“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

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Friday, 01 April 2016 00:00

Marx (ancora tu?)

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Quando si esperisce un personale momento di fruizione artistica, può essere utile riconsiderarlo nel tempo. Il giudizio immediato gode di una memoria non sfocata, ed è però soggetto a richiami d’effetto, emotivi o ammiccanti. Il vissuto, se decanta, lascia in superficie la sostanza. Proviamo dunque, a distanza di alcuni mesi, a ragionare sull’ultima edizione della Biennale D’Arte di Venezia, che ha compiuto centoventi anni.
Se tale rassegna conferma il proprio ruolo di precursore delle future tendenze, i prossimi anni vedranno nuovamente il passaggio dei temi marxisti dall’ambito dell’Arte a quello sociale e politico.

È stata l’opera principe di Karl Marx, Il Capitale, la stella più grande, osservata e studiata dalla 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Il nigeriano Okwui Enwezor, curatore di questa edizione, ha provato a raccogliere contenuti e forme di All the World’s Futures (Tutti i futuri del mondo). Riprendendo la concezione del Tempo degli antichi greci, se vogliamo immaginare i possibili futuri, dobbiamo guardare davanti a noi, a ciò che è stato e si allontana. Allora, in questo passato futuro, la presenza di alcuni semi, sovente sconosciuti e inattesi, dà gioia e vale l’intera Esposizione.
Il primo incontro, nel Padiglione Centrale dei Giardini (ex Padiglione Italia) è con le opere di Fabio Mauri. Non nascondo di aver sostato diverso tempo in questa sala. Un foglio di pvc giallo copre una enorme, rozza cornice in legno che contorna una foto dello stesso Mauri e Pier Paolo Pasolini alle prove di Cosa è il Fascismo, performance del 1971. Facendo silenzio si percepisce il Poeta bolognese recitare La Guinea, compianto per l’Italia contadina. Dunque, tutto è memoria, appoggiato al muro, lasciato in deposito. Non sembra più possibile alzare il velo. Meglio: sembra inutile e si verrebbe derisi.
Il Muro Occidentale o del Pianto è una installazione alta quattro metri di valigie, borse, casse di vari materiali e forme che insieme costruiscono un quadrato. Da una fessura fuoriesce rigoglioso un ramo verde. Una diversità/complessità che si autosostiene, rimanda all’incertezza del viaggio intrapreso per necessità o costrizione come per gli ebrei deportati o i migranti in fuga da condizioni inumane.
Migranti che non di rado periscono nel tentativo di superare La Muralla Azul ("La Muraglia Azzurra"), cinque campiture blu ottenute da altrettanti fogli di carta fotosensibile esposta al sole e immersa nell’acqua del Mediterraneo. Sulla parete, come una collana, i dipinti sono legati tra loro da una sequenza di timbri che riproducono la corona turrita della città di Napoli, assunta a centro ideale del bacino mediterraneo per geografia e Storia.
Nella concezione e realizzazione, lo svedese Russo Lagomarsino sembra far affidamento anche su una mistica dell’opera d’arte che, irripetibile, emerge dal caos di fuoco ed acqua.
(Dunque) La Morte. Ormai rimossa dal nostro personale quotidiano, ritorna nel lavoro di molti artisti presenti. L’apparente semplicità di Skull, serie di teschi dipinti di Marlene Duma è inaspettatamente evocativa. Non colpisce tanto la tecnica, ma l’innesco di un rimando a Kafka e ad una riflessione contenuta nei suoi Quaderni in ottavo è immediato: “L’evoluzione umana: l’aumentare della nostra capacità di morte”.
Anche la guerra è morte, ed il dimenticato Pino Pascali lo ripete, ossessivamente, con le sue Armi. Negli anni '60, raccoglie, sagoma, taglia, salda scarti metallici, ricambi di auto e realizza cannoni, mitragliatrici, carri armati, tutti in una marziale livrea verde oliva. Il monito è riuscito, l’inganno pure. Sembra di sentire il ghigno divertito di Pascali, mentre sussurra all’osservatore: “Guarda bene, fai attenzione, scemo...”. Le armi paiono perfette, ma non sparano.
Dunque l’apparire (o del mostrarsi), tema principe in una esposizione. Come deve esprimersi un’artista? Quanto deve suggerire?
La russa Olga Chernysheva, una delle interessanti scoperte per chi scrive, contribuisce con una riflessione contenuta in un suo disegno: "Everything is clear, but if it is necessary to explain – is unclear" ("Tutto è chiaro, ma se è necessario spiegare – non è chiaro"). I lavori a carboncino proposti, originali per impostazione, costringono l’osservatore a fermarsi, riflettere. Ancora. Una lunga fila di persone su di un ponte: “In a techno-world the human body begins to play the role of nature” ("In un mondo tecnologico il corpo umano inizia a giocare il ruolo della natura").
Il tema principale della Biennale è esplorato in varie forme. L’impatto maggiore, continuo viene da Das Kapital Oratorio. In uno spazio metateatrale, attori professionisti sempre diversi, leggono in staffetta Il Capitale. Concedendo tempo ed attenzione, l’effetto è nuovo, l’opera emerge come dramma inteso nel suo etimo. Si può osservare, cioè, come il pensiero agisce: è come entrare nella enorme e complessa macchina del pensiero di Marx e poter osservare tutti i vari meccanismi ed i loro movimenti.
Lo studio delle condizioni di vita del sotto-proletariato, dei contadini, delle masse di operai schiacciate dalla povertà è magnificamente presente anche nel lavoro fotografico di Walker Evans. Un bianco e nero pulito, tenue, ancora oggi testimonia di interi nuclei familiari di disoccupati, analfabeti gettati innanzi alla società come stracci dalla Grande Depressione del 1929. L’ambiente quotidiano è ripreso senza forzature, collocando così il nome del fotografo americano tra i riferimenti irrinunciabili del realismo sociale. Ghirri, commosso da queste “carezze fatte al mondo”, riconoscente, ringrazia.
Considerando ancora la tecnica fotografica, una nuova scoperta ci attende nel padiglione della Santa Sede. Mário Macilau, giovane fotografo del Mozambico, esalta il segno presente nei momenti quotidiani, negli oggetti, nei volti. Riesce in questo poichè “In Principio... la Parola si fece carne”. Dunque ogni cosa porta lo stigma divino: una canottiera, dei pesci in cottura sul fuoco, il viso di un ragazzo.
Penso a tutto questo, riprendendo la via verso l’uscita. Sembra di vedere nuovamente la canottiera macchiata, lisa. Adesso moltiplicata, tesa, cucita. L’artista Ibrahim Maham ha coperto le pareti del corridoio esterno con la sua installazione Occupation del 2012. Sacchi di iuta raccontano le diversità dei prodotti, mercati, persone come pure le enormi disparità che li segnano. Non si ha voglia di scappare da questo luogo, anzi. Il desiderio è toccare le stoffe, assorbire i diversi “aromi” della iuta. È uno spazio povero e civico.
Altri artisti vale la pena citare. L’italiana Marzia Migliora, con la sua Natura in posa, propone una originale natura morta, quasi un giocattolo dai molti segreti. William Kentridge, sudafricano, utilizza fogli di vecchi registri e tempera nera per i suoi disegni, che molto riprendono, ma con effetti inaspettati, dalla tecnica del fumetto.
Passando a ciò che non ha convinto, va evidenziato l’interesse massiccio per artisti e opere che utilizzano in maniera esclusiva o preponderante il mezzo audiovisivo. Questa attenzione è andata crescendo nelle ultime edizioni, ma non convince appieno. Esclusi pochi lavori originali, occorrono poi decine di ore anche solo per una parziale visione, ma il visitatore medio non ha questa possibilità. Dunque cui prodest? Esiste, forse, una unica attenuante: tale modalità espressiva è il portato del tempo ed è ragionevole che sia documentata. La Biennale rappresenta sempre un punto utile sul polso dell’Arte per poterne rilevare i suoi parametri vitali.

 





56. Esposizione Internazionale d’Arte
All the World’s Futures
Giardini della Biennale / Arsenale
Venezia, dal 9 maggio al 22 novembre 2015

il Pickwick

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