“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 22 January 2019 00:00

Recuperando sguardi lasciati in sospeso

Written by 

A Napoli Teatro Festival ormai finito da mesi, ritorno su visioni accumulate, lasciate in sospeso e in debito, creditrici di uno sguardo già speso e di una analisi dovuta. Nel calderone generale di un Festival che ha messo insieme un cartellone ricco ma disomogeneo, nel quale si è fatto fatica a riscontrare una linea guida che delineasse una vocazione poetica definita a cui potesse essere improntata la rassegna, s’è avuto modo di assistere a spettacoli di fattura differente e di differente valore. Diamo qui riscontro di ciò a cui abbiamo assistito, una visione “postuma” ma non per questo sbiadita o – peggio – scaduta, visto che alcuni di questi spettacoli li vedremo tornare nei cartelloni teatrali della stagione ora in corso.

L’attenzione si appunta su uno spettacolo della sezione Osservatorio (Full ‘e Fools, della compagnia Crown Theater), su due spettacoli nazionali (il Fedeli d’amore del Teatro delle Albe e Il paese che non c’è di Ura Teatro) e due spettacoli internazionali di danza (Tomorrowland, messo in scena da tre danzatori/formatori di Jan Fabre) e Un Poyo Rojo della omonima compagnia argentina.
Partiamo proprio da Full 'e Fools, portato in scena della compagnia Crown Theatre, cui va riconosciuta l’audacia del tentativo di lavorare su una riscrittura che trae ispirazione delle opere shakespeariane, in particolare prendendo i fools del Bardo e traslandoli in una dimensione altra, partenopea nell’idioma e nell’ambientazione. Siamo in un contesto all’apparenza degradato, tra rigatterie e rifiuti, in cui agiscono e dialogano quattro figure “sovrane” vagabonde. I riferimenti sono a Riccardo III e a Re Lear per le parti maschili, a Lady Macbeth e alla Lavinia del Tito Andronico per quelle femminili; a questi, a ciascuno dei quali può idealmente corrispondere un seme delle carte di una simbolica partita che s’apprestano a giocare – e che non giocheranno mai – s’aggiunge una figura jolly, a formare il full di cui nel titolo. Il riferimento ai fools shakespeariani pare avere soprattutto una valenza coscienziale, nel tentativo di tradurre in una costruzione drammaturgica del tutto autonoma un senso del tragico che accomuni vite dissolte e emarginate, confinate in un limbo simbolico fatto di pattume e scarti di cibo; vite borderline che sono archetipi e che giocano una metaforica partita in cui sono chiamati a mettere in ballo ciascuno la propria minutaglia, che però nel gioco stesso finisce per  assumere il valore simbolico dell’oggetto più importante che ciascuno possegga.
Quella firmata da Paolo Romano è una scrittura aspra, che si regge su un proprio ritmo interno, ma che di contro manifesta qualche affanno nel suo dipanarsi in dialogo e nella costruzione di un percorso in cui ci si sgancia ben presto dai riferimenti shakespeariani – che mantengono la loro funzione ispiratrice di archetipi – per tradursi in una dimensione simbolica in cui le entità coscienziali rappresentate in scena incarnano altrettante carte da gioco nelle mani di un destino mazziere che ne orchestra le sorti. Il dispositivo drammaturgico è talmente articolato e complesso che a tratti, pur se sorretto da una buona recitazione, si disperde, anche a causa di una propensione all’evocazione verbale immaginifica e oracolare dei dialoghi, i cui spunti ritornano però a confluire in una dimensione unitaria col compiersi dell’opera, che nel suo complesso ha un respiro ansante che ne frena in parte il potenziale sviluppo.

Passando a Fedeli d’amore del Teatro delle Albe, nel leggere – da buon ultimo – alcune analisi altrui dello spettacolo, ho riscontrato come ricorrente una prospettiva da cui guardare al lavoro firmato da Marco Martinelli e interpretato da Ermanna Montanari che mi trova in sostanziale disaccordo, creando a mio avviso un fraintendimento di fondo e – di conseguenza – una lettura distorta dell’opera: si è commesso in qualche caso l’errore di guardare a Fedeli d’amore come fosse un’opera d’ispirazione dantesca in rapporto di filiazione diretta con la Divina Commedia (a cui pure le Albe stanno lavorando, ma in altro e ben più ampio progetto). A mio parere invece la scrittura di Marco Martinelli prende le mosse da una suggestione – peraltro molto bella e poeticamente immaginifica – che è quella di lasciarsi insufflare dalla “nebbia che parla in un’alba del 1321”, una nebbia nella quale esalano gli ultimi rantoli del Poeta morente raccolti dalla figlia Antonia, in una Ravenna brumosa che a Dante esule diede ricetto.
Ed è una suggestione molto forte quella che s’irradia in quel corpo di voci che è Ermanna Montanari, cassa armonica in cui risuona, vibra e palpita un afflato politico (o “politttttttico”, con sette “t”, come sette sono i canti – o le piegature, direbbe Marco Martinelli – in cui si suddivide questo spettacolo), che elegge a nume l’Alighieri, ne raccoglie gli ultimi respiri per farne soffio ispiratore. E l’ispirazione da cui parte questo spettacolo è il dettame dantesco ad ampio raggio, quello che fa riferimento alla patria dispersa, a quella “Serva Italia” ai cui destini di corruttela s’oppone come risposta il supremo valore d’Amore, quell’amore che dello stil novo fu principio fondante e che qui si trasforma in amore di patria, nell'accezione più alta e civile.
Ma chi sono questi “fedeli”a cui rivolgere canto e invettiva perché capaci di leggerla, raccoglierla e farsene fiancheggiatori? Parafrasando Guido Guinizelli potremmo dire che sono i cuori gentili cui “repaira sempre amor” o, se vogliamo rimanere alle parole del Sommo Poeta, “a ciascun alma presa e gentil core” (Vita Nova); e quei “fedeli” potrebbero benissimo essere il Guido Cavalcanti e il Lapo Gianni del sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io in cui Dante vagheggia il desiderio malinconico e nostalgico del ragionare insieme dell’amore.
Su questi spunti e su queste suggestioni forti s’innerva la recitazione polimodulare di Ermanna Montanari, immersa in un clangore metallico e crudo di suoni in cui la sua voce graffia in quel romagnolo gutturale e aspro, quel “ruh”, quel vento che spirando racconta ed evoca il buio della fine, una morte in cui “smuore ‘e scritor”, ‘smuore’ lo scrittore, dove in quella ‘s’ che non è dialetto ma morte che striscia, biascica e lamentosa accade, c’è uno dei significati che a quella morte, esule e inascoltata del Poeta, qui si dà: ‘smuore’ e rivive, in questo canto che nasce respiro, si fa grido e deflagra orazione civile: “È questa la politica?”, si chiede retoricamente l’Italia che scalcia nel quinto quadro, preludendo a un’invettiva che converge verso una fine che non è fine, ma nuova vita che rifiorisce dal lascito etico del Poeta.
Sette quadri per sette variazioni vocali di tono, in cui le musiche di Luigi Ceccarelli eseguite dal vivo dalla tromba di Simone Marzocchi e i tagli di luci e ombre disegnati da Enrico Isola e Anusc Castiglioni concorrono a creare un tutto armonico in cui la parola si espande e la creazione prende forma come fantasmi che appaiono alla luce.

Altro spettacolo dalla valenza schiettamente (e più esplicitamente) politica è Il paese che non c’è, ideato e inscenato da Gianluigi Gherzi e Fabrizio Saccomanno; si tratta di uno di quegli spettacoli che, prim’ancora di essere ben fatti – e per costruzione narrativa ed evocazione scenica possiamo dire che lo è – legittimano l’altrimenti inflazionata definizione di necessità applicata al teatro e segnatamente a quel teatro che dedicandosi e lasciandosi ispirare da qualcosa di specificamente politico, ne fa talvolta il paravento dietro cui acquattarsi per rivendicare facilmente valore. Il paese che non c’è invece coniuga urgenza e verità, gettando un fascio di luce – quello sì davvero necessario – su una storia contemporanea, su riverberi che mediaticamente svaniscono, ma che rappresentano una tragedia genocida tuttora in corso, quella del Kurdistan e del suo popolo, che ebbe ed esaurì il proprio risalto mediatico soltanto nei giorni in cui dalle nostre parti approdò il leader del PKK Abdullah Öcalan, che ben presto si trasformò nei nostri paraggi nell’orpello a cui aggrappare le nostre beghe intestine.
Lo spettacolo di Gherzi e Saccomanno invece fa qualcosa di molto pratico e concreto: prende una storia, la sviscera, la racconta, ce la porge e ce la disegna e non lo fa tanto per scuotere coscienze sopite, quanto per rendere edotte e partecipi persone ignare di una verità sepolta dal silenzio. In questo modo, la funzione politica dell’atto teatrale rinuncia pacificamente allo scranno comiziale per farsi megafono, cassa di risonanza, diffusore di una verità amara e misconosciuta, che non è meno grave e atroce solo perché dai più ignorata e taciuta. Perché si parla di un popolo senza confini, di una nazione senza terra, di genti in perenne marcia che resistono fiere a un destino che qualcun altro vorrebbe scrivere in loro vece, soggiogandoli, sopraffacendoli, confinandoli e infine magari annientandoli.
Ne sappiamo poco del Kurdistan, davvero poco, tant’è che Gianluigi Gherzi, all’ingresso prima di salire in palco, ci porge un foglio di sala su cui c’è una carta geografica di questo luogo negato, quadripartito fra Turchia, Siria, Iran e Iraq, incastonato in un groppo di montagne che l’incastrano attorno a confini altrui, in un aspro alveo di fierezza che rivendica indipendenza.
È una storia che non conosciamo, o che conosciamo poco, ma per venirne a conoscenza – e per farlo per giunta all’interno di un teatro – è necessario che ce la si sappia raccontare. È quello che avviene, attraverso una costruzione lineare e bilanciata, in cui l’arte della scena e il valore estetico della parola non abdicano al principio di realtà e all’evidenza cronachistica, ma anzi ne divengono legittimo amplificatore di senso, composizione in cui la parola e la scena sono funzionali a trasformare quella che altrimenti potrebbe essere una semplice narrazione in uno spettacolo teatrale lirico e onesto, necessario e coinvolgente.
La scena è occupata su un lato da un tavolo asimmetrico, dal piano inclinato, su cui sono poggiati dei libri (sono gli strumenti della conoscenza, del sapere che si trasmette, che è poi quello che prova a fare questo spettacolo su un tema poco frequentato se non addirittura oggetto di facile rimozione); accanto due sgabelli, sul fondo un grande pannello rettangolare, che fungerà da lavagna, su cui vivificare luoghi e confini, percorsi ed eventi, mentre Gherzi e Saccomanno istorieranno con parole i racconti che su quel pannello verranno progressivamente disposti come su una carta geografica.
L’inizio è informale, come se si trattasse di una chiacchierata tra amici, talmente informale che i due attori ci raccontano della gestazione dello spettacolo, delle fonti dirette a cui hanno attinto, dell’amicizia con Giovanni Giacopuzzi, attivista della causa curda, che interviene telefonicamente in diretta sul finire di ogni replica.
È la storia di un popolo in cammino la storia del popolo curdo, e in cammino si mettono anche le parole dei due uomini in scena, portatori di due linguaggi teatrali differenti, che si incontrano e si intrecciano, fino a filtrarsi in reciproca osmosi. Ci sono due stili sul palco, due modi diversi di concepire la recitazione e la narrazione, due concezioni diverse del senso e del peso della parola: da un lato c’è la concretezza verbale di Fabrizio Saccomanno, la sua lingua venata di Salento che espunge il superfluo, rinuncia a ogni aggettivazione pleonastica affinché ciò che racconta abbia lo spessore denso della materia concreta e della carne degli uomini; dall’altro c’è Gianluigi Gherzi, che della parola poetica fa la sua cifra espressiva e che per solito articola il suo dire in un eloquio raffinato seppur improntato a un’estrema chiarezza; questi due linguaggi s’incontrano, s’intrecciano nel tessere un filo comune, addirittura si scambiano invertendo i registri; così capita di percepire un veemente lirismo nella parola essenziale di Saccomanno che racconta di pezzi di Kurdistan sbarcati (o naufragati) in Salento, e ancora col suo piglio deciso mettere ancora le parole in fila nel dire dei passi di un popolo in cammino attraverso le montagne; di contro, Gherzi impronta la narrazione a una concretezza che ha l’evidenza dei fatti, quando racconta di confini, di guerre, di luoghi che ci pare di vedere prendere corpo nelle sue parole pur non avendoli mai ancora veduti nemmeno in foto e lo fa col fervore persino rabbioso suscitato dal senso d’ingiustizia che pervade questa storia.
Raccontano e disegnano, Gherzi e Saccomanno, una “storia che non si può raccontare”, come ripete spesso Fabrizio; raccontano e disegnano dividendosi il palco in due, sfruttando la lavagna alle loro spalle per dare, a turno, un quadro sia pur schematico di quel che ci stanno dicendo, facendo apparire, nel composito disegno delle spartizioni quello che sarebbe “il paese che non c’è”, che però esiste eccome nelle loro parole che ce lo dicono, nei loro occhi che ne riflettono l'indomito ardore, ed esiste soprattutto nelle storie che prendono corpo in scena e che dicono di un popolo che s’oppone strenuo a chi lo vuole cancellare, come fosse un accidente della storia, un popolo che marcia e lotta per ribadire il proprio diritto ad esistere.

Per finire, due spettacoli di danza che si sono rivelati meritevoli di attenzione, produzioni straniere che suggeriscono una riflessione in merito, in particolar modo sulla direzione performativa imboccata dalla danza contemporanea, indirizzata verso un tipo di linguaggio sempre più affrancato dalla danza pura in favore di una drammaturgia corporea che si traduce in partiture dinamiche. Gli spettacoli sono Tomorrowland, produzione francese allestita da tre danzatori che svolgono anche il ruolo di formatori per la compagnia di Jan Fabre, e Un Poyo Rojo, che vede un duo argentino inscenare una coinvolgente visual comedy. Comun denominatore dei due spettacoli – per il resto di impianto decisamente difforme – è il fragore esplosivo dell’energia profusa, che si traduce in un linguaggio scenico forte e diretto, in cui l’esuberanza fisica (atletica) dei performer si mette al servizio di idee chiare e intellegibili.
È una Sala Assoli “capovolta” quella che ospita i due spettacoli: ribaltata e invertita la posizione di palco e platea, via i sedili, solo spalti. Tomorrowland vede tre performer in scena, una catasta di legna da ardere su un lato, sul pavimento dieci ciocchi disseminati ricoperti di una patina argentea, più altri due discosti in penombra; a destra un microfono inastato, sul fondale due schermi da una quarantina di pollici l’uno; una grossa stroboscopica pende dal soffitto. Lo spettacolo è un’esplosione di energia, punteggiata dall’esposizione di pannelli significativi che suggeriscono il senso intrinseco dello spettacolo: “FUCKING GRAVITY” recita un cartello, “BETTER GRAVITY” il suo retro. Gli interrogativi posti, mentre si diffonde un ritmo cadenzato e metallico, sono ricadute pesanti in un contemporaneo che ci assorbe interamente nella ricerca di percorsi prestabiliti da altri per noi, ci si chiede quale sia il peso della nostra anima, macellata come carne fresca nell’ingranaggio del tempo e ci viene chiesto, parafrasando Baudrillard, “COSA FARETE DOPO L’ORGIA?”, dopo che ci saremo lasciati fagocitare e sputare via dal meccanismo della società in cui siamo immersi.
Un disegno movimentale privo di sbavature, un congegno coreografico incentrato su una confusione precisamente definita e organizzata, il linguaggio corporeo – fatto di membra che si offrono nella loro nuda essenzialità e di sequenze visuali – simbiotico ai segni che si materializzano in scena (cartelli, interazione col pubblico suoni elettronici potenti e voci gutturali), al netto di qualche “fabrismo” perdonabile, concorrono a rendere chiara una progettualità di senso che restituisce una fotografia in distorsione della società contemporanea, appesantita da gangli e lacciuoli che la ancorano pesantemente a terra (“FUCKING GRAVITY”, appunto) e che appare preda di interrogativi insoluti in merito al proprio futuro, nebuloso e frastagliato, la cui inquietudine ha i riverberi acidi, purpurei e pulviscolari delle atmosfere punk continuamente evocate in scena.
Di impianto completamente diverso è Un Poyo Rojo degli argentini Luciano Rosso, Nicolás Poggi, una visual comedy, che s’apparenta al lavoro della compagnia francese testé riportato per alcune peculiarità: i performer già in scena, la ricerca dell’interazione col pubblico, ma soprattutto per lo sprigionamento debordante di un’energia fisica vitalissima e squassante, che vede i due danzare all’insegna di un atletismo competitivo e giocoso, su una scena che richiama lo spogliatoio di una palestra, nella quale gli stimoli provenienti dal mondo esterno penetreranno attraverso una radio che verrà accesa in diretta durante lo spettacolo, mentre Luciano e Nicolás si sfidano in giocolerie acrobatiche e clownesche. Ma anche nella loro interazione – così come in quella degli altrettanto energici creatori e attori di Tomorrowland – si può facilmente ravvisare un intento di offrire uno sguardo, in questo caso meno cruento, ma altrettanto disincantato, sul panorama contemporaneo, sugli eccessi  e le incongruenze dell’umano.





Napoli Teatro Festival Italia

Full ’e Fools
testo
Paolo Romano
regia
Crown Theater
con Rossella Amato, Gianluca d’Agostino, Marcella Granito, Paolo Romano, Gabriele Carlo D’Aquino
costumi Paolo Romano
oggetti di scena Polivalente Laboratorio Scenografico
disegno luci Peppe Santi
foto di scena Salvatore Minopoli
riprese video Alessandro Farese
montaggio video Ivan Mazzone
produzione CROWNTHEATER & L.A.A.V. Officina Teatrale
paese Italia
lingua napoletano
durata 1h 10’
Napoli, Palazzo Reale – Cortile delle Carrozze,16 giugno 2018
in scena
16 giugno 2018 (data unica)


Fedeli d’amore
polittico in sette quadri per Dante Alighieri
di
Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli, Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari
musica Luigi Ceccarelli
tromba Simone Marzocchi
regia del suono Marco Olivieri
spazio e costumi Ermanna Montanari, Anusc Castiglioni
ombre Anusc Castiglioni
disegno luci Enrico Isola
tecnico luci e video Fagio
tecnico ombre Alessandro Pippo Bonoli
realizzazione musicheEdisonstudio Roma
consulenza musicale Francesco Altilio, Giulio Cintoni, Cristian Maddalena, Mirjana Nardelli, Fabrizio Nastari, Giovanni Tancredi, Andrea Veneri
consulenza iconografica Alessandro Volpe
organizzazionee promozione Silvia Pagliano, Francesca Venturi
foto di scena Enrico Fedrigoli
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia e Ravenna Festival
paese Italia
lingua italiano, dialetto ravennate
durata 1h
Napoli, Teatro Sannazaro, 17 giugno 2018
in scena dal 15 al 17 giugno 2018


Il paese che non c’è
Viaggio nel popolo delle montagne

progetto Gianluigi Gherzi, Fabrizio Saccomanno
in collaborazione con UIKI onlus rete – Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italiae GUS – Gruppo Umana Solidarietà “G.Puletti” onlus
con
Gianluigi Gherzi, Fabrizio Saccomanno
ideazione scene Denise Carnini
realizzazione scene Cosimo Scorrano
disegno luci e tecnica Angelo Piccinni
consulenza storica e culturale Giovanni Giacopuzzi
organizzazione e cura del progetto Giovanna Sasso
foto di scena
Salvatore Pastore
produzione Ura Teatro
con il sostegno di Festival Collinarea, Associazione Olinda Onlus e Residenza artistica Teatro Comunale di Novoli – Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro
paese Italia
lingua
italiano
durata
1h 10’
Napoli, Galleria Toledo, 28 giugno 2018
in scena 27 e 28 giugno 2018


Tomorrowland
creazione e interpretazione Annabelle Chambon, Cédric Charron, Jean-Emmanuel Belot
regia Jean-Yves Pillone
coproduzione MA scène nationale de Montbéliard
supporto alla residenza Les Marches de l’Été
in partnership con IDDAC
con il supporto di
La Manufacture CDCN d’Aquitaine
foto di scena Salvatore Minopoli
paese Francia
durata 50’
Napoli, Sala Assoli, 13 giugno 2018
in scena dal 13 al 15 giugno 2018


Un Poyo Rojo
coreografia Luciano Rosso, Nicolás Poggi
regia e disegno luci Hermes Gaido
produzione Un Poyo Rojo/T4
foto di scena Sabrina Cirillo
paese Argentina
durata 1h
Napoli, Sala Assoli, 24 giugno 2018
in scena dal 22 al 24 giugno 2018

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook