“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 23 April 2015 00:00

Non voglio crescere mai

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“Mi inginocchio e ti prendo, anima sola,
non è preghiera, è peccato di gola”.

(Sandro Penna)

 

Cantiere aperto su un’età adulta in costruzione, cantiere conchiuso attorno ad un’infanzia in dissoluzione e in retrospezione; Adulto, ovvero la fattura artigiana, dalle mani sporche e dalle membra segnate che presiede alla costruzione ed alla crescita; Adulto, ovvero un racconto cruento e terroso di un modo di diventare “grandi” liminare e suburbano, affidato ad uno spazio scenico fortemente simbolico ed evocativo e ad un corpo d’attore – quello di Dario Muratore (mai come nella fattispecie nomen omen!) – che consuma in ribalta un olocausto fisico in cui ogni membra del suo corpo, ogni modulazione della sua voce, s’intridono della sostanza verbale e vissuta che prende forma compiuta di spettacolo teatrale.

Ed è spettacolo, questo Adulto firmato da Giuseppe Isgrò che, dichiaratamente, sin dal suo incipit sfonda la quarta parete, instaurando un rapporto diretto – dapprima implicito – con chi vi assiste: dal primo sguardo piantato nella platea all’atto di entrare in scena, al momento in cui, indossate scarpe da uomo che rappresenteranno un primo passaggio, un “ingresso” attraverso una delle svariate porte di confine che si attraversano nel corso di una vita, Dario Muratore si rivolge direttamente al pubblico reclamandone mansueta acquiescenza (“A questo punto, mio spettatore, ti pregherei di lasciarti trasportare senza opporre resistenza”), quasi a voler instaurare un rapporto speculare che consenta a chi guarda di riconoscere da presso un prossimo vicino e contiguo e non distante come sogliono essere distanti le creature delle storie raccontate. Abbattuto il diaframma ideale che separa scena e platea, la contiguità continuerà spargendo granelli di terreno all’intorno che andranno ad infastidire le prime file, paralleli al fastidio e al disappunto che certe storie nude e crude, esplicitate con la dovizia dei particolari dell’impudico e dello scabroso, sembrano trascolorarsi su qualche volto degli astanti, serpeggiando insolenti.
Eppure, la complessione “eversiva” di questi racconti sembra sfuggirci (sarà che la soglia dello ‘scandalo’ si attesta ormai per noi in specole recondite), così restiamo sì ammirati dalla bravura d’attore di Dario Muratore, il cui sacrificio scenico è totale, tendendo ogni muscolo del proprio corpo, esplorando le possibilità sonore delle proprie corde vocali; restiamo altresì tiepidi dinanzi alla sostanza drammaturgica che, in parte appesantita da certa partitura libresca che si offre al tono declamatorio, risulta sostanzialmente incapace di tradursi in sommovimenti di meraviglia, pur se convogliata in un’ottima interpretazione, pur se incorniciata in una eccellente orchestrazione scenica.
Ed è infatti l’allestimento scenico, col suo portato simbolico ed allusivo, l’aspetto che assieme all’interpretazione più ci pare funzionare, ad onta di una partitura drammaturgica ridondante, peraltro incentrata su temi narrativi (omosessualità e identità di genere) che conoscono ampia inflazione.
L’infelicità di un’innocenza perduta, la malaccettazione da parte di colei a cui maggiormente apparterrebbe l’istinto d’accettare (una madre), il tempo violato di chi si ritrova fanciullo senza fanciullezza sono gli aspetti che si dipingono in scena, sullo sfondo truce di quello che può sembrare un prato di periferia, un luogo dove i giochi dei ragazzi cedono prima o poi il passo ai trattenimenti degli adulti, vissuti senza mai veramente varcare la porta di confine.
Lo spazio scenico è un telo quadrangolare, sul quale sono poggiati i simboli dell’infanzia (un piccolo cavallo a rotelle, una paletta ed un rastrello confitti nei mucchietti ghiaiosi), è verde, come un prato; sul limitare un piccolo pianoforte giocattolo: pestato con un piede, il suo suono sarà segno d’ingresso di un bambino nella bruttura della vita. La memoria di una involuzione prende forma e vede un uomo flettersi e contorcersi nelle mille sfumature possibili di una fellatio; c’è un’infanzia violenta e truculenta, il cui passaggio all’età adulta non si realizza appieno: Dario Muratore indossa gli abiti riposti su una sedia, una camicia e una giacca sono foggia adulta smentita dai calzoni corti che ne completano la mise. Due paia di scarpe (da uomo e da donna), calzate in due diversi momenti, segneranno altrettanti passaggi significativi del percorso verso l’affermazione definitiva di una propria identità di genere.
Inoltre, Dario Muratore gestisce le luci che delimitano la scena, neon bianchi cui s’accompagnano file di led verdi e rossi, a scandire rispettivamente i momenti dell’infanzia e della lussuria, per poi comporsi in una linearità tricolore, che sembra alludere al contesto nostrale, con tutto il suo armamentario moralistico e retrivo.
La gestualità esplicita, l’enfasi fremente con cui l’attore interpreta l’ininterrotta sequenza di rapporti orogenitali, evocandone spasmi, dettagli ed umori pare funzionale a rendere vivida un’evidenza altrimenti rifiutata, a consumare un istinto rancoroso e vendicativo che sembra pervaderlo dinanzi ad uno specchio così come davanti ad un pubblico cui si prova ad offrire lo scempio e lo scandalo; scempio e scandalo di un’anima di figlio che non si riconosce in un corpo di uomo ma s’incarna pervicace in una volontà fanciulla; siamo di fronte ad un Edipo torturato dalla dittatura della bellezza, tormentato da una castrazione matrigna (perché “la favola mammarola è stantia”), che non ne accoglie la difformità. Siamo dinanzi ad un corpo che traduce l’impossibilità di un’anima; siamo dinanzi ad un regresso che nega la propria possibilità di progresso, lasciando in epitome, lapidaria, la propia ultima dichiarazione d’intenti: “Adulto mai!”.

 

 

 

 

Adulto
ispirato dai testi finali di Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Dario Bellezza
di Giuseppe Isgrò
con Dario Muratore
dramaturg Francesca Marianna Consonni
produzione Compagnia Phoebe Zeitgeist
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Start Teatro – Interno5, 18 aprile 2015
in scena 17 e 18 aprile 2015

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