“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 31 December 2013 00:00

Provando a fraintendere

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Talvolta la critica deve provare a fraintendere,
ricercando le ragioni possibili, celate, nascoste,
addirittura involontarie.
                                      (Giovanni Raboni)
                      

 

Dalla cartella stampa: "Raccontare uno smarrimento generazionale, una perdita di orizzonti, la ricerca di una terra promessa, attraverso una leggerezza e uno humour che nascondono altro: gli alieni potrebbero essere i macrosistemi economici che ci opprimono o gli impoverimenti culturali che stanno devastando il presente e il futuro della nostra generazione. O potremmo essere noi stessi".
Talvolta si può provare a fraintendere uno spettacolo: spinti da ciò che si è appena visto, si può provare a interpretarlo in maniera diversa, illudendosi, forse errando ma cercando comunque il valore o il senso (ulteriore) di certi segni, di alcuni particolari.
Proviamo, quindi, a fraintendere lo spettacolo dimenticandone la presentazione appena riportata. Partendo da tre citazioni.

La prima.
“Io gli alieni non li ho visti”.
“Che aspetto hanno?”.
“Terribile: sono identici agli esseri umani”.
La seconda.
“Si nutrono della nostra malinconia, delle nostre paure; più ci abbattiamo e maggiore è il rischio di essere individuati. Dobbiamo depistarli con la gioia”.
La terza.
“Che senso ha la poesia mentre il mondo è in sfacelo?”.
Fraintendiamo, adesso.
L’aspetto più interessante di A zonzo #02 non è la (notevole) capacità di generare effetti visivi stranianti (il faro diretto ad accecare la platea, i raggi verdognoli nell’oscurità, la piccola luce colorata che volteggia tra le poltrone per mezzo di un elicotterino meccanico); non è la trama che sembra sia rappresentata (tre supertesti in fuga da un possibile-improbabile attacco alieno, alla ricerca del “Centro” nel quale cercare rifugio e salvezza) né è − ci mancherebbe − la possibile allusione ai macrosistemi economici, agli impoverimenti culturali, al futuro della nostra generazione: l’aspetto più interessante è il senso metaforico che lo spettacolo sembra assumere quando, trascorsi circa quaranta minuti, uno dei tre interpreti avanza in ribalta e – a luci chiare – inizia così la propria battuta: “Non venite a cercarci, stiamo tutti bene. Non siamo soli: ci sono altri che guardano nella nostra direzione, che ci guardano ma non so se ci vedono…”.
È in questo preciso momento che – chi scrive – ha la sensazione che A zonzo #02 sia una metafora del teatro o meglio: una metafora della condizione degli attori, di tre attori che – fuggiti dal resto del mondo – si sono assiepati in una stanza, in uno spazio chiuso, in una tana e – dunque – in una condizione che non è da fuga all’aperto ma da nascondiglio segreto e vitale.
Così fraintendendo si spiegherebbero diversi aspetti della messinscena, ad esempio la funzione della striscia di tappeto verde che, apparentemente, serve a delineare il cammino che viene intrapreso dal piccolo gruppo ma che sembra piuttosto denotare il vero spazio di scena – l’unico vero spazio di scena – e che dunque diventa un palco sul palco, una pedana sulla pedana, il luogo effettivo sul quale potersi dedicare pienamente alla recita.
Così fraintendendo potrebbero motivarsi come giochi da palco i continui ritorni di frasi che vengono replicate dallo stesso personaggio (“Io ho studiato ortopedia”; “Io vado ad intuito”; “Dobbiamo andare avanti”) o che – invece – passano da figura a figura, come fossero un repertorio messo in comune e disponibile ad essere scambiato e riusato ogni volta: “Comunque, se vuoi sfogarti, puoi farlo: sono uno che sa ascoltare”.
Così fraintendendo si confermerebbe l'evidente valore metateatrale di certe battute (“L’amigdala… L’ho già detta questa?”); di certi sguardi rivolti direttamente agli spettatori; dell’annullamento stesso d’ogni quarta parete possibile quando gli effetti dell’illuminotecnica sfiorano, toccano o investono in pieno la sala.
Così fraintendendo A zonzo #02 sarebbe la messa in scena di tre interpreti di tre ruoli (un medico, un cantante, un cercatore di se stesso che ha fallito la ricerca di se stesso) e l’intera ora trascorsa assieme non sarebbe che uno scampolo di teatro rubato alla vita: fuori, altrove e ovunque gli altri, gli alieni, coloro che non hanno amore per la poesia o per la musica mentre qui – in questo teatro in cui ci si rintana illudendo(si) di essere tra i sentieri e tra i boschi – ecco la possibilità ostinata di produrre uno spettacolo producendo vignette animate, piccoli giochi da coppia o da trio, sketch della durata di qualche minuto (il fuoco che s’accende e si spegne soltanto al volere di uno dei tre; l’intreccio impossibile tra tutte le mani; l’induzione al canto, alla confessione singola, al racconto fatto a più voci).
Così fraintendendo scriviamo dunque che A zonzo #02 sembra proprio questo: una possibilità di teatro che tre (aspiranti ed effettivi) interpreti si procurano sottraendosi al mondo, penetrando uno spazio, occupandolo, percorrendolo, facendolo proprio e colmandolo di schizzi, di smorfie, di crolli, di battute dette all’unisono; di equilibri squilibrati, di cambi d’assetto e di ruolo, di risate fasulle.
D’altronde non è a teatro che si cammina senza spostarsi davvero? Non è in teatro che si può alludere al sibilo di vento tra i rami di un ciliegio pur non esistendo né il sibilo, né i rami, né il ciliegio? Non è a teatro che si può far finta di morire per rinascere in un minuto diventando il gemello di se stesso? E non è in teatro che Enrico, Emilio e Lorenzo – “uno, uno e uno” – si possono permettere di essere “l’uno l’altro e tutti e tre nessuno”? In teatro si sogna il mare, la spiaggia, una figlia che non si ha e che, forse, non si avrà mai; in teatro si generano alleanze che hanno la durata di un istante (il primo e il secondo contro il terzo; il secondo ed il terzo contro il primo; il primo ed il terzo contro il secondo); in teatro si può – ogni volta che si inizia una scena – iniziarla sempre alla stessa maniera: “Quel che ci occorre è…”.
Partitura che gioca coi richiami al distopico (Bradbury ed Asimov) quanto col classico (Tre uomini a zonzo di Jerome), mostra con evidenza crescente il tentativo d’ingannare l’orologio con burle e parodie, tra brevi movimenti o coreografie accennate (molto bello il gioco delle ombre in ombra, in uscita dalla quinta di destra, mentre il tappeto viene srotolato, traversando il palco intero) e battibecchi nervosi: “Zitti”, “Ma stiamo zitti”; “Fermi”, “Ma stiamo fermi”.
È approfondendo ulteriormente il senso metaforico dello spettacolo (ed il nostro fraintendimento) che – allora – possiamo pensare A zonzo #02 anche come all’auto-rappresentazione di un gruppo o di una compagnia che cerca di produrre e motivare la propria presenza su scena, che cerca di scovare e percorrere il proprio tragitto e la propria ricerca, che si sforza di intraprendere un viaggio che ha come inizio, passaggio ed arrivo prescelti il Teatro: questo luogo pienamente inserito nel mondo ma – dal mondo (e dal “Centro” del mondo) – anche distante e appartato, nascosto e segreto.
Va parimenti scritto che – per quanto siano chiari l’abilità di recita ed un affiatamento che consente la buona riuscita dello schema complessivo e di parte dei frammenti previsti – non tutto funziona: che certi numeri tra i numeri non divertono o intrattengono quanto dovrebbero; che il finale dell’opera sembra avere una forma vagamente frettolosa; che a momenti in cui si apprezza (per l’uso accorto di una pausa, il plateale fragore di un tonfo, l’evidenza di una macchietta) ne seguono altri in cui si percepisce un vuoto, un silenzio, una frattura cui occorre porre rimedio. È il pericolo che si corre quando si passa il tempo ad ingannare il tempo: sovente ne restano degli scampoli che fanno sentire tutto il proprio peso, tutta la propria lentezza, tutta la propria importanza.
“Da quando è cominciata questa avventura, io senza di voi, sarei solo”.
“Prima che cominciasse questa avventura io, senza di voi, ero solo”.
“Tra quanto tempo arriveremo?”, “Tra una settimana”, “Tra un mese”.
“È stato bello girare in tondo, andare a zonzo”.
Condizione collettiva, bisogno reciproco dell’altro, formazione di una piccola comunità che collabora; partecipazione al progetto, all’avventura, alla propria salvezza; impegno e messa in discussione dell’impegno, della sua qualità, della sua crescita (per la quale può servire una settimana, può occorrere un mese) e natura girovaga, fuggiasca, andante ma con propensione stanziale: per la durata dello spettacolo, per la durata di una sua replica.
A zonzo #02, andando a zonzo, porta a zonzo il teatro.
Questo ci è parso. Fraintendendo, volutamente.

 

 

 

A zonzo #02
progetto, scrittura, partitura fisica e regia InBalìa Compagnia Instabile
con Marco Cacciola, Michelangelo Dalisi, Francesco Villano
scene, costumi e assistenza alla regia Paola Tintinelli
luci Luigi Biondi
produzione InBalìa Compagnia Instabile
con il sostegno produttivo di Residenza Idra, Centro Teatrale Bresciano
con il sostegno di Teatro Litta, PiM OFF
durata 1h
Napoli, Teatro Piccolo Bellini, 28 dicembre 2013
in scena dal 26 dicembre 2013 al 5 gennaio 2014

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