“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 17 March 2015 00:00

Il Pinter di Peter Stein

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Il ritorno a casa è quello di Teddy, che fa visita alla sua famiglia (il padre Max, lo zio Sam, i fratelli più giovani: Lenny e Joey). Teddy arriva accompagnato dalla moglie Ruth, oggetto di sospetto prima e di desiderio poi. Ruth cede, non controvoglia, alle attenzioni dei suoi nuovi parenti e – al momento del ritorno negli Stati Uniti – decide di rimanere a Londra, fungendo da madre-amante di famiglia ed esercitando (forse) la professione di prostituta.
Assolto il dovere di rendere la trama, passiamo all’analisi.


“Io penso ogni volta di rifare la prima mondiale di un testo. Questo è il mio stile, il mio modo di lavorare da sempre”. E ancora: “Io non voglio fare una messa in scena, ma capire quel testo in profondità”. Come se Il ritorno a casa di Harold Pinter non avesse cinquant’anni e non fosse stato interpretato già centinaia di volte; come se non ve ne fossero già ottime versioni da palco o un’edizione cinematografica; come se lo stesso Peter Stein non avesse assistito – nel 1965, all’Aldwich di Londra – alla (vera) prima mondiale di quest’opera. Provare a rendere Pinter come se Pinter non fosse mai apparso prima; provare a teatralizzare Il ritorno a casa come se Il ritorno a casa trovasse ora soltanto il modo di apparire in assito, partendo dalla drammaturgia: “Pur conoscendo il testo mi sono applicato alla sua analisi, che pure non era sufficiente, finché non ho cominciato l’analisi sul palcoscenico con gli attori. E qui il lavoro si è fatto più interessante” perché “tutti gli aspetti formali, o i riferimenti da un episodio all’altro della struttura complessiva, si scoprono solo in palcoscenico”, luogo nel quale “escono fuori le analisi, le invenzioni e le interpretazioni razionali del testo, ma parallelamente alla distorsione arrecata dall’emozione che quegli stessi elementi suscitano”. “Devo dire” – infine – “che forse mai mi era capitato di lavorare tanto su ogni dettaglio, perché ogni frase, ogni movimento, ogni gesto è frutto di un’elaborazione dell’attore, su cui sono intervenuto” per “inserirlo nel tessuto totale della messinscena”.
Sappiamo quali sono le caratteristiche della teatralità pinteriana: i personaggi dalla biografia parziale, oscura e non detta; gli spazi claustrofobici, nei quali si convive osteggiandosi; l’iperealismo quotidiano di linguaggio ed ambiente, che diventano presto simbolici; l’opacità dei comportamenti individuali, l’assenza di motivi palesi, certa nebulosità di maniera che determina dialoghi privi di continuità, contraddistinti da frasi interrotte, sospensioni, conversazioni prive di linearità logica. Stein cerca di rendere tutto ciò dandogli forma tangibile, offrendo a chi assiste la nettezza del pinteresque e così lavora sulla visualizzazione ulteriore dello spazio, sull’assenza (momentanea) di quarta parete, sulla caratterizzazione delle singole figure e sull’intreccio verbale, formato da frasi laconiche, degradazioni offensive e – soprattutto – da pause quasi cechoviane. Ne viene una regia di cui è impossibile rendere l’operosa complessità e – della quale – occorre limitarsi a sottolineare scampoli, specificità, alcuni elementi.
Punto di partenza: lo spazio.

“Cosa ne hai fatto delle forbici?”.
Nasce da qui, Il ritorno a casa. Pinter, all’improvviso e mentre è immerso in tutt’altri pensieri, sente tra le tempie questa frase; comincia a riflettere, inizia a inventare. Nel buio della sua mente, diventata già un palcoscenico, “doveva esserci per forza qualcuno che cercava un paio di forbici e che chiedeva, a chi sembrava averle sottratte, dove erano finite”. Ancora. Pinter intuisce “anche che, alla persona a cui veniva la rivolta la domanda, non gliene fregava niente né delle forbici né di chi le stava cercando”. Pinter non sa ancora che chi cerca le forbici è il padre e chi risponde è il figlio, non ne ha certezza ma solo un sospetto e tuttavia – a un punto – sente dire da uno dei due: “Papà, ti dispiace se cambio argomento?”.
L’opera sorge così ed è così che sorge anche lo spettacolo: Lenny è disteso sul divano e legge il giornale mentre Max, provenendo da destra (lì dove oltre quinta si presuppone vi sia la cucina), traversa lo spazio e giunge alla credenza posta sulla sinistra, apre il primo cassetto, ci fruga dentro, poi lo richiude, guarda Lenny, respira, attende, poi dice: “Cosa ne hai fatto delle forbici?”.
Il punto di partenza per comprendere il lavoro di Stein è il rispetto assoluto del dettato, che viene riproposto nella sua interezza e di cui si rendono anche i momenti di sospensione (i tre puntini cui è solito Pinter) o le interruzioni di parola (l’indicazione “pausa”). Stein, insomma, si pone al servizio del testo e – memore di certe ricerche effettuate a suo tempo in ambito inglese –  ricostruisce un interno britannico old style, anni ’60, del tutto coerente con la didascalia iniziale. Abbiamo quindi uno “stanzone che occupa tutto il palcoscenico”, abbiamo “un ingresso” e abbiamo “una scala, che sale, bene in mostra”. Inoltre ci sono: “un attaccapanni a muro, con ganci”, “tavoli e sedie vari”, “un grande divano”, una “grande credenza a muro” dotata di specchio. In fondo, “un radiogrammofono”. S’aggiungano, a completare l’arredo: un tavolino a tre piedi, una lampada con pianta al pavimento, qualche gingillo (un posacenere, una caraffa e un paio di bicchieri, qualche utensile). La conferma di ciò che è previsto permette a Stein, creando a sua volta, di completare la visualizzazione della scena. Due sono gli elementi registicamente dichiarativi: la poltrona, su cui Stein opera per ricollocazione ambientale, e la scala, il cui proseguimento strutturale porta alla realizzazione di un primo piano al di sopra dello stanzone.
La poltrona.
Pinter – quasi sbrigativamente – nella didascalia scrive”due grandi poltrone” mentre Stein riduce le grandi poltrone a una sola e la colloca esattamente al centro della stanza, facendone un simbolo, una metafora. La poltrona è un trono e il trono appartiene al padre di famiglia (Max), l’unico che può utilizzarla. Se la poltrona è un trono allora la casa è un regno, per quanto in decadenza; un regno i cui abitanti sono in constante contrasto tra loro, divisi e al tempo stesso uniti dalla continua propensione alla lite, all’offesa, all’inganno. Se la casa è un regno allora – uno dei temi de Il ritorno a casa – è la gestione del regno, tra conservazione del potere e usurpazione dello scettro. Chi altri siederà sulla poltrona, ne Il ritorno a casa di Peter Stein? Ruth, la moglie di Teddy che – accolta come lo spettro del femminile (la reincarnazione della madre ormai morta) e trattata come elemento disturbante e lussurioso (la puttana di tutti) – diventa progressivamente la padrona dell’ambiente, la dominatrice del branco, la nuova regina. Per questo la poltrona è un segno registico.
La scala.
L’altro segno è il primo piano che sorge in cima alla scala, distinto cromaticamente dallo stanzone in basso attraverso la cartaparati e che rappresenta lo spazio in cui i personaggi – di volta in volta – vengono o vanno dalle/verso le proprie stanze. Sopra, quindi, le figure si disperdono, trovando il loro isolamento domestico mentre in basso convivono, stando in pochi metri quadrati: come in una gabbia, come in una cella.
La scala, proseguendo materialmente davvero, serve quindi a Stein per esaltare l’oppressività spaziale del piano inferiore, rendendone la ristrettezza, l’occlusività, l’assenza di respiro. Una citazione dal testo, per comprendere quanto – alla base della cattiveria che anima tutte le relazioni de Il ritorno a casa – vi sia proprio questa condizione di convivenza forzata:
(Max e Sam, fratelli)
“Ehi Sam...”
“Cosa?”
“Cosa ti tengo a fare qui? Non sei altro che una zecca”.
“Io?”
“Sì, un verme”.
“Ah, sì?”
“Appena smetti di portare i soldi a casa, cioè quando sarai troppo vecchio per guadagnarti la pagnotta, sai cosa faccio? Ti sbatto fuori”.
L’insopportabilità della presenza altrui.

C’è un terzo aspetto scenografico che colpisce: la perimetratura della casa, ben più piccola dell’ampio palcoscenico del Metastasio di Prato che – occorre ricordarlo – è l’assito su e per il quale Il ritorno a casa di Peter Stein è nato. Osservando con attenzione ci si rende conto che vi è quasi un metro tra la fine dell’interno-casa e le quinte e ci si rende conto anche che i mobili (il divano da un lato, la credenza dall’altro) poggiano su pareti invisibili. Questo metro di vuoto viene usato per andare e venire dall'appartamento: serve, ad esempio, a Ruth per “fare due passi”. Tuttavia la ristrettezza spaziale è anche il modo in cui Stein rispetta la natura intimamente metateatrale della scrittura pinteriana. Lo sappiamo: in tutte le opere di questo autore c’è un sottofondo composto da accenni, allusioni, piccoli rimandi alla dimensione effettiva del fare teatro; c’è una capacità di rimarcare la pratica dell’Arte; c’è la messa in chiaro che siamo comunque su un palcoscenico e che ciò cui assistiamo – per quanto somigli alla vita vera – non è la vita vera ma una sua recita. Peter Stein restringendo gli orli dell’ambiente domestico ne esalta la sua fattura finta e – anche se idealmente la quarta parete è ancora in piedi (basta notare la cornice che incastona i due piani) – fa in modo che, questa stessa quarta parete, sia ridotta a brandelli, sia piena di fratture, colma di aperture. È così che gli interpreti possono indirizzare parte di una battuta al pubblico, per poi continuare a recitarla nello spazio della finzione; è così che vi sono momenti dello spettacolo in cui un personaggio sembra dichiarare i suoi pensieri agli astanti, non potendo dichiararli agli altri personaggi dell’opera.
Si tratta, per intenderci, della resa della “convenzione molto ambigua” che, per Pinter, è il teatro; una convenzione che consente – al tempo stesso – a una figura di appartenere interamente al luogo della finzione senza rinunciare a rivolgersi (con un cenno, uno sguardo, l’inizio di una frase) a coloro che sono in platea.

“Io sono da sempre definito il regista delle immagini finali, che riassumono e spiegano e fissano tutto il percorso drammaturgico” dice Stein di sé. Qual è l’immagine finale del suo Il ritorno a casa? Ruth è seduta sulla poltrona/trono, ai suoi piedi Max e Joey mentre, a mezzo palco, Lenny fa di calcolo sui possibili guadagni derivanti dall’induzione alla prostituzione della stessa Ruth. “Senti, ho come l’impressione che questa ci voglia fregare. Vuoi scommettere che ci userà, che si servirà di noi? Lo sento! Lo fiuto! Ci vuoi scommettere?” dice Max. Dev’essere questo “lo fiuto” ad aver animato l’intuizione di Stein giacché Max e Joey si muovono come due cani alle prese con la loro padrona, posando il muso sulle sue cosce ottenendone una carezza o scodinzolando per chiederle attenzione. Ruth intanto sorride, silente, mentre ostenta uno sguardo fisso, sicuro, con cui dichiara piena padronanza di sé, intenzioni stabilite, una strategia personale ben delineata.
Stein comprende pienamente la parabola di Ruth: “Lei che viene umiliata in maniera così grave,” – le parole del regista – “lei che a un certo punto sembra davvero costretta a prendere il ruolo in casa della madre, e poi a soddisfare tutti sessualmente come fosse una puttana, bene, lei si vendica in una maniera molto netta, costringendo tutti a mettersi ai suoi piedi”. Occorrerebbe un articolo intero per descrivere la Ruth di Arianna Scommegna: la maniera nella quale allarga le gambe o tace tenendo la schiena diritta, quella in cui scende le scale o passeggia all’esterno, in cui balla e bacia, carezza e rifiuta, beve, osserva e si lascia osservare. Dalla sua interpretazione estraggo due momenti che mi sembra delineino perfettamente l’evoluzione del personaggio: da vittima a carnefice, da dominata a dominatrice.
Il primo.
Teddy e Ruth sono appena giunti alla casa, in piena notte e mentre tutti dormono, si aggirano per lo stanzone: Teddy mostra, indica, racconta mentre Ruth – lentamente – passeggia. Capita che Ruth sfiori con la mano lo schienale della poltrona/trono e che accenni al gesto di sedervi: Teddy interviene dicendo “Quella è la poltrona di mio padre”; frase che spinge Ruth a non sedersi. Si tratta di una grande intuizione scenica di Peter Stein poiché – chiedendo a Ruth di sedersi e poi non facendola sedere – il regista svela il seguito della trama e la parabola del personaggio, destinato a conquistare quella stessa poltrona. Inoltre, così facendo, Stein dimostra d’aver capito che Il ritorno a casa di Pinter è anche una perfetta macchina drammaturgica in cui – ciò che avviene – è stato precedentemente annunciato. Ad esempio, Max dice a Sam: “Quando troverai la ragazza giusta non dimenticare di avvisarci, ti festeggeremo come si deve, è una promessa. Se vuoi, puoi portarla a vivere qui, magari potrebbe fare felici anche noi” ed è esattamente ciò che fa Teddy con Ruth; così quando Max si rivolge a Ruth – la prima volta che la vede – definendola “una puttana”, “una lurida troia”, “raccattata per strada” e che si fa scopare qui “in casa” non fa che anticipare il ruolo a cui Max e figli destinano la donna.
Il secondo.
Ruth si stringe a Joey, lasciandosi baciare fino a rotolare dal divano al pavimento mentre Teddy, il marito, frena la sua rabbia stringendo nel pugno destro un lembo del cappotto. Rialzatasi, i capelli spettinati che le coprono il volto, la donna muta improvvisamente tono di voce, mascolinizzandolo: comincia ad impartire ordini. Si tratta dell’istante preciso nel quale il personaggio di Ruth cambia natura, assumendo la funzione maschile di capo: possibile, fino ad allora, solo per gli uomini, è resa da Stein e dalla Sgomegna proprio attraverso l’uso del roco maschile della gola.

“Sono la mia famiglia. Non sono...” (pausa) “orchi”. La frase è detta da Teddy e la pausa che la contraddistingue serve a sottolineare l’importanza dell’ultima parola: “orchi”. Teddy sa benissimo che la sua famiglia è composta da esseri privi di scupoli, da lestofanti di mezza tacca, da profittatori viscidi, capaci anche di abusare di sua moglie: una consapevolezza che Peter Stein rende in palco chiedendo ad Andrea Nicolini di spezzare letteralmente la frase perché l'ultimo termine ne sia risaltato. È un esempio del lavoro che il regista compie sulla resa verbale dell’opera, un lavoro effettuato – dice Stein – cercando “le frasi morte” del testo giacché ogni personaggio “dice delle frasi che sembrano non avere sviluppo, e per ognuna bisogna inventare qualcosa”. Ognuna di queste dichiarazioni, insomma, “va analizzata e riempita di un sottotesto che le conferisca un senso” intuibile da chi assiste allo spettacolo. Soltanto per fornire un esempio ulteriore: dice Ruth, ad un punto, che l’America (in cui abita col marito) “è tutta rocce. E sabbia. Si estende... a perdita d’occhio. Ci sono un mucchio d’insetti laggiù”, pausa, poi ripete: “Ci sono un mucchio d’insetti laggiù”. Si tratta di un brandello confessionale, improvviso, che non sortisce conseguenze apparenti e – tuttavia – queste parole dicono di quanto Ruth detesti la vita matrimoniale e statunitense che conduce, quella stessa vita che – poco prima – Teddy ha descritto come meravigliosa, stimolante, perfetta.
Il ritorno a casa è pieno di questi squarci dichiarativi che, pur non dicendo, in realtà dicono davvero. Lenny e Joey raccontano delle loro prodezze sessuali, Max della conoscenza dei cavalli, Sam della sua bravura come autista mentre Teddy – quasi attezzosamente – rivendica i suoi successi universitari. Quanto, di tutto questo, è vero? Non lo sappiamo. Sappiamo invece che tutte queste figure sono insoddisfatte, incarognite, manchevoli; che hanno una parte marcia, che hanno sofferenze taciute che bilanciano accanendosi contro gli altri. In questo – oltre che nell’uso del silenzio – Pinter è davvero vicino a Čechov, come Stein rileva anche nelle note di regia: i personaggi inventano, favoleggiano, gonfiano i propri discorsi senza mai dire ciò che vorrebbero o dovrebbero dire. In tutto questo balterare poi ecco l’istante della verità, il momento della rivelazione: mai piena bensì sfuggente, che subito si perde nell’aria, senza avere alcun seguito.
Ne è accompagnamento opportuno la gestualità caratterizzante: la maniera in cui Max batte il bastone al pavimento, il modo in cui Lenny spia i movimenti altrui e la ritrosia mimica di Sam, le dita nel naso di Joey, la rigida postura di Tommy concorrono a svelare la natura d’ogni individuo, permettendo a chi osserva di comprendere più di quanto – sul piano letterale – il testo lasci intuire. Gli abusi, i tradimenti, lo sfruttamento; le menzogne, la mancanza di dignità, la disistima e il disprezzo; la debolezza, l’ignavia, i sentimenti d’odio e d’amore taciuti. Stein e i suoi interpreti hanno la capacità di dare corpo alle creature immaginate da Pinter: in tutta la loro indicibile complessità.

Inoltre c’è da dire dell’ambivalenza, altra caratteristica tipicamente pinteriana. Non c’è argomento su cui si manifesti un giudizio unanime, collettivo, condiviso. I macellai di cui parla Max sono “un grosso gruppo con agganci all’estero” e “una banda di mascalzoni”; i sigari che vengono fumati sono di “ottima qualità” e sono “schifosi”; Jessie (la madre defunta) è stata “il pilastro della famiglia” e “una moglie lurida e troia”. L’assenza di certezze, il ripudio della versione univoca per cui è possibile distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, ciò che è bene da ciò che è male. Stein rafforza tale caratteristica rendendo ogni personaggio – ad un tempo – meschino e pietoso, tenero e schifoso. Nessuno si salva, dunque, in quest’opera eppure tutti hanno una ragione per lamentarsi, hanno una violenza subita, un patimento di cui sono stati vittima. L’emblema è Joey: violentatore di ragazze, scopre progressivamente l’amore per Ruth (“Io non voglio dividerla con nessuno”), salvo rinunciarvi per la sopraffazione commerciale di famiglia e l’indipendenza furbesca della donna. Il Joye voluto da Stein è un ragazzone un po’ tonto, pieno di energia fisica, inebetito nello sguardo, ossessionato dalle forme femminili come lo è un adolescente in piena crisi ormonale; Joye è incapace di prendere parte ai discorsi, non li comprende appieno, arriva tardi al loro senso effettivo (“Cos’è questa storia?”) tanto da indurre – negli spettatori – una sorta di tenerezza e, tuttavia, lo stesso Joye è il primo davvero ad approfittare sessualmente della cognata, trascorrendo due ore con “la stuzzicazzi”. “Anche il padre” – dice Stein – “a un certo momento è commovente e attira quasi simpatia per poi tornare, come tutti, alle proprie ossessioni”. Così per Sam, che ama Jessie al punto da distruggerne il ricordo; Teddy, sui cui veri sentimenti verso la moglie v’è da dubitare; Lenny, la cui infanzia sembra sporcata da vicende d’abusi e che ora picchia e stupra donne e lavora come magnaccia; così per Ruth: madre devota o disinteressata ai suoi figli? Oggetto delle pulsioni sessuali altrui o provocatrice delle stesse? Fredda calcolatrice o persona malata? Non v’è risposta possibile giacché in Pinter – e in questo eccellente Pinter di Peter Stein – non v’è sicurezza alcuna sulla veridicità di ciò che ci viene raccontato o mostrato. Tutti sono tutto, in potenza e in concreto.

Scrivendo a qualche giorno di distanza resta dunque la sensazione di aver assistito a un Pinter pinteriano davvero. Merito di un regista impegnatosi ad esaltare atmosfere, contenuti e allusioni dell’opera senza forzature visive ma piuttosto badando a dare forma materiale alle parole, un corrispettivo oggettivo, una concretezza tangibile. A distanza di cinquant’anni da quando fu spettatore all’Aldwich di Londra Peter Stein riesce così nel suo intento: realizzare la (sua) prima mondiale del testo.
Si può perciò dire, e si dirà ancora in futuro, del “Pinter di Peter Stein”, di questo Pinter nato e visto al Metastasio di Prato.

 

 

 

 

NB. Le parole di Peter Stein riportate nell'articolo sono tratte dal libretto di sala fornito dal Teatro Metastasio e, in particolare, dalle note di regia e dall'intervista fatta al regista da Gianfranco Capitta.

 

 

 

Il ritorno a casa
di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Peter Stein
con Paolo Graziosi, Alessandro Avarone, Elia Shilton, Antonio Tintis, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
luci Roberto Innocenti
assistente alla regia Carlo Bellamio
aiuto alla regia in stage Gilda Ciao
foto di scena Ilaria Costanzi
ulteriori foto di scena Pino La Pera
produzione Teatro Metastasio/Stabile della Toscana; Spoleto56 Festival dei 2Mondi
lingua italiano
durata 3h 10'
Prato, Teatro Metastasio, 12 marzo 2015
in scena dal 12 al 15 marzo 2015

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