Un titolo lungo per un testo breve: i versi del Bardo sono a fronte, immediatamente messi a colloquio con la loro versione partenopea, in un braccio di ferro tra ere e temperie così distanti. La scommessa è capire se il napoletano può avere la stessa forza di altre lingue, magari nella traduzione da una fonte celebre. Specie se non si vuole cadere nel folklore ma conservare, dei sonetti scespiriani, l’impianto metrico mirabile e l’intensità poetica.
In certi casi non c’è gara. Esempio: “Comme a n’attore meza tacca se scorda ‘o personaggio/quanno sta annanz’o pubblico e recita nu’ cesso” è la trasformazione di “Come un pessimo attore in scena colto da paura dimentica il suo ruolo” della traduzione canonica del sonetto 23. È evidente, vince il napoletano. Oppure, nel 116, “l’ammore è nu faro fisso miez’o mare / ca guarda a tempesta ‘nfaccia e se ne fotte” sta per l’originale “an ever-fixed mark / that looks on the tempests and is never shaken”: never shaken, mai agitato, diventa strafottente. Un faro che non si scuote, giustamente, ‘se ne fotte’. Funziona meglio un napoletano della strada, sfrontato, diretto, che un lezioso italiano da accademia. E il tradimento promesso dal titolo, nutrendosi della storica definizione secondo cui la migliore traduzione presuppone un adulterio, a ben vedere non è così grave, neanche al cospetto del massimo autore di ogni tempo.
Forse non è neanche un vero tradimento ma la più sostanziale delle fedeltà. Perché l’intuizione di Dario Iacobelli è giusta quanto meglio si impadronisce del classico e gli dà una veste nuova, a volte sanguigna, altre eversiva, rispettosa dell’originale proprio quando sembra più aggirarlo nel complicato lavorìo tra lessico corrente, frasi idiomatiche, sillabe. Inverando il senso della poesia, l’immediatezza, e quello ultimo dell’arte: l’immanenza, che si fa beffe di secoli, latitudini e idiomi.
Dario Iacobelli
30 sonetti di Shakespeare tradotti e traditi in napoletano
a cura di Filippo Iacobelli, Paola Migliore
Napoli, Ad Est dell’Equatore
pp. 96