“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 08 September 2020 00:00

Le tenebre di Don McCullin

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“... seemed to lead into the heart
 of an immense darkness
...”
(Joseph Conrad)

 
 

Don McCullin nasce a Londra nel 1935, crescendo durante la guerra, fra case diroccate e bombardamenti, nel quartiere popolare di Finsbury Park, dove scatterà le prime fotografie, a vent’anni, dopo aver svolto il servizio militare per la Royal Air Force, ritraendo una banda di Teddy Boy, i Guvnors.

La sua prima fotografia pubblicata mostra i Guvnors in un palazzetto distrutto dalla guerra. Gliela compra l’Observer, stampandola a mezza pagina e chiedendogliene delle altre. Don McCullin diventa così un fotografo freelance, lavorando per l’Observer e il News Chronicle e la rivista Town, viaggiando per l’Inghilterra in cerca di scatti e abbandonando Finsbury Park, il suo quartiere d’infanzia. Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca comincia la costruzione del muro di Berlino, e lui decide di andarci a proprie spese, realizzando un portfolio che sarà premiato dalla British Press Award e che gli frutterà il primo contratto da professionista, sempre con l’Observer. Intanto si è sposato, e di lì a poco diventerà padre. Ma non rimarrà molto in famiglia, Don McCullin, troppo irrequieto per vivere a lungo nello stesso posto. Nel 1964 parte per Cipro, dove coprirà l’invasione turca; qui farà i suoi primi, grandi scatti di guerra, che l’anno successivo saranno premiati dal World Press Photo. È il suo primo incontro con l’orrore della guerra. In uno scatto un miliziano turco esce da una casa, di corsa, con il fucile fra le mani: un’immagine oggi famosa. In un altro una donna piange due uomini morti, riversi in una pozza di sangue, il marito e il fratello. Don McCullin scoppia in lacrime, fotografandoli, muovendosi a fatica intorno ai cadaveri, componendo le fotografie “nella stessa maniera in cui Goya dipingeva o abbozzava i suoi disegni di guerra”, come racconterà anni dopo nella sua autobiografia, Unreasonable Behaviour, Un comportamento irragionevole, scritta con Lewis Chester.
Le immagini si susseguono. Una donna piange il marito morto, con il figlio accanto, stringendo le mani ossute; degli uomini trascinano il cadavere di un vecchio lungo una strada, di fianco a un carro armato; una ragazza turca cammina imbracciata a un fucile, decisa a vendicare la morte del fratello. Sono scatti in bianco e nero, istantanee della morte e del dolore, senza speranza alcuna, che testimoniano la ferocia e l’insensatezza della guerra, di ogni guerra. È lo sguardo delle vittime, la loro disperazione e la loro forza, il loro urlo contro gli assassini. “Speravo di aver catturato nelle mie fotografie un’immagine duratura che si sarebbe impressa nella memoria della gente” ha detto Don McCullin. “Cercavo un simbolo – anche se allora non mi sarei espresso in questi termini – che potesse rappresentare l’intera vicenda e avesse la forza d’impatto dei riti e delle icone religiose”.
Negli anni successivi Don McCullin continua a viaggiare, di guerra in guerra: Vietnam, Congo, la Guerra dei sei giorni a Gerusalemme, ancora Vietnam, dove tornerà oltre quindici volte, Nigeria, per la guerra di secessione del Biafra, di nuovo Vietnam, nella cittadina di Hue, dove scatterà la sua fotografia forse più conosciuta, quella del marine traumatizzato, con le mani strette intorno alla canna del fucile. Ogni sua immagine è una storia, un momento che si racconta attraverso gli sguardi o i gesti, le posizioni delle mani e delle braccia e le smorfie sui volti. Viene in mente la poesia Torture, di Wisława Szimborska: “Il corpo si torce, si dimena e divincola, / fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, / illividisce, si gonfia, sbava e sanguina”. Gli uomini piangono e si disperano o fissano semplicemente l’obiettivo, cioè Don McCullin che fotografa, oppure sono morti, come il soldato vietnamita riverso al suolo, nella cittadina di Hue, con le sue fotografie di famiglia sparse accanto a sé.
Fra una guerra e l’altra, di viaggio in viaggio, Don McCullin trova il tempo di fotografare anche i Beatles, a Londra, e di passare per la Cuba di Fidel Castro, dove conosce la scrittrice Edna O’Brien, che diviene sua amica e gli dedica una poesia, First the lions, then the vultures, Prima i leoni, poi gli avvoltoi. È il 1968. Don McCullin è ormai un fotografo rinomato, fra i migliori fotografi di guerra al mondo, anche se odia quest’espressione, “fotografo di guerra”, dicendo che suona come un’accusa di comportamento mercenario e definendosi un fotografo e basta. Le sue immagini, in un chiaroscuro fatto di ombre e luci, sempre composite, ritraggono la miseria, l’orrore, la disperazione, la fame, la malattia, ma non solo: alcuni suoi scatti sono momenti di rara bellezza, come il ritratto di Patience, nel Biafra, una ragazza sedicenne denutrita eppure bella, che guarda il fotografo con uno sguardo pieno di dignità e dolcezza.
Nel 1970, in Cambogia, Don McCullin viene ferito alle gambe, da una raffica di mitra. Cerca di scappare, di salvarsi, trascinandosi con le braccia fra cumuli di cadaveri e soldati in fuga, strisciando nel fango. Finalmente lo caricano su un camion, portandolo via. Riuscirà a tornare in Inghilterra, anche se non vi resterà troppo, nonostante le ferite, ripartendo quasi subito per il Bangladesh, in India, dove farà un reportage su un’epidemia di colera. Qui le fotografie sono terribili, come nelle guerre. Una famiglia piange la madre morta, in un campo deserto. Dei malati di colera si rigirano sul pavimento, in preda al dolore, come insetti schiacciati. “Nessuna salvezza, in quegli scatti” ha scritto Guido Ceronetti, in Ti saluto mio secolo crudele, “l’uomo è privo di ali, l’uomo è senza il soccorso divino, l’uomo è solo”.
L’uomo è solo anche nella guerra. Don McCullin torna in Vietnam e in Cambogia, poi in Medio Oriente, per la guerra del Kippur. È come una droga, dice in un’intervista: non può fare altro che partire, di guerra in guerra, accumulando orrori. “Quando tornavo in redazione con le mie fotografie” racconta, “il caporedattore esclamava: ‘Che orrore! Sarà una buona doppia pagina!’, o: ‘Povera gente! Che grande copertina!’. E io accettavo il loro gioco, non chiedevo altro che di ripartire per la prossima guerra, era diventata la mia droga”. E poi: “Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà un giorno senza questi flashback nella mia testa. Non posso attraversare una via di Belgrado, o entrare da Harrods, o passeggiare sulle colline del Somerset, senza che queste immagini ritornino, come gli spot alla televisione. Delle persone nell’ingresso di un palazzo di Beirut, in lacrime, mentre i miliziani ricaricano le loro mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles Caron e a me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo le palpebre, e non abbiamo detto una parola per il resto della giornata”. Gilles Caron era, o è, uno degli amici di McCullin, anch’egli fotografo di guerra, scomparso in Cambogia nel 1970, probabilmente ucciso dai Khmer rossi.
Nel 1972, in Uganda, Don McCullin viene arrestato dai soldati del dittatore Idi Amin Dada. Lo rinchiudono in prigione, lo picchiano, lo torturano, per poi espellerlo a vita dal Paese. Più tardi, prefacendo un suo libro di fotografie, Hearts of Darkness, John Le Carré scriverà: “Don McCullin ha conosciuto tutte le forme di paura e ne è diventato un esperto. È tornato indietro Dio sa da quanti precipizi, e nessuno assomigliava all’altro. Le sue esperienze in una prigione ugandese basterebbero a far perdere per sempre il senno a un uomo, di certo a un uomo come me. Dice di essersi giocato la vita più volte di quante riesca a ricordare, ma non se ne vanta”.
Seguono altri orrori, specie il massacro dei palestinesi a Beirut, in Libano, a Sabra e Chatila, nel 1982, o la guerra civile in Salvador, dove sarà ferito ancora, cadendo da un tetto. Ma ormai Don McCullin è stanco. Ha visto troppe guerre, troppo dolore, e poi sente che la sua fortuna sta per esaurirsi e non vuole finire come il suo amico Gilles Caron o come Dana Stone o Sean Flynn o il giapponese Kyōichi Sawada, tutti morti o scomparsi; non vuole morire. Nel 1985 fotografa i riti religiosi dei pellegrini lungo le sponde del fiume Gange, in India, dove si reca da anni, uno scenario di quiete; poi comincia a ritrarre paesaggi e nature morte, in Inghilterra, nel Somerset, nei dintorni di casa sua. “La mia ora preferita è il crepuscolo” spiega, “non posso non desiderare che tutto divenga sempre più scuro”. Passa ore intere nel suo laboratorio, sviluppando immagini. Sono paesaggi cupi, come scattati alla fine del mondo, alla fine dell’uomo, nei confini dell’animo umano, fatti di silenzio e oscurità. Sembrano un epilogo a tutte le guerre che ha visto.
“Immagina di guardare negli occhi di una persona che sta per essere giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla” dice Don McCullin, “ma tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una pietra. Non stiamo parlando di fotografia adesso, ma di una responsabilità molto più grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di colpa. Per questo cerco di alleggerirmi da quel carico facendo fotografie di nature morte e di paesaggi. Fotografando i campi allagati, gli alberi spogli, il paesaggio antico come le leggende di re Artù ai margini del mio villaggio nel Somerset, ho la sensazione di purificarmi da quella colpa”.
Non andrà più in guerra, Don McCullin, con l’eccezione di un breve viaggio in Iraq, nel 1992, a quasi sessant’anni. Le sue fotografie ormai sono esposte nelle gallerie di tutto il mondo, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York; nel 1993 la regina Elisabetta II lo nomina commendatore dell’Impero britannico e dottore honoris causa dell’Università di Bradford: una bella rivincita, per uno che non poteva pagarsi gli studi e che è stato bocciato all’esame di fotografia della Royal Air Force. Nei suoi libri di fotografie (The Destruction Business, Hearths of Darkness, Open Skies, Sleeping With Ghosts, Don McCullin in Africa, Don McCullin in England) si vedono cadaveri trucidati e divelti e volti sfigurati, figli mutilati e deformi e madri in lacrime e manicomi deserti e bambini legati ai letti, a Sabra, sotto i bombardamenti israeliani, oppure la sua Inghilterra – il cimitero della famiglia Brontë avvolto dalla foschia, un collezionista di teschi londinese, un gruppo di skinhead adolescenti che prendono il sole, dei pescatori che giocano a calcio su una spiaggia, un gregge di pecore che si avvia al macello, all’alba, immagine di finitudine, un barbone malinconico e selvaggio, simile a Nettuno, che fissa l’obiettivo con grande dignità.
Don McCullin è uno dei grandi testimoni del nostro tempo, non solo per le fotografie di guerra, immagini dell’orrore e della miseria umana, ma anche per i suoi scatti dell’Inghilterra e per i suoi paesaggi, le terre deserte e cupe del Somerset o i campi di battaglia della Somma, in Francia, una delle sue prime fotografie del nuovo secolo, quasi un monito a ogni guerra futura. Il suo percorso di fotografo, dai sobborghi di Londra al Vietnam al Biafra a Gerusalemme alla festa degli dèi marini in Bali, fino alle tribù primitive delle isole Mentawai, fino ai paesaggi desolati del Somerset, esplora le profondità umane e disumane del secondo Novecento, il cuore di tenebra del secolo ventesimo e il nostro deserto, il nostro urlo di terrore e forse, da ultimo, la nostra colpevolezza, nelle lande desolate di una terra ormai priva dell’uomo, senza più guerre, senza più dolore né disperazione, nel silenzio di ogni cosa, fin dove si spinge lo sguardo, cioè l’obiettivo, cioè l’esistenza, di Don McCullin, e forse ancora più oltre.

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