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Saturday, 26 April 2014 00:00

L'arrivo della grande balena

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La città è una larga pozzanghera di spazzatura ghiacciata. I lampioni notturni sono spenti lasciando le zone destinate alla collettività al buio. I treni, quando giungono a destinazione, accumulano ritardi spropositati. La linea di autobus non prevede corse serali. I negozi del centro, un tempo celebri botteghe artigiane, sono tristi empori dalle vetrine o tutte uguali o tutte vuote. Gli alberi seccano nei giardini, i giardini seccano nelle aiuole, le aiuole seccano nei recinti, la cui pittura secca di ruggine, offerta all’intemperie dell’aria. L’orologio del campanile porta un’ora probabilmente sbagliata. Gli ippocastani che dovrebbero addobbare i viali rendono i viali più tristi. I portoni dei palazzi non hanno maniglie, i citofoni gracchiano come corvi che hanno la tosse, il legno mostra buchi dovuti a tarli e grosse macchie di muffa. Latrati strazianti di cani, come se si azzannassero. Un branco di gatti audaci e insolenti, acquattati dopo aver vagabondato senza trovare cibo. Una piccola mosca fastidiosa, nonostante l’ora e nonostante la stagione.

La stazione è un inquietante quadrato di cemento, l’ospedale psichiatrico è una grigia carcassa petrosa, il Palazzo di Giustizia coincide con la prigione. Una quercia ha ceduto ed il suo tronco, spezzato, giace da settimane senza che, nessuno, se ne prenda cura. Le pompe di benzina sono senza benzina. A terra torsoli di mela, scarponi, cinturini d’orologio, bottoni di cappotti, chiavi arrugginite e mozziconi di sigarette fumate a metà, ossa di pollo, biglietti del treno, vecchi conti dei negozianti, pagine di giornali di qualche mese prima. Chiuse le imposte delle finestre, assenti i cittadini, convinti che sia meglio starsene in casa, non uscire, non frequentare i pubblici spazi.
Il vento batte un angolo, frena, poi lo aggira riprendendo vigore e impossessandosi di tutta la strada. Accelera, come un bambino che ha i pattini ai piedi e che sa come darsi la spinta. Ondulando, spazza ora a destra ora a sinistra, poi riprende il centro della carreggiata, la percorre, si avvicina ad un nuovo angolo, frena, lo aggira, si ferma: incontra il volto di una donna.
Non importa chi sia questa donna. Non importa la sua età; non importa se è figlia, madre, moglie o sorella; non importa da dove stia venendo, non importa dove stia andando. Importa soltanto la sua presenza, soltanto la sua funzione. Questa donna, assieme a noi lettori, è l’unica testimone dell’evento che sta per sconvolgere la città.
Questa donna – che cammina a passi insicuri e frettolosi, con il capo leggermente calato, spaventata dall’idea che “qualche brigante possa aggredirla alle spalle” – assiste all’approdo della Grande Attrazione.
In piena notte, nel silenzio quasi letargico che domina oramai da chissà quando.

“Non distante da lei, al centro dell’ampio corpo stradale, un trabiccolo spettrale avanza solitario nella notte d’inverno”.
Avanza. In realtà il trabiccolo, più che avanzare, sembra trascinarsi con una sconcertante lentezza, simile a “un enorme rullo compressore che deve combattere per conquistare ogni centimetro”. Più che avanzare, cerca di vincere la forza contraria del vento; più che avanzare striscia facendo grattare il suo ventre al cemento; più che avanzare pare immergersi, con grossa fatica, in un materiale denso e colloso, morbido ma resistente.
Il trabiccolo è coperto da pannelli di latta azzurri e ondulati, scritte giallo intenso, al centro ha un indecifrabile disegno marrone. Molto più lungo che largo, molto più alto che basso, trascina sul proprio rimorchio un essere che sembra molto più morto che vivo, molto più finto che vero: un mostro incredibile, “una massa di carne immensa” che emana il dolciastro odore dei pesci.
D’avanti fa capolino uno scassato trattore – che sbuffa nuvole di fumo, mentre lascia andare gocce d’olio – guidato da un uomo corpulento e peloso, che sbuffa nuvole d’aria flemmatica, mentre lascia andare gocce di sudore.
“Il meraviglioso convoglio surreale”, “l’apparizione dello strano veicolo”, “questa situazione assurda” non è un’invenzione della mente, non è un’immaginazione improvvisa, non un abbaglio, un sogno o un incubo, il parto chimerico di un carattere votato alla fantasia.
Cos’è davvero quest’enorme apparizione? Che cosa ci fa nel mezzo di una strada deserta di una città deserta? Come è arrivata fin qui? Chi la conduce? A quale mostruosità esotica corrisponde la bestia che trasporta? Che senso ha la sua presenza in questo luogo di gente grezza e miserrima, che non esce la sera e che passa il giorno a lamentarsi di tutto ciò di cui c’è da lamentarsi?
La donna si lascia alle spalle la visione incredibile e, senza mai guardare indietro o di lato, prosegue velocemente la sua strada. Raggiunge, affianca e supera il parco, il teatro di legno, la minuscola chiesa evangelica, il bazar, il vecchio negozio di ortopedia, la pasticceria, un paio di palazzi, una distesa di case, varie panchine, un muro sbrecciato, diversi cumuli di ciarpame ma – prima di raggiungere la sua meta – uno sguardo sfugge alla consegna dello sguardo, lievita leggermente, s’interessa (suo malgrado) a un manifesto che ricopre altri manifesti, la cui colla è ancora fresca.
Il manifesto (che noi possiamo leggere a pagina 37) è questo.

                                 

 

Melanconia della resistenza di László Krasznahorkai è tante cose. È la riscoperta di uno scrittore geniale, che costrinse un altro scrittore geniale (W.G. Sebald) a non dormire la notte, pur di finire il romanzo. È l’incontro con una prosa avvolgente, che riesce a dare calore immediatamente a tutto il corpo come fa un caldo piumone in gennaio. È la conferma che, quando siamo al cospetto di una vera capacità narrativa, possiamo anche interrompere per mesi la lettura: alla ripresa comunque ci ritroveremo immediatamente allo stesso punto, immersi nella stessa atmosfera, con i personaggi che nel frattempo non si sono mossi di un millimetro. Subito, di nuovo, saremo comunque a nostro agio.
Melanconia della resistenza di László Krasznahorkai è una metafora pseudo-distopica sulla devastazione culturale. È la presa di coscienza dell'effimera importanza dell'arte, della musica, della bellezza. È una simbolica bugia sui sistemi di potere e di controllo. È una lucida lezione su come si provoca, si fomenta, si utilizza, si amministra e si governa il disordine, imponendo così l’ordine. È una lezione di Storia, una storia che dà una lezione. È la condivisione di una folle notte di cambiamenti ed è la dimostrazione che il cambiamento non è mai un cambiamento sul serio. Ha a che fare con le grandi questioni che agitano i grandi Paesi ma sa essere anche una microvicenda che sembra partire dalla microevoluzione delle proprie cellule, del proprio tessuto, del proprio corpo.
Melanconia della resistenza di László Krasznahorkai è lo scorrere piano delle pagine, la confidenza data a personaggi che continueranno ad abitare la nostra mente, è l’abbandono assoluto ad una serie di immagini di cui sembra di comprendere il centro ma di cui sfuggono gli orli, le ombre, il senso possibile. Sembra succeda poco ma succede tutto; ad un punto succede tutto ma sembra non sia successo nulla; maschera la finzione con la verità, offre la verità ma lascia assaggiare la finzione, mescola finzione a finzione, verità a verità, rendendo così indistinguibile ogni tesi, ogni affermazione, ogni convinta esposizione momentanea e individuale.
Melanconia della resistenza di László Krasznahorkai – che Susan Sontag ha definito “un’anatomia della desolazione nella sua forma più spaventosa e un commovente manuale per resistere a quella desolazione”; che per Georges Szirtes conferma la capacità del suo autore nel far scorrere l’inchiostro come scorre “un lento flusso di lava”; che critici più esperti di chi firma quest’articolo hanno paragonato (anche) alle grandi narrazioni walseriane sul vuoto assoluto, sul senso d'inutile, sul dolore dell'anima e sul tempo che resta purtroppo da sopportare e da vivere – è uno di quei libri che ti sottraggono al resto del mondo, costringendo a cercarti un rifugio, uno qualsiasi (il letto di casa o il gradone di una scalinata, il sedile dell’auto, la sedia di un bar all’aperto, la pensilina di un mezzo pubblico, la sala d’aspetto di una stazione) per poter continuare a leggere ancora.

“Pensava che trovando almeno una spiegazione in quel sovvertimento della normalità sarebbe stato più facile orientarsi, di conseguenza difendersi in caso di eventuale catastrofe, invece, davanti al manifesto, quella minima chiarificazione non fece altro che accentuare la sua profonda angoscia, perché se il problema prima era stato sperimentare, sia come vittima sia come semplice osservatore, una totale assenza di senso, quella minima chiarificazione – ‘la più grande balena del mondo e altri sensazionali misteri della natura’ – le sembrava davvero troppo, e fu costretta a riflettere sul fatto che se un senso c’era, era opera di una mente poco sana, un po’ deviata. Un circo? E perché mai? Proprio qui, dove nessuno sa se il mondo domani continuerà ad esistere?”.
Poi la donna stringe la borsetta al petto, si piega leggermente in avanti, attraversa la strada, compie gli ultimi metri, raggiungendo finalmente l’androne. Si guarda attorno per la prima e l’ultima volta, apre il portoncino, varca la soglia, lo richiude.
Ill trabiccolo, intanto, si è fermato nella piazza centrale.

 

 

 

 

László Krasznahorkai
La melancolia della resistenza
traduzione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli
Rovereto (TN), Zandonai, 2013
pp. 338

 

NB. Fonte per l'immagine dell'autore: http://www.apieceofmonologue.com/2012_08_01_archive.html



 

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