Iniziamo da lui, un uomo che ha costruito un'intera vita sulla confortante assenza di passione, trasporto, sconvolgimento emotivo. Una moglie, bellissima, di una bellezza eterea, talmente raffinata da sembrare vetro soffiato, due figli, entrambi belli, entrambi intelligenti a loro modo, impegnati e accompagnati fino all'età adulta con successo. Un lavoro, quello di medico prima e l'impegno politico dopo, raggiunto senza sforzi, senza la minima vocazione, affrontato giorno dopo giorno con freddezza e senso del dovere, mai del piacere. Stabilità economica, se non ricchezza a profusione. Il protagonista è un indolente, fin da piccolo cresciuto con un padre incapace di un atto d'amore disinteressato, un millantatore della volontà che porta al successo, non alla felicità. In un'Inghilterra ferma, divisa in brulicante città, come può esserlo Londra, e in sospesa campagna, dove le ultime guardie di una nobiltà decaduta fanno i conti con i rimasugli di beni materiali pieni di tristezza e luoghi comuni. La vita così com'è, potrebbe continuare fino alla fine, nessuna aspettativa, nessun disturbo nell'immagine fotografica in bianco e nero di questa esistenza scandita da una povertà emotiva disarmante.
È qui che fa il suo ingresso Anna Barton, fidanzata del figlio prossima alle nozze con lo stesso. Una linea noiosa e ininterrotta viene spezzata da una donna spezzata a sua volta, una donna che dichiara di aver subito un danno e, come tutte le persone danneggiate, si definisce pericolosa poiché senza una pietà che deriva dalla consapevolezza che gli altri possono sopravvivere, come è sopravvissuta lei. Anna è diversa dalla moglie, è una specie di angelo nero, misteriosa come una presenza che disorienta. Forse un uomo il cui orientamento è stato dettato sempre da principi geometrici rigorosi alla presenza di un essere umano piegato non può fare altro che lasciarsi piegare, ma la tragedia avviene quando nell'infinità dei casi umani c'è chi non regge alla flessione e si spezza definitivamente, senza la speranza di riuscire a sopravvivere a quella cesura lapidaria. La rigidità che si flette inizialmente avverte una specie di sollievo, quasi una liberazione dal rigore, perciò in un primo momento quest'uomo avvertirà la presenza di Anna come un'iniezione di ossigeno dentro una vita in apnea, ma di ossigeno si può anche morire quando non lo si sa dosare o indirizzare verso i centri vitali del corpo. In un vortice emotivo, carne e ferite, sperma e sangue si mischiano con una violenza sadica, per confluire in un'espiazione drammatica.
Josephine Hart è una scrittrice estremamente disordinata, rapsodica in alcuni casi, forse più affine alla poesia che alle pretese che un romanzo avanza. Fino alla fine non è chiaro mai completamente il gioco perverso che incatena i protagonisti, almeno non la scaturigine e la finalità, non ci sono dati sapere i connotati della mente sconvolta di Anna, tutto si gioca su un delirio linguistico. La poeticità dannata dei dialoghi e dei pensieri di questa donna non basta per colmare i vuoti fattivi della vicenda. Nonostante ciò, per ritornare alla dichiarazione iniziale e cioè al fatto che ciò che viene narrato sia una storia d'amore, i dubbi persistono, ma forse sono illegittimi, come illegittime sono tutte le definizioni d'amore che l'uomo ha dato dalla notte dei tempi.
Josephine Hart
Il danno
traduzione Vincenzo Mantovani
Milano, Feltrinelli, 1999 (1991)
pp. 168