La biografia dei due personaggi è l’occasione che Aggioli coglie per dare conto di alcune verità di fatto, che si mostrano essenziali per comprendere la temperie culturale seguita al diffondersi della dottrina fascista, la quale nelle aspettative dei suoi maggiori teorici non concerneva solo l’ordinamento e l’indirizzo politico della nazione, ma, come affermava Gentile, “tutta la sua volontà, il suo pensiero, il suo sentimento”. Attraverso la figura di Enrico, il regista ci offre la metafora di una follia che sembra essere quella di un intero popolo, vittima della “grande rivolta guelfa”, che seppe farsi beffa dei teoremi politici, dei sillogismi filosofici e che, grazie al culto della nazione, fece breccia nei sentimenti di quanti ne riproducevano i vuoti proclami come un rosario, solo meno convulso di quello autistico di Enrico.
Angelo è invece scisso tra il tentativo, tra l’altro ben riuscito, di doversi fingere matto e la necessità di gridare al mondo la verità, quella verità che per convenienza deve celare, ma che forte pulsa sotto la maschera della pazzia. Ad un certo punto confessa ad Enrico la sua verità biografica, perché non si può vivere a lungo cancellando il proprio nome, la propria storia, senza cancellare se stessi quale frutto ed espressione di quella storia. Nel momento della rivelazione della realtà Enrico intuisce, pur nella sua pazzia, la vanità di tutto ciò in cui aveva creduto ma non trova altra soluzione se non quella di coprirsi il viso con delle maschere lasciategli dal padre, e che “gli tengono compagnia”, per continuare la recita quotidiana. Enrico – interpretato da Aggioli che ne rende superbamente tic, fobie, paure – così, si sdoppia e impersona ora il duce – del quale recita brani della dichiarazione di guerra con cui l'Italia è entrata nel secondo conflitto mondiale, o brani inerenti alle leggi razziali – ora indossando un'altra maschera, come quella dell’infermiera di cui si è innamorato. Una vis tragi-comica irresistibile quella del matto Enrico, che travolge anche la volontà di Angelo, che si presta a imitare Luciana (l’infermiera) per indurlo a calmarsi. L’imitazione di Luciana, i tic di Enrico, suscitano nel pubblico riso, un riso che, però, ben presto si fa amaro, doloroso e inquieto, soffuso persino di lacrime. Il pubblico, infatti, è chiamato al ruolo di testimone di colui che, come parresiaste, si appresta a dire la verità, che intanto esiste perché è condivisa, compresa, saputa, assimilata, digerita e indelebile rischiara la mente contro le mistificazioni di ieri e di oggi.
E, paradossalmente, la storia più autentica, perché cifra del modo di fare tipico delle dittature, è testimoniata proprio della sorte di Enrico che viene deportato dal manicomio, lui, matto indifeso, poiché rappresenta un fastidio per un regime che dell’uniformità ha fatto il suo vessillo. Per un regime, affermava Hannah Arendt, che mira a organizzare gli uomini nella loro diversità come se costituissero un solo individuo e intanto può farlo soltanto perché riduce gli uomini a un solo fascio di reazioni scambiabile con qualsiasi altro. Ma la spontaneità, peculiarità dell’essere umano, non si uccide facilmente; vi saranno infatti sempre coloro che lottano perché come ci insegna Lev Tolstòj “per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente”.
Gli Ebrei sono matti
regia Dario Aggioli
con Dario Aggioli, Angelo Tantillo
voci registrate Stefania Papirio, Marco Fumarola
registrazioni vocali Marco Fumarola
costumi e scene Arianna Pioppi, Medea Labate
maschere realizzate in gioventù da Julie Taymor
organizzazione Carla Damen
prodotto in collaborazione con Teatro SpazioZeroNove
Spettacolo dedicato alla memoria del Prof. Ferruccio Di Cori
Caserta, Teatro Civico 14, 17 febbraio 2013
in scena dal 16 al 17 febbraio 2013