“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 16 December 2016 00:00

Ivanov o del nichilismo

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Ivanov è un Amleto?
L'Amleto di Shakespeare cammina a ciglie basse, come cercasse il padre nella polvere. Veste di nero, si muove senza costrutto da una stanza all'altra della fortezza e in lui “né l'uomo esteriore né l'interiore somigliano a ciò che era”. Qualcosa lo affligge. Amleto ha smesso di bere e di frequentare le taverne, non bada più alla musica, non tira più di scherma e dalla bocca gli escono solo paradossi, metafore illogiche, associazioni incomprensibili; Amleto legge tanto, Amleto legge troppo. Amleto osserva e annota su un taccuino e – qualche volta – scrive versi, poesie che sembrano aver perduto il loro senso: “Dubita che le stelle siano fuoco, dubita che si muova il sole, dubita che la verità menta non poco...”. Di Amleto gli altri dicono sia melanconico, notturno, ormai ammalato, dicono che vederlo è uno spettacolo penoso: dicono sia pazzo; di sé invece Amleto afferma: “Negli ultimi tempi ho smarrito la mia allegria, ho trascurato ogni mia abitudine di svago ed esercizio e – in verità – è così depresso il mio umore che questa fabbrica” – cioè la Terra tutta – “mi sembra un promontorio sterile e questo splendido firmamento sospeso,” – ossia il cielo intero – “a me sembra nient'altro che un'immonda congregazione di vapori”. Questo castello è una prigione, Elsinore è una prigione, la Danimarca è una prigione.

L'Ivanov di Čechov “al levare del sipario è seduto a un tavolo e legge un libro” avendo accanto una pistola. Carica. “Sto leggendo...” dice a Borkin quando Borkin lo disturba, “sto leggendo…” gli ripete, “va bene, dopo…” gli dice ancora quando Borkin gli parla di cose concrete – gli operai, le paghe, le scadenze – “Che razza di modo disgustoso avete di venirmi a seccare proprio quando sto leggendo, scrivendo o...” mugugna infine. Qualcosa lo affligge. Ivanov ha smesso di lavorare, non conduce più gli affari, non si inebria, non si entusiasma né s'indigna più; non danza, non scrive versi, non fa più l'amore con la moglie celandosi nel buio dello studio, neanche i fuochi d'artificio gli interessano ormai; disegna, qualche volta, e legge: tanto, troppo. Di Ivanov gli altri dicono sia malinconico, silenzioso, psicopatico, una lagna; dicono sia ormai un fallito, meschino e abietto, che sia un imbroglione, un depresso, che sia un mentitore e un disgraziato, che sia un pazzo: “Ivanov, Ivanov, Ivanov, non si parla d'altro”; di sé invece afferma: “Sono stato giovane, ardente, sincero, non stupido; ho amato, odiato e creduto non come gli altri, ho lavorato e sperato per dieci, ho lottato contro i mulini a vento, ho battuto la testa contro il muro; senza misurare le mie forze, senza conoscere la vita, mi sono caricato sulle spalle un peso che mi ha immediatamente spezzato la schiena e strappato le vene”. Ora questa casa “mi è diventata insopportabile”, questa città mi è insopportabile, la Russia intera, la Terra intera e questo cielo mi sono insopportabili.


Così sembra
A un primo sguardo paiono due ritratti sovrapponibili.
Esempio: Amleto ordina a Ofelia il convento, unico modo per evitare che sia una “procreatrice di peccatori”? Ebbene: “Grazie a voi nasceranno piagnoni e psicopatici” dice Ivanov a Saša, essendo fuori luogo e fuori tempo ordinarle il convento e – d'altronde – Ivanov non si presenta il giorno del matrimonio, “come un matto”, e tormenta Saša contravvenendo ad ogni regola così come Amleto, contravvenendo ad ogni regola, si presenta nella camera di Ofelia “con il giubbetto tutto stracciato, senza cappello in testa, le calze imbrattate e giù alle caviglie come ceppi, pallido come la sua camicia, le ginocchia scosse l'una dall'altra” soltanto per afferrarle il polso, squadrarle il volto, emettere un sospiro e poi andare via?
Ancora: Ivanov dice al dottor L'vov “in ciascuno di noi ci sono troppe ruote, viti e valvole perché si possa giudicare in base alla prima impressione o a due o tre segni esteriori” mentre Amleto – la filosofia, che cura il pensiero, al posto della medicina, che cura il corpo; l'umanesimo in luogo delle scienze applicate – dice ad Orazio che “ci sono più cose in cielo e in terra che non sogni la tua filosofia”.
Ad entrambi tutti consigliano cosa fare, in che modo vestirsi, dove andare, quali siano gli atteggiamenti da assumere verso il Potere (la corona di Claudio, i denari della Lebedeva) e che scelte compiere, quali soluzioni adottare; ad entrambi si chiede di mettere pace nella propria mente e di osservare le cose per quelle che appaiono; ad entrambi viene imputato di parlare senza farsi comprendere: “Pronuncia frasi che hanno poco senso” si dice del principe; “spiegati in modo che io capisca!” chiede Lebedev a Ivanov.
Sì, ad un primo sguardo paiono due ritratti sovrapponibili ed è vero a tal punto che è lo stesso Ivanov a riconoscersi in Amleto: “Mi sono trasformato in un Amleto” ; “Avete trovato in me un secondo Amleto”; “Io ho fatto la parte di Amleto”; la parola “Amleto” torna al plurale (atto secondo, scena settima) mentre viene citata Ofelia nell'atto primo, scena terza.


Ma Io non conosco sembra”
“Io non conosco sembra” dice Amleto alla regina, il mio “non è solo un mantello d'inchiostro, né rituali vesti di nero solenne” né recito “le forme, i modi, le fogge del dolore” poiché il mio dolore è autentico e dentro ho un tormento “che supera ogni scena”. Amleto è pieno, gravido, colmo: colmo di rabbia, colmo di coscienza di sé e degli altri, colmo anche d'azione. Amleto agisce: sale sulla torre, incontra il fantasma, elabora la sua strategia e mima la pazzia, svia gli amici, ingaggia gli attori, cui fa da drammaturgo e regista ed allestisce una recita, si batte contro i nemici ed infilza Polonio, sa attendere la morte di Claudio decidendo di non ucciderlo quando lo scova in preghiera, commemora Yorick e si scontra con Laerte ed è soltanto dopo – soltanto al termine, soltanto in punto di morte – che si consegna all'inazione e al silenzio. “Essere o non essere, questo è il problema” si chiede Amleto ad un punto: ebbene, egli sceglie di essere, fino alla fine, e sceglie di essere dandosi da fare a suo modo, investendo tutte le forze che gli restano, tutta l'intelligenza e l'astuzia che possiede, tutta la bravura (anche recitativa) di cui è capace. E Ivanov? Langue; sta seduto su una panca, poi al tavolo, poi di nuovo su una panca; passa dal giardino al salotto di casa, dal salotto di casa al divano dei Lebedev ma né qui né lì né altrove trova la pace, l'energia, un momento di ristoro o uno scatto che gli faccia decidere di cambiare davvero o di nuovo: “Qui provo un senso di angoscia, vado dai Lebedev e là è ancora peggio; ritorno qui e di nuovo l'angoscia” confessa ad Anna Petrovna; “adesso non faccio niente, non penso a niente, e sono stanco nel corpo e nell'anima” racconta a Saša; mi sento come il mio contadino, che si è spezzato la schiena, conferma a Lebedev prima di chiedere e chiedersi: “Perché tutta questa stanchezza?”. “Scappiamo in America” gli dice Saša; “Sono troppo pigro per arrivare a quella soglia e voi mi parlate di America...” le risponde Ivanov.
Qui sta la differenza, qui sta la distanza, qui sta il dato per il quale Ivanov non è né può essere un Amleto: egli è vuoto; nel petto il cuore gli è prosciugato – altro che il “tu-tu-tu-tu-tu” che si sente nel torace di Borkin – e se i muscoli all'esterno appaiono ancora vigorosi in realtà non sono che radici secche, nervi debilitati, piante rimaste senz'acqua. Tanto è ancora in vita Amleto quanto è già morto Ivanov – “sono un morto” dice a Saša che invece è “viva” – e non è un caso, cerco evidentemente conferme, che l'uno parli al presente (il tempo dell'azione) mentre l'altro parli al passato (il tempo della contemplazione): “Non è ancora passato un anno da quando ero giovane e forte, ardito, instancabile, pieno di energie, lavoravo con queste stesse mani, parlavo in modo tale da commuovere fino alle lacrime gli ignoranti, sapevo piangere quando vedevo il dolore, mi indignavo quando incontravo il male. Sapevo cosa fosse l'ispirazione, conoscevo l'incanto e la poesia delle notti silenziose, quando da un'alba all'altra te ne stai al tavolo da lavoro oppure rallegri la tua mente con i sogni. Avevo fede, guardavo al futuro come negli occhi di mia madre...”.
“Mi dispiace che non lo abbiate conosciuto due o tre anni fa...” dice Anna Petrovna a L'vov; “Un tempo avresti...” dice Lebedev a Ivanov.


Uno per tutti; uno tra tutti
In non poche recensioni per l'Ivanov di Filippi Dini il metro di misura utilizzato è stato l'Amleto: lo suggerisce il testo cechoviano e, per suggestione scenica, il modo in cui Ivanov/Filippo Dini recita il monologo dell'atto sesto, scena terza – “Sono un uomo cattivo, miserabile e meschino” – o, per esempio, il viso ridotto alle ossa di Sara Bertelà/Anna Petrovna al momento della morte: il trucco bianco sulla pelle e il contorno nero agli occhi danno al volto l'apparenza del teschio di Yorick. S'aggiungano il gioco con la platea, in cui le luci rimangono accese finché sul palco non cala la sera; la scelta di Valeria Angelozzi come Saša – carnagione bianca, capelli rossi: sembra portata via dalla tela dell'Ophelia di Millais – e l'uso del doubling shakespeariano nel passaggio dal primo al secondo atto, dalla casa di Ivanov a quella dei Lebedev: i doppi ruoli, la trasformazione scenografica a vista, la studiata sovrapposizione dei personaggi per cui Ivan Zerbinati è il dottor L'vov e il cameriere Gavrila (ovvero le due figure estranee alle rispettive famiglie) mentre Sara Bertelà, diventata la vecchia Avdot'ja Nazarovna, si trova a fare la commedia con la tragedia della morte di Anna Petrovna: compie il gesto delle corna, stringe un ferro di cavallo, scuote la testa, pone sull'orecchio una mano per non sentire poi si addormenta così anticipando la fine che le spetta: “Morire, dormire...” verrebbe da scrivere.
Tuttavia usare come parametro il principe danese per Ivanov mi sembra una forzatura e non permette di comprendere fino in fondo i veri meriti dello spettacolo e, d'altronde, basterebbe riflettere sulla relazione tra i due personaggi protagonisti e la struttura dei drammi cui appartengono per rendersene conto: Amleto domina interamente la drammaturgia dell'Amleto – “è più grande dell'opera che lo contiene” per dirla con Harold Bloom – mentre Ivanov è l'uomo posto tra gli uomini; Amleto tiene per sé un terzo delle battute dell'Amleto mentre Ivanov – nell'Ivanov – non parla molto di più di quanto parlino il conte, Lebedev o il medico. Portatori di una presa di coscienza (Amleto smaschera un delitto e comprende il marcio che c'è in famiglia e nel regno; Ivanov smaschera l'inutilità di ogni situazione in cui si trova, compresa la storia d'amore e il nuovo matrimonio con Saša) rivolgono tuttavia gli effetti di questa presa di coscienza in direzioni opposte: all'esterno il principe danese – la vendetta in forma di scontro con ciò che lo circonda –; all'interno il russo, sparandosi al petto.
Se dunque l'Amleto è un'opera verticale nella concezione e teatralmente gerarchica, Ivanov invece mi pare un'opera orizzontale, ugualmente rispettosa di ogni singola figura: ad un tempo fondamentale ma mai sufficiente se assunta per sé.


Una regia di dettagli
Il conte Šabel'skij di Nicola Pannelli porta con sé un bastone: non è previsto da Čechov. Questo Šabel'skij rivolge il bastone verso le persone cui sta parlando o che, presenti, sono oggetto dei suoi discorsi; col bastone smuove terra e sassolini immaginari dal palcoscenico, indossa il bastone come fosse una sciarpa quando – in preda alla vodka – se ne sta nello studio di Ivanov. Non solo: in certi momenti della discussione fa ruotare il bastone su se stesso, disegna o scrive sul pavimento e quando parla di Borkin, rimasto dietro la porta di destra della scenografia, col bastone indica proprio la porta.
Il Borkin di Fulvio Pepe muove di continuo brocca e bicchiere sul tavolo mentre spiega a Ivanov il suo piano (terre, mulini, dighe) per moltiplicare duemilatrecento rubli in ventimila; si adagia al tavolo, poi siede sulla panca, infine torna nei pressi del tavolo e – sedutosi – vi mette i piedi sopra; a casa dei Lebedev entra con uno scatto, s'inchina a Saša mostrandole i fuochi d'artificio e poi sale coi piedi sul divano, si ripete mantenendosi in equilibrio sulla spalliera dello stesso divano rispetto al quale, pochi minuti dopo, compirà una capriola: “Questo è per voi” dice alla bella Babakina: la stessa tra le cui gambe s'infila quando si tratta di chiederle un prestito, la stessa cui massaggia i piedi, la stessa cui – per scherzo – alza la gonna.
L'Anna Petrovna di Sara Bertelà s'adagia contro il muro, quasi fosse subito stanca; si carezza l'esterno di una caviglia quando è seduta e poi le braccia, così dimostrando che ha freddo; ha freddo a tal punto che indossa la sciarpa del medico L'vov come fosse uno scialle prima che questi gli presti la giacca perché si copra. Ad Ivanov carezza il braccio destro, poi lo abbraccia tenendogli la mano dietro la spalla sinistra per lasciarla scivolare al collo così da cingerlo di più e – ultimo disperato tentativo di trattenerlo – lo cinge al fianco, accenna quasi a spogliarlo della camicia all'altezza della cintura mentre poggia la gamba destra sulla gamba destra del marito, ricordandogli – e dunque alludendo – le volte in cui andavano ad amarsi nello studio, al buio; Čechov qui invece si limita a una sola indicazione didascalica: Anna Petrovna “ride e piange”. Il fazzoletto con cui il dottore si asciuga le labbra, prima di parlare calcando le parole più importanti (essendo egli portatore costante di giudizio): “tisi”, “vostro comportamento”, “egoismo”, “indifferenza”, “mi siete profondamente antipatico”; il cuscino che Saša stringe quando si trova da sola a parlare con Ivanov; la vodka bevuta di nascosto dalla Babakina; il cappotto e la sciarpa del dottore che restano adagiati sulla panchina indicando la sua presenza ideale mentre Ivanov e Anna Petrovna sono faccia a faccia, nel primo atto; quella mano, queste lacrime; quel silenzio, questa immagine.
È innanzitutto qui la regia di Filippo Dini – a mio parere – ed è una regia non da intendersi come un'idea dell'opera che cala come una cappa dall'alto e che impone dinamiche forzate e conseguenziali ad ogni suo interprete ma sembra invece tradursi nella capacità di far nascere da ogni interprete la vita – letteralmente la vita, credibile nella sua forma apparente – perché il personaggio che ogni interprete recita ne sia contraddistinto dal primo all'ultimo istante dello spettacolo. I dettagli, dunque, ovvero ciò che fanno la differenza, che danno carattere e identità, che separano quel che somiglia o che ricorda vagamente da quel che sembra fino a tal punto da esistere.
Prendiamo l'Ivanov di Filippo Dini: se ne sta seduto a leggere il libro fin da quando accediamo alla platea, così dicendoci implicitamente che sta leggendo da ore, da giorni, da settimane, da mesi, da un anno; passa il libro dal tavolo alle gambe, dalla gamba sinistra alla destra poi alla sinistra di nuovo, sfogliandolo lentamente (ecco già tutta l'inedia, l'indifferenza, il pantano) e – nel frattempo – da laterale acquista una posizione frontale così da permettere a Burkin di coglierlo di sorpresa alle spalle; lunga la pausa che separa l'ingresso e la prima azione dalla prima battuta (Burkin prende la pistola, la punta al capo di Ivanov, finge di prepararsi a sparare: Ivanov è già un cadavere, fin da questo momento) Filippo Dini intanto alza lo sguardo al cielo – una, due, tre volte – in maniera interrogativa o dubbiosa: “Devo dunque morire?” sembra chiedere con questo gesto compiuto avendo una canna alla nuca. Ancora un esempio: nel dialogo del terzo atto, scena sesta, Ivanov e il dottor L'vov sono allo conflitto verbale e Čechov sottolinea lo stato d'appassimento di Ivanov con due brevi didascalie: egli è “seccato” e dunque “beve acqua”. Sembrano un'indicazione umorale e d'azione ma è qualcosa di più: “seccato” e “beve acqua” indicano la condizione di chi è giunto allo stremo, di chi non riesce ormai più, di chi si trascina, diretto com'è verso la fine. Ebbene: l'Ivanov di Filippo Dini non va allo scontro col dottore né beve acqua ma spinge il divano contro la parete così da crearsi un tumulo, un giaciglio, una tomba dalla quale urlare – come già fosse sottoterra – “Ma che cosa devo fare? Che cosa?”. È un atto oblomoviano (il romanzo di Gonçarov è del 1859); è soprattutto un atto contro-Amletico: Ivanov non combatte, non duella, non infilza, non affronta ma si rintana nel non essere, si nasconde nell'oblio, desidera l'inesistenza.
In questo modo Ivanov diventa ciò che dev'essere: non un assolo straordinario svolto in controtempo e contrasto ad un concerto omicida e volgare (l'Amleto) ma una partitura collettiva in cui ogni strumento vibra il suo suono in accordo con gli altri strumenti, ascoltando gli altri strumenti, dialogando con gli altri strumenti senza mai far venire meno la sua unicità. E sono i dettagli (ossia le note ed i fiati attorali di questa recita) a dirci della quantità e della qualità (entrambe notevoli) del lavoro che è stato compiuto.


Dalla scena ai colori
La coperta marrone e i due cuscini bianchi sul divano di Ivanov: è lì che se ne sta disteso, evidentemente, sprofondando nell'inedia e l'accidia. Le scarpe da sposa che Saša non indossa, standosene in poltrona: quasi già sapesse che – quelle scarpe – non la condurranno ad alcun altare; lo sfoggio oltremisura di fiori finti in casa dei Lebedev, che ne dichiara l'avarizia (i fiori finti non vanno sostituiti) l'ipocrisia, la mancanza di eleganza e la pochezza materiale.
La cura dei dettagli non appartiene solo alla recitazione degli interpreti dunque: non c'è aspetto che non partecipi della riuscita complessiva dello spettacolo. Così – solo per fare un esempio – un albero secco (secco quant'è “seccato” Ivanov) è nella parte posteriore del palco, contrapponendosi al fogliame verde e finto che s'intravede dall'ingresso di casa Lebedev: qui la morte, lì ancora una sembianza plastificata di vita.
Ancora.
Lo specchio adagiato e non fissato a parete nello studio di Ivanov, gli oggetti incrostati, il piatto scheggiato da Saša – “fai a pezzi qualcosa” – che nel testo di Čechov non accade e che serve alla ragazza per dimostrare che agire sarebbe ancora possibile. Questa attenzione ai particolari è tale che mi sembra riguardi anche il cromatismo degli abiti: non parlo della caratterizzazione ultravariopinta della Babakina (la gonna a fiori, le calze rosa, i guanti e il braccialetto rosso, il mantello dorato, gli occhiali da sole lilla sulla testa), buona per definirne la volgarità di fattura adolescenziale; mi riferisco invece ai colori degli abiti di Saša/Veleria Angelozzi e Anna Petrovna/Sara Bertelà: il bianco e il rosso, talora qualche dettaglio nero e ancora nero e bianco con dettagli rossi, bianco e rosso di nuovo. Ossia: il bianco (l'innocenza), il nero (il lutto, la morte), il rosso (la passione ma anche il sangue e dunque la tisi).
Di che colore è la cravatta che Saša mette a Ivanov sulle palpebre giocando con lui a moscacieca? Rossa, ovvero richiama l'amore che lei prova e di cui Ivanov dovrebbe accorgersi ma anche la malattia della moglie, che è l'orizzonte che costantemente l'uomo ha dinnanzi agli occhi. Com'è vestita Saša alla festa? Gonna rossa e camicia bianca. E quando penetra furtiva nello studio di Ivanov? Pantaloni bianco/neri, giacca nera su camicia bianca e mantellina rossa. Ed Anna Petrovna? Di bianco; di bianco ma con un nastrino rosso al collo; di bianco ma con fiori rossi in mano; di bianco ma immersa in una luce rossa. Stesso discorso vale per il marrone della coperta (il colore della terra) o il verde (l'erba, che la terra la ricopre; ed è verde il golfino che cinge e dunque seppellisce Anna Petrovna ormai defunta); stesso discorso vale per la cravatta del dottor L'vov, che passa da marrone a nera, essendo sempre più prossimo il lutto.
Infine.
C'è un particolare – al tempo stesso cromatico e scenografico – in grado di dirci ancora qualcosa della regia di Filippo Dini e di quest'Ivanov ed è il candelabro da pavimento che troviamo all'inizio dello spettacolo sulla sinistra: ha undici braccia per le candele ma i moccoli effettivamente presenti sono dieci. Una candela è già consunta (Ivanov) e presto lo saranno tutte le altre. Torna qui il dualismo dei colori (il candelabro è nero, le candele bianche) ma questo particolare svela l'altra fondamentale caratteristica dell'Ivanov: si tratta di un'opera sul contagio, si tratta di un dramma che ha per argomento una malattia che si diffonde progressivamente e che passa dal suo portatore insano (Ivanov) a tutti coloro che vengono a contatto con lui. Anche per questo Ivanov non è un Amleto, che contrasta la peste dell'immoralità fino a perirne: egli rappresenta invece la peste stessa che – per dirla con Ripellino – “si spande all'intorno con folate di freddezza e di nausea spegnendo la vita di Anna Petrovna” – è a causa sua che infatti la donna si ammala – “e per poco non spezza anche quella di Saša, la ragazza che lo ama”. E infatti Ivanov dice a Saša: “Da quando sei la mia fidanzata hai disimparato a ridere e sei invecchiata di cinque anni. Tuo padre, per cui tutto era chiaro nella vita, grazie a me ha smesso di capire gli uomini. Dovunque io vada porto la noia, la tristezza, l'insoddisfazione”. E ancora: “Mi lagno della mia sorte, mi dolgo e tutti, ascoltandomi, si contagiano di questa repulsione per la vita e cominciano a loro volta a calunniarla”. E infatti Lebedev, quasi avesse ascoltato, nella scena seguente accusa Ivanov: “Hai portato tanta nebbia nella nostra vita, che io vivo ormai in un museo degli orrori: guardo e non capisco niente… Un vero castigo”.
Tant'è: in Ivanov, a conti fatti, non c'è alcun sentimento o predisposizione etica che si salvi (amore, amicizia, vincolo familiare, credo religioso, correttezza contrattuale e lavorativa, impegno artistico); si mente e questo avviene di continuo (ecco il senso ulteriore della ripetitivà cechoviana, su cui Dini insiste: la reiterazione di una frase; il numero del cappello, compiuto due volte dal conte; una domanda effettuata quattro volte); insomma non esiste più verità sulla quale si possa giurare: Saša è davvero innamorata o è votata al sacrificio umanitario? Borkin è un genio o un lestofante? Anna Petrovna sapeva suonare il violino o aveva "meno orecchio di un luccio ripieno e un tocco da inorridire"? In Ivanov non ci sono più valori, non ci sono più certezze, non c'è fede possibile nell'uomo, a partire proprio dal protagonista: il suo è stato un matrimonio di interesse? L'amore per la Petrovna è sciupato con lo sciuparsi delle sostanze economiche? Dei fallimenti finanziari è il responsabile o una vittima? Davvero ha contagiato il bestiame e intascato l'assicurazione?
Così il collasso di un uomo conduce al collasso di una società ed è questo che dà il senso all'ultima scena dello spettacolo.


Siamo tutti destinati all'oblio
Ivanov giace a terra, riverso: si è appena sparato al torace. La musica incede alta, avendo avuto il compito di ovattare progressivamente le ultime frasi che Saša sta rivolgendo al dottor L'vov: è il modo con cui Dini fa convivere la vita che persevera con la decisione definitiva del suo personaggio di darsi la morte (segnata da distonie sonore che rimandano a un cortocircuito mentale). Non sento più nulla, nulla è più interessante per me, quello che mi avviene accanto non conta, non mi e non vi sopporto più, non c'è più rimedio, non c'è più rimando; muoio mentre voi continuate a sopravvivervi ancora. Tutto avviene in slow motion: la formazione del coro di personaggi (a destra), in contrapposizione alla solitudine di Ivanov (a sinistra); lo sfaldamento progressivo di questo coro; l'assunzione – da parte di ogni sopravvissuto – di una posizione nello spazio e di un gesto che lo identifichi e lo metta in relazione con quanto è accaduto. Lo strazio di Saša, ad esempio, la cui smorfia di disperazione sembra condurla al manicomio o la risata ebete e soddisfatta – questa sì già pazza – del conte Šabel'skij; l'atto di contemplazione di Lebedev (anch'egli tentato dal suicidio, ma incapace di attuarlo: guarda dunque il proprio cadavere nel cadavere dell'altro) e la disperazione di L'vov: l'uomo giusto fino all'ingiustizia e, dunque, adesso irrimediabilmente colpevole.
Se nell'Amleto un nuovo Re sale la scalinata che porta al trono, rinnovando il Grande Meccanismo shakespeariano che sostituisce un sovrano con un nuovo sovrano (perpetuando il sistema di valori corrente) invece accade l'opposto nel teatro di Čechov: comincia anche in esso a calare la grande notte nichilista, di cui pochi anni prima (I demoni è del 1871; Il sogno di un uomo ridicolo è del 1877; I fratelli Karamazov del 1879 mentre Ivanov del 1887) è stato romanziere Dostoevskij. Ed è una notte – questa – destinata a inghiottire il Novecento e che sembra allungare l'ombra sua deforme, ancora oggi, ai nostri piedi.

 

 

Ivanov
di Anton Čechov
traduzione Danilo Macrì
regia Filippo Dini
con Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Antonio Zavatteri, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe
musiche Arturo Annechino
assistente alle musiche Luca Annessi
scene e costumi Laura Benzi
luci Pasquale Mari
assistente alla regia Carlo Orlando
foto di scena Michele Lamanna
produzione Teatro Due di Parma, Teatro Stabile di Genova
lingua italiano
durata 3h
Napoli, Teatro Bellini, 14 dicembre 2016
in scena dal 13 al 18 dicembre 2016

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