“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 29 November 2014 00:00

Il teatro di un bambino

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In questi anni siamo stati abituati a un “teatro civile” che è forte delle sue argomentazioni (spesso dette a un pubblico già consenziente alle stesse); “civile” perché ha ragione, "civile" perché è memore di chi andava ricordato, "civile" perché è pulito rispetto alla melma che ci inonda e a cui si contrappone moralmente: facendo testimonianza dal palco. Ci siamo assuefatti – in questi anni – alla retorica del "teatro civile" che salva un quartiere, che è dalla parte del giusto, che merita un consenso quasi preventivo, di fatto inevitabile: indipendentemente dal modo in cui fa teatro.

Piattezza scenica, semplicità drammaturgica, scarsa padronanza dei mezzi basilari per stare in assito sono stati rimossi: troppo spesso, in questi anni, il come ha ceduto il passo al cosa. Le vittime della mafia, la giornalista zittita dalla dittatura, la malasanità; l’omicidio (presunto) del campione sportivo, il traffico di esseri umani o la madre uccisa dalla camorra: qui, in questa stessa strada, magari nello stesso punto in cui, adesso, si fa messinscena. Commozione, prego, ed applausi.
Emotivamente impegnati ad essere cittadini-modello, abbiamo dimenticato d’essere spettatori e di dover pretendere – da chi fa teatro – del buon teatro.
Non basta il tema. Non basta l’argomento. Non basta, la pur giusta rivendicazione di partenza, per fare del buon teatro.

Ad un passo dal cielo (W la mafia), di Aldo Rapè, è il monologo in soggettiva di chi resta, dopo un agguato. Calogero aveva allora dodici anni e continua, oggi, ad avere dodici anni: anche se ne ha compiuti trenta.
Il trauma. Il ricordo che non s’alleggerisce e che diventa un blocco. L’evento che arresta la crescita, ferma il battito, impone alla mente una stasi. Era bambino, nel momento in cui i genitori sono crivellati di colpi, e bambino rimane comportandosi, quindi, come si comporta un bambino: parla con un burattino di legno; incespica quando pronuncia le parole difficili; utilizza un linguaggio infantile, monocorde, civettuolo. Pure verranno – come lampi improvvisi – certi momenti di chiarezza, certe frasi di rivendicazione e di rabbia, certi stati d’animo più maturi durante i quali fare analisi, valutazione e rimprovero ma, nel complesso, l’adulto Calogero è pur sempre e soltanto il bambino Calogero: parla perciò con gli uccellini, prepara i cannoli con le nuvole e sorride al cielo, quando il cielo gli sorride.
“Io e Gino” – il Pinocchio in legname che gli fa da spalla teatrale – “assistiamo alla più bella tra le storie d’amore” racconta; “si rincorrono da secoli” dice; “quando uno è giù, l’altra è su: non si trovano mai” spiega; “una volta si incucchiarono, si baciarono” e “il cielo è diventato tutto scuro per la vergogna” aggiunge, imbarazzandosi.
Calogero passa il tempo a guardare il sali-scendi della luna e del sole, inventandone la vicenda amorosa; improvvisa il nome di un’anziana; s’interroga su quale musica possa piacere a una ragazza, mendicante a un semaforo. S’illude, scherza, gioca, s’arrampica, salta, s’infervora, si cruccia, torna allegro, si nasconde e parla, confonde, mima, sbuffa; quando ride mette la mano davanti alla bocca; quando si spaventa aggrotta le sopracciglia, fa il muso, chiede conforto al Pinocchio. Calogero, in questo modo, rimuove. Fugge, scappa, evita; si allontana, schiva, scansa, cerca di scordare non riuscendo davvero a scordare. Calogero morirebbe piuttosto che fare i conti con la realtà: “Io e Gino vogliamo entrare nel mondo delle favole. Tanto, per due personaggi in più…” afferma e – la dichiarazione – ha valore collettivo, regionale, diventa affermazione sociale giacché, “in Sicilia, abbiamo sempre creduto alle favole” ovvero: da sempre – in Sicilia – ci raccontiamo le storie, pur di non confrontarci con la verità.
È così che comprendiamo che Calogero è (anche) l’isola da cui viene: ne è un’emanazione corporea, una rappresentazione iconica, individuale, personalizzata. È così che comprendiamo che il suo "parlare" è l'unica vera opposizione possibile al silenzio delle istituzioni, che s'aggiunge − di solito − al silenzio che segue il rimbombo di una strage, il fischio dei colpi, le ultime parole che (vittima o carnefice) hanno pronunciato.

Questo monologo funziona a tratti. Quando matura nelle rivendicazioni più esplicite, abbandonando il tono fabulistico e metaforico di partenza, s’appesantisce: la conta dei morti ammazzati, il racconto del fatto di cronaca, l’accusa diretta alla platea e i ringraziamenti paradossali alla mafia (“viva la mafia perché mi permette di stare qui sopra”, “perché mi permette di pisciare in testa a chi voglio”, “perché ha ucciso i miei genitori”) generano una controindicazione involontaria per cui, divenendo seriosa la forma, questa stessa forma si fa presto retorica, consueta, abituale.
Invece, Ad un passo dal cielo (W la mafia), funziona quando rinuncia all’indicazione esplicita, quando trascura il grido della verità, quando non usa la realtà ma gioca col falso, s’abbandona al trucco, recita esponendo la recita.
Piace (almeno a chi firma l’articolo) l’interpretazione di un ruolo, che contrasta l’esposizione di sé del “teatro civile”; piace l’indicazione del confine esistente tra palco e platea (“Che dobbiamo venire a fare giù? C’è forse qualcosa di più importante da fare?”); piace il riferimento continuo all’esistenza del pubblico (“Questi ci guardano”) così come piace l’andamento melico del racconto, garantito dalla reiterazione di una frase che regolarizzi la recita (“Quando sarai grande potrai fumare il sigaro”) e dal ritorno ossessivo di una domanda, funzionale a tenere desta l’attenzione di chi osserva (“Gino, Gino, lo senti questo silenzio?”).
Ad un passo dal cielo (W la mafia) piace – insomma – quando utilizza gli espedienti del teatro per fare teatro: la trasfigurazione, il calco grottesco, il riutilizzo simbolico dei pochi elementi di scena; l'evocazione dell'assente, la fascinazione cuntista, la verbalità della performance e l’assurdo dialogico, l’inverosimiglianza, certo estetismo di maniera. Così la luce in alto a sinistra diventa una lampada casalinga; tre ceppi di legno sono una torta con le candeline mentre, la scia grigia di fumo che s’alza nel buio finale, racconta l’evaporarsi della storia, il suo lento svanire.

In questi anni siamo stati abituati a un “teatro civile” che – in nome della cronaca – ha dimenticato la poesia; un “teatro civile” che si è limitato spesso al riporto, che ha impoverito il suo stesso linguaggio accontentandosi di parlare il dialetto del vicolo o uno sporco (e facile) italiano pseudo-proletario; un “teatro civile” che ha inteso la fantasia come un intralcio, la finzione come un errore. Ci siamo assuefatti – in questi anni – a documentate dissertazioni, cui sono andati i nostri applausi non per come venivano recitate ma per cosa hanno ribadito: a noi pubblico, già mediamente consapevole e informato.
Abbiamo assistito – in questi anni – alla trasformazione della parola “impegno” e dell’aggettivo “militante” in uno slogan, sempre valido. Così, nel nome dell’”impegno militante” abbiamo santificato scrittori e drammaturghi, preoccupandoci poco o niente dell’effettiva qualità artistica dei loro copioni. Abbiamo accettato che reportage, analisi e inchieste fossero considerate opere teatrali, pur rimanendo (degnamente) reportage, analisi e inchieste. Abbiamo preferito la denuncia alla creazione, il proclama all’inventiva, i fatti alla resa artistica dei fatti. 
Ad un passo dal cielo (W la mafia), nella sua imperfezione e pur cedendo talvolta ai cliché della Sicilia esportata oltre-Sicilia e praticando – in alcuni momenti – la via più facile per ottenere compatimento emotivo, ha il merito di aver fatto, del passato di un adulto, il presente di un bambino.
Condizione traumatica, nella vita reale. Ma qui si gioca, qui si recita, qui – per fortuna – si tenta di fare teatro.

 

 


Ad un passo dal cielo (W la mafia)

di Aldo Rapè
regia Nicola Vero
con Aldo Rapè
produzione Primaquinta
lingua italiano, dialetto siciliano
durata 50'
Napoli, Nuovo Teatro Sancarluccio, 26 novembre 2014
in scena 26 novembre 2014 (data unica)


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