
tratto liberamente da Orlando
di Virginia Woolf
testo e regia di Carmne Giordano
con Maura Pettorruso
installazione Maria Paola Di Francesco
luci e fonica Fabio Antoci
produzione Macelleria Ettore_teatro al kg
durata 1h 5'
Napoli, Teatro Elicantropo, 31 gennaio 2013
in scena dal 31 gennaio al 3 febbraio 2013

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