“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 15 October 2014 00:00

Victor 'u punk

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Faccio parte della giuria popolare che prendendo in esame tutti gli elementi presentati, deciderà della condanna o della salvezza dello spettacolo. Sono l’opinione pubblica. Capita, in molti stati del mondo che ad una giuria popolare sia chiesto di decidere della vita o della morte di una persona: esse giudicano la sua colpevolezza e possono o meno condannare a morte. L’opinione pubblica mondiale, invece, si divide tra i favorevoli e i contrari alla pena capitale.

Victor Hugo si schierava tra i contrari nel 1920 quando scrisse il romanzo L’ultimo giorno di un condannato a morte, Amnesty International è tra i contrari, io sono tra i contrari. Assisto allo spettacolo di Davide Sacco, tratto dal romanzo di Victor Hugo con molte aspettative. Voglio che sia in grado di far cambiare parere a tutti quelli che sono favorevoli.
I primi a testimoniare sono gli attivisti di Amnesty International. Oggi ancora cinquantotto Paesi nel mondo mantengono la pena di morte. Alcuni la applicano per omicidio, altri per truffa ai danni dello stato, concussione e frode, altri ancora per adulterio o per omosessualità. Spesso vengono condannati degli innocenti, di solito sono poveri ed emarginati. I metodi con cui viene inflitta la morte non sono quasi mai efficaci al tal punto che i condannati non sentano di morire. Essi provano dolore e allora alla condanna di perdere a vita si aggiunge la tortura della carne e, invece, “ogni individuo ha diritto alla vita” e “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura” recita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Davide Sacco porta la testimonianza di un condannato per omicidio. È il condannato di cui Hugo ha raccolto i pensieri nel diario dei suoi ultimi giorni. Riscrive, taglia, riadatta, aggiunge, trasforma il romanzo in una versione definita 'punk'.
Lo scorrere del tempo è sempre scandito, dai passi pesanti sulle tavole di legno dell’unico attore in scena, dal suo dito che batte sul microfono. Il condannato, fino a ieri libero nel corpo e nei pensieri è in una gabbia, imprigionato nell’unico pensiero della sua morte. Siamo noi ad avergliela inflitta. Lo facciamo ogni volta in cui non lottiamo per eliminare questa pratica, ogni volta in cui pensiamo che la cosa non ci riguardi. Allora il condannato ci fa alzare dalle nostre poltrone e ci sistema sul palco, intorno alla sua gabbia. Ognuno di noi ha un cappuccio da boia. Ognuno è colpevole di omicidio quando è lo Stato ad uccidere. Anche un lattante è un assassino se c’è qualcuno che viene messo a morte per il bene dello Stato. C’è chi viene al mondo con due peccati originali.
La partecipazione dello spettatore avviene anche attraverso la voce. Ad uno ad uno, il condannato ci porge il microfono e chi è sul palco intorno alla gabbia ma anche chi è in prima fila legge la sentenza “Condannato a morte!”.
L’uomo è vestito e truccato come una rock star. Il porgere il microfono verso il pubblico, il linguaggio del corpo ricco di gesti energici, le frasi gridate creano l’atmosfera di un concerto senza musica. La melodia è delle parole. Il ritmo è quello della burocrazia che allunga la tortura di giorno in giorno, di settimana in settimana. Si tratta di un omicidio per il quale servono bolli, approvazioni, verifiche, date disponibili, un esecutore da pagare, una piazza disponibile ad accogliere la folla di curiosi. Il condannato batte i piedi sulle assi di legno. Parallelamente alla follia della società con un paio di ritratti grotteschi che vengono fuori dal racconto, viviamo la follia del recluso conoscendone i pensieri e stralci di una vita abbandonata per sempre. Egli lascia una madre, una moglie e una figlia: tre vedove, tre orfane.
Orazio Cerino ci conduce nel buio delle celle con vigore e senza cortesia. I cappucci da boia ce li tira addosso. Siamo sempre sull’attenti perché potrebbe avvicinarsi da un momento all’altro, toccarci, chiederci di toccarlo. In fondo siamo tutti coinvolti. L’interpretazione è sempre molto carica. Gli spettatori ne avvertono l’energia e lo applaudono a lungo.
Togliendomi il cappuccio mi chiedo se lo spettacolo, molto bello a vedersi e quindi salvo, abbia la forza di cambiare l’opinione pubblica o anche solo il pensiero di una singola persona. Deve esserci un’altra sentenza, quella che riguarda le mie aspettative. Probabilmente sotto tutti gli accorgimenti scenici, la gabbia-ghigliottina, l’idea del punk, si perde il lato più intimo della vicenda e il momento più serio della denuncia. Quando ci si trova ad affrontare un tema così importante e complesso, forse sarebbe meglio rimanere semplici, per permettere di pensare più che guardare. Stimolare una riflessione, quando si fa questo genere di teatro, è più importante che coinvolgere. Quello che manca alla fine dello spettacolo di Davide Sacco è la risposta, che avrei dovuto trovarmi dentro, alla domanda “Perchè quell’assassino non merita anche lui di morire?”

 

 

 

Condannato a morte. The Punk Version
da L'ultimo giorno di un condannato a morte
di
Victor Hugo
regia
Davide Sacco
con
Orazio Cerino
scenografia
Luigi Sacco
costumi Clelia Bove
foto di scena Lina Maria Palombo
lingua italiano
Napoli, Teatro Il Primo, 11 ottobre 2014
in scena dal 10 al 12 ottobre 2014

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