“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 28 July 2014 00:00

La testimonianza di uno spettatore inadeguato

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"Tornai in Francia. Senza noie passai la frontiera, ma fatto qualche chilometro nella campagna francese, alcuni gendarmi mi fermarono. I miei stracci erano troppo spagnoli. 
'Documenti!'
Mostrai dei pezzetti di carta sporchi e tutti strappati a forza di piegarli e di dispiegarli.
'E la scheda?'
'Quale scheda?'
Apprendevo così l'esistenza dell'umiliante scheda antropometrica. La consegnano a tutti i vagabondi. A ogni gendarmeria ci mettono un visto. Fui sbattuto dentro" (Jean Genet, Diario del ladro).


Santo Genet
è una produzione reclusa, un intenso percorso prestabilito in cui – pur respirandosi a tratti l’ossigeno della libertà – ci si riaccorge, alla fine, dell’assenza di libertà. È una costante oppressione silente perché, per quanto si possa essere rapiti o distratti dall’intensa bellezza dello spettacolo, al termine si riprende coscienza che le pareti del carcere non si sono mosse di un millimetro, che i secondini sono ancora dei secondini, le celle rimangono celle e chi viene da fuori fuori ritorna mentre, chi è dentro, dentro rimane.
Chi scrive di teatro ha il compito di testimoniare, raccontare, fare analisi per chi legge ed usa le proprie parole in relazione alla messinscena perché, la messinscena, continui a vivere: fosse solo per il tempo dell’articolo. Scenografie, testo come scrittura unitaria o drammaturgia come insieme di frammenti, scelte registiche, movimenti individuali e di gruppo, relazione con lo spazio e con gli oggetti, luci e costumi, incidenza della musica, abilità mimiche, singole eccellenze individuate in una vasta compagnia più o meno professionale. Dovrebbe esserci tutto questo se non fosse che – per scelta – tutto questo non vi sarà, se non in piccola parte. Perché ciò che più mi ha colpito nel vivere l’esperienza di Santo Genet all’interno del carcere di Volterra è altro da ciò che, normalmente, mi colpisce quando siedo in una platea.
Mi hanno colpito gli occhi degli interpreti: lucidi, neri, piccoli come lenticchie bruciate, occhi diretti prima ad evitare ogni possibile relazione con il pubblico – con quest’informe insieme invasivo di uomini e donne che penetrano, passano e visitano un luogo del quale, nel resto dell’anno, ignorano anche l’esistenza – e che poi, progressivamente, cominciano a rispondere allo sguardo con lo sguardo, accompagnando questa prima arditezza con una crescente complicità fisica: un sorriso, un gesto, una carezza accennata, il tocco della spalla con la spalla, una frase diretta o uno “scusa” pronunciato nell’imbattersi frontalmente, nostro malgrado.
Mi ha colpito il sudore: il mio e quello di chiunque altro presente. Gocce tiepide sulla fronte, a rispondere, in maniera fisicamente naturale e inevitabile, alla bassezza muraria del carcere, al senso claustrofobico di contrazione dello spazio, di assenza d’ampiezza e di direzioni ulteriori verso cui fosse possibile fuggire o prendere aria. Si suda, durante Santo Genet, non soltanto per l’orario pomeridiano e per il sole a picco, ma per questo soffitto che schiaccia ogni altezza, per questi angoli dietro ai quali non ci sono scorci diversi ma identici, per queste stanze tramutate in minuscole sale teatrali ricolme di oggetti, di stoffe, di istallazioni scenografiche (un trono, una tomba di vetro, un podio e sedie, specchi, abiti, fotografie, brevi messaggi cartacei) che ingombrano fino e oltre ogni limite; per questa compressione di ogni centimetro che ti costringe a poggiare la mano alla parete, prendere il respiro non riuscendo a goderne fino in fondo, prima di continuare il percorso cercando un pertugio tra la folla.
Mi ha colpito la presenza marcata di accenti e cadenze del Sud Italia (campano, calabrese, siciliano) e mi ha colpito la presenza di pelli e di lingue straniere, come se la reclusione fosse un fenomeno che ha statistiche geografico-politico-sociali silenziose o celate per cui – se nato in un determinato posto del mondo – sembra che le possibilità di finire in galera aumentino spudoratamente.
Mi ha colpito il contrasto tra la vivacità colorata degli abiti e dei trucchi destinati agli attori ed il celeste chiaro, spento, quasi slavato delle camicie dei secondini e mi ha colpito la presenza laterale di quest’ultimi, intenti a generare fisicamente un cordone, un limite, una soglia invalicabile; mi ha colpito dover rinunciare alla penna con cui prendere appunti, lo zaino in cui avevo libri e taccuino, il tesserino di giornalista lasciato all’ingresso: a sancire la rinuncia al mio ruolo consueto (e quanto “critico teatrale” mi sembra un’espressione inutilmente pomposa mentre la scrivo).
Mi ha colpito questa diversità che rimane anche se si fa finta che non vi sia diversità alcuna; questo sentirsi vicini ai carcerati in quanto attori e non in quanto carcerati; questo sorridere tra il bonario, l’imbarazzato e il sincero, a uomini di cui – lontano adesso lo spettacolo – mi restano rari frammenti dei volti (una maniera di sorridere, l'inclinazione del mento, il colore dei capelli) ma di cui non riesco più a ricordare il timbro della voce.
Mi ha colpito certa retorica ascoltata poi, fatta di discorsi anche opportuni ma troppo consueti: parole recitate a mura granitiche, con la giusta dose di umiltà e di sollievo, con un buon tono di (com)patimento e di commozione, con un retrogusto veritiero ma incapaci davvero di riguardare, fino in fondo, anche solo un granello della polvere addensatasi su questa altissima cinta prima della quale c'è questo posto, così diverso da tutti gli altri posti all'esterno.

E Santo Genet? Santo Genet è un’abile costruzione inevitabilmente imperfetta, volenterosa, piena di pathos, con passaggi di bellezza fuggevole in cui le parole del folle peccatore teatrale risuonano come abiti cuciti a misura su corpi che sanno − davvero − cos’è l’omosessualità relegata alla strada e che tanfo fa l’umido di una cella quando viene l’inverno; come si può derubare o ferire un altro uomo e cosa si prova ad entrare, passare uno, due, dieci controlli e finire sul fondo di uno spazio largo tre metri per tre.
Puzzle di monologhi che mi è sembrato costruito con brandelli de Il Balcone, Querelle de Brest, I negri ma anche di Il miracolo della rosa, Notre Dame des Fleurs o il Diario del ladro, costringe gli spettatori a vagabondare da un esterno bianco purissimo (insieme cellophanato di colonne, tombe, altarini tra piani inclinati e su un lungo pavimento rettangolare) ad un interno sovraccarico di segni variopinti, in cui un corridoio vellutato porta ad ambienti minuscoli da cui ed in cui si può entrare e uscire, dopo aver colto una citazione, ascoltato soltanto alcune frasi o prestato attenzione a una tirata intera.
Camere di bordello, ripostigli (dis)umani, cantucci d’abiezione o di confessione (a)morale con piccoli palchetti su cui, uno o più attori, propongono spettacolo di sé, dando rilievo dialettale e toracico a singole pagine dell’autore. Palpitano i muscoli, gli sguardi si fanno furbi, una rosa di stoffa viene agitata a mezz’aria, si guarda e si viene guardati specchiandosi reciprocamente mentre si allude o descrive un processo di perdizione passata, una condizione di martirio presente, l'impossibilità di sollievo futuro.
Si torna poi alla fine all'esterno, per un'(auto)processione in cui ognuno sostiene, trasporta e fa danzare la statua di cartone rigido rappresentante un altro personaggio, un compagno di scena, il volto di un diverso detenuto. Immolazione, sacralizzazione e resa iconica, meridionale nella fattura e nei rimandi, per celebrare chi vive condannato o perduto e, condannato o perduto, è destinato a finire i suoi giorni.
Cosa c’è, quindi, di Genet in questo Santo Genet? Ci sono le parole che, simili a involucri in cui si spinge dentro un ripieno, acquistano però una densità ed uno spessore epidermico, gonfio, carnale, ulteriore. Di uno spettacolo che è impossibile conoscere totalmente, giacché seguire la recita di un interprete significa perdere la recita degli altri, colpisce così l’accumulo di afflizioni attraverso l’accumulo delle voci; colpisce la sensazione di libertà comportamentale e di condanna afflittiva che ne consegue; colpisce il senso di costipazione, di coabitazione forzata, di solitudine in mezzo agli altri; colpisce il tentativo di santificazione di Caino, l’affermazione inviolabile del diritto ad esistere, la crudeltà tramutata in sistema di sorveglianza o praticata come atto di autoperdizione; colpisce il tono livido che ha l’assenza di spazio, l’odore agro dei corpi confinati in una stanza, certa sensazione di fastidio strisciante (e taciuta, sopportata e nascosta) verso chi ostenta la propria infamia, la propria diversità e la propria incoerenza rispetto alla (finta) coerenza del mondo.
Di Santo Genet restano infine sensazioni ed abbagli teatro-carcerari che, pure, al teatro in quanto teatro finiscono per rimandare: l’utilizzo di uno spazio chiuso e ombratile che si addobba perché sia un altrove lucido, aperto, (re)inventabile; uomini che per la durata di uno spettacolo illudono e (si) illudono di essere altro da ciò che sono nei giorni in cui non si fa recita; un pubblico che entra, osserva, s’incuriosisce, apprezza, si commuove ed applaude prima di scivolare fuori, lontano e distante, tornando a parlare di argomenti consueti, con tono consueto.
Di Santo Genet restano adesso (anche) queste parole scritte su un foglio, durante il viaggio che mi riporta a casa, mentre osservo la campagna toscana coi sui verdi e i suoi beige. Resta questa non-recensione teatrale di uno spettacolo diverso da tutti gli altri spettacoli teatrali cui avevo assistito.
Il carcere è di nuovo lontano, il treno scivola veloce, penso che tornerò presto a sedere in una platea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VolterraTeatro 2014
Santo Genet
spettacolo liberamente ispirato all'opera di
Jean Genet
drammaturgia e regia Armando Punzo
con Antony Talatu Akhadelor, Pietro Giorgio Alcamesi, Salvatore Altieri, Vincenzo Aquino, Bledar Arapaj, Aniello Arena, Gaetano Arena, Yosmeri Armais Castilla, Mohammad Arshad, Antonio Arrigo, Giuseppe Calarese, Rosario Campana, Pierangelo Cavalleri, Antonio Cecco, Salvatore Centro, Ivan Cepika, Luca Coluccelli, Virgilio Cosentino, Ismet Cuka, Bardhok Cuni, Pierluigi Cutaia, Gianluigi De Pau, Fabrizio Di Noto, Fation Dine, Domenico Donato, Nicola Esposito, Giovanni Fabbozzo, Alban Filipi, Pasquale Florio, Daniele Frati, Domenico Gallo, Giuseppe Giella, Pasquale Giordano, Heros Gobbi, Domenico Grande, Rocco Grande, Nunzio Guarino, Lofti Hajahned, Noureddine Habidi, Vladimir Ibaj, Arian Jonic, Altin Kadrija, Ibrahima Kandji, Naser Kermeni, Marco Lauretta, Carmelo Dino Lentinello, Wei Lin, Luca Lupo, Matteo Macchiarelli, Gentian Makshia, Antonino Mammino, Angelo Maresca, Fatmir Marku, Gianluca Matera, Gaspare Mejri, Hidalgo Luis Anibal Mena, Raffaele Nolis, Edmond Parubi, Anton Pernoj, Luciano Petraroli, Alessandro Praticò, Armando Principe, Angelo Privitera, Armando Punzo, Gennaro Rapprese, Hamadi Rezeg, Antonino Romeo, Franco Salernitano, Michele Salerno, Danilo Schina, Vitaly Skripeliov, Roberto Spagnuolo, Massimo Terracciano, Domenico Tudisco, David Tuttolomondo, Alberto Vanacore, Danilo Vecchio, Alessandro Ventriglia, Giuseppe Venuto, Qui Hai Weng, Jian Dong Ye, Antonio Zango
e con la partecipazione straordinaria di Isabella Brogi
scene Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo
costumi Emanuela Dall'Aglio
musiche originali e sound design Andrea Salvadori
aiuto regia Laura Cleri
movimenti Pascale Piscina
assistente alla regia Alice Toccacieli
video Lavinia Baroni
collaborazione drammaturgica Giacomo Trinci, Lidia Riviello
aiuto scenografo Yuri Punzo
luci Andrea Berselli
collaborazione artistica Daniela Mangiacavallo, Pier Nello Manoni, Luisa raimondi, Marco Mario Gino Eugenio Marzi, Marta Panciera, Elena Turchi, Adriana Follieri, Francesco Nappi, Debora Mattiello, Carolina Triuzzi, Francesca Tisano, Alessandro Fantechi
fotografie di scena Stefano Vaja
produzione Volterra Teatro/Carte Blanche, Centro Nazionale Teatro e Carcere, Tieffe Teatro Menotti, Compagnia della Fortezza
durata 3h 10'
Volterra, Carcere di Volterra, 23 luglio 2013
in scena dal 21 al 25 luglio 2014

 

 

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