“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 07 August 2016 00:00

Un Napoli Teatro Festival (quasi) tutto per noi

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In queste condizioni né gli attori né i drammaturghi
né i critici si sentono controllati dagli spettatori, ossia
responsabili di fronte a loro. E allora di fronte a chi?
Questo è il problema. L'un verso l'altro? Ben poco.
(Nicola Chiaromonte)

Dobbiamo riflettere sulle priorità: non si organizzano
feste da ballo in case che crollano.
(Tommaso Montanari)


Quest’articolo non può che contenere una riflessione parziale essendosi svolto solo in parte il Napoli Teatro Festival Italia: pensato da Franco Dragone come “un laboratorio creativo culturale permanente” il Festival prevede infatti – stando alle parole del suo direttore – nell’ordine:

 – “un secondo momento”, a settembre, nel quale verrà estesa la programmazione in Regione “stimolando il pubblico a partecipare ad attività concepite in luoghi storici e suggestivi della Campania” che non siano Napoli;
– il Napoli Teatro Lab, nel periodo autunnale, ovvero un percorso che “ambisce a sostenere la nascita di talenti e compagnie sul territorio” attraverso “una serie di attività sinergiche tra Festival e centri di produzione teatrali campani e napoletani” (in pratica: cinque compagnie dovrebbero essere adottate da altrettanti teatri e iniziare una lunga fase formativa e creativa, fatta d’incontri con maestri nazionali ed internazionali e messa a disposizione di una sede per il lavoro quotidiano);
– il Napoli Natale, la cui definizione – facendo riferimento alle parole di Dragone – risulta per ora superficiale e retorica: leggo infatti che “quest’ultima sezione è un tentativo di favorire un percorso di partecipazione aperta e spregiudicata nella ricerca e nella (ri)costruzione dell’identità artistica di Napoli e delle tante anime che la compongono”.
Aspetti – dunque – come la qualità effettiva della programmazione o la laboratorialità finalizzata alla creazione di nuovo teatro e di nuove compagnie andranno valutati a fine anno, quando le lancette del Festival avranno compiuto per intero il loro giro.

Le ultime mail di luglio indirizzate dall’Ufficio Stampa del Festival a noi giornalisti sono servite da un lato a rendere nota la soddisfazione del CDA della Fondazione Campania dei Festival “per la qualità degli spettacoli presentati e per il complessivo andamento della manifestazione” e dall’altro per condividere i numeri di quello che l’assessore regionale Maffettone ha definito un successo, confermato come tale “dall’opinione colta, nazionale e internazionale” che ha “espresso un giudizio unanime di apprezzamento sull’organizzazione”. Di seguito, dunque, le cifre:
quattordici paesi ospitati appartenenti a quattro continenti diversi (manca solo l’Oceania); cinquantasette titoli; ventuno compagnie straniere, nove compagnie italiane e sedici compagnie napoletane; centosettantasei alzate di sipario in trentuno giorni (centoventotto a Napoli, quarantotto nel resto della Regione).
Ancora: trecentoquaranta unità lavorative impiegate (dai dipendenti della Fondazione ai facchini e gli autisti), settecentotrentasei lavoratori dello spettacolo impegnati (quattrocentonovantuno artisti e duecentoquarantacinque tra tecnici e personale organizzativo) e duemilacinquecento pernottamenti in hotel, centosettantasei testate giornalistiche interessate, centottanta critici accreditati di cui trentasette nazionali o internazionali.
Infine il pubblico: il comunicato riferisce di trentatremila spettatori; ventiquattromila a Napoli, novemila in Regione.

“Ora voglio rivolgermi direttamente a voi” scrive Franco Dragone nel contributo pubblicato nella brochure del Napoli Teatro Festival Italia: “voi” sta per “spettatori”.
“Ora voglio rivolgermi a voi”, dunque, perché “la realtà che ho accettato di dirigere assumendo questo incarico mi ha investito di una profonda responsabilità” ed è “una responsabilità soprattutto nei vostri confronti: perché senza di voi il Festival non avrebbe motivo di esistere”. È “a voi” – afferma Dragone – che “ho tentato di portare il meglio dello spettacolo internazionale, ma anche di recuperare antiche tradizioni e figure del teatro napoletano” e – soprattutto – è per “voi” che “ho cercato di dare vita a un Festival aperto a tutti, affinché teatri e luoghi all’aperto accolgano” non soltanto il pubblico già teatralizzato ma anche e soprattutto “chi non ha l’abitudine di frequentare le sale di spettacolo”.
Un Festival per tutti s’intitola, non a caso, lo scritto di Franco Dragone. Ma tutti chi?

In un articolo pubblicato da Il Mattino il 16 luglio Davide Cerbone afferma che i risultati in realtà “sono in chiaroscuro” perché se è vero che “il concerto dei Foja ha richiamato al San Carlo quasi milletrecento persone” invece, ad esempio, “a guardare Madre di Pietà al Museo Diocesano erano una sessantina” e sottolinea che – “secondo indiscrezioni” – nei trentatremila spettatori del Festival siano stati conteggiati coloro che hanno assistito agli spettacoli gratuiti, coloro che sono stati accreditati a servizio stampa (e relativi accompagnatori), gli invitati delle compagnie e tutti quelli che – a diverso titolo – hanno usufruito di omaggi: “La questione degli omaggi non è episodica” afferma Cerbone poiché “ad occupare per metà l’Arena Flegrea, dove andavano in scena le Loves Stories delle sorelle Katia e Marielle Labèque, erano soprattutto invitati”: settecento su duemila. Non è episodica la questione degli omaggi perché dei seicento spettatori di St/ll di Shiro Takatani “oltre la metà non aveva pagato”; perché “per Il funambolo il primo luglio al Sannazaro appena ottantasette su trecentocinquanta hanno aperto il portafogli”; perché – citando ancora l’articolo de Il Mattino – gli spettatori di Flexn all’Augusteo sono stati seicento ma i paganti solo centottanta.
In aggiunta – il giorno dopo – lo stesso Cerbone scrive che “le centosettantasei alzate di sipario” del Napoli Teatro Festival Italia “hanno registrato un incasso di novecento euro” di media “per spettacolo”.
La risposta del CDA, tramite l'Ufficio Stampa – non essendo stata prevista una conferenza di fine rassegna – è la seguente: “Preso atto dei dati ufficiali ed incontrovertibili del Festival” risulta che “per gli spettacoli a pagamento, a Napoli e in Regione, al netto dei biglietti di servizio dovuti alla stampa e quelli che per contratto sono stabiliti a favore delle compagnie (pari al 10%), gli omaggi ammontano al 29,76% del totale degli spettatori”. Poco meno di un terzo, dunque, secondo la Fondazione.
Traducendo quest’ultimi dati: gli omaggi distribuiti sarebbero, calcolatrice alla mano, novemilaottocento in trentuno giorni, trecentosedici al dì, cinquantasei per alzata di sipario (contando anche gli spettacoli gratuiti e così abbassando la media). Quanto all’incasso: se venissero confermati i dati forniti da Cerbone, volendo continuare a giocare con le cifre e facendo finta che non ci siano state messinscene contraddistinte dal libero accesso, basterebbe moltiplicare i novecento euro per le centosettantasei tra prime e repliche del Festival per intuire approssimativamente quanto quest’ultimo abbia incassato al botteghino. Il totale? Centocinquantottomila e quattrocento euro. Centesimo più, centesimo meno.
Dunque, ricapitolando: il Napoli Teatro Festival Italia, nel suo primo mese, è costato sei milioni e duecentoventicinquemila euro di fondi pubblici (fonte: Grispello su Il Mattino, 7 luglio) ed avrebbe ricevuto in cambio, dallo sbigliettamento, centocinquantottomila e quattrocento euro. Insomma: ogni euro ricavato dalla normale vendita di biglietti e abbonamenti ne sarebbe costato trentanove di finanziamenti europei.

Intendiamoci. Il riferimento ai numeri non determina in automatico un giudizio sull'eventuale progettualità poetica espressa dal Festival né sono convinto che la qualità di una o più messinscene sia certificata dal numero di biglietti venduti: se così fosse dovrei ritenere eccelse le stagioni paratelevisive del Diana, del Cilea, dell'Augusteo o del Delle Palme e rinnegare invece gli sforzi – non sempre premiati dalla risposta del pubblico – che compiono la gran parte delle medio-piccole sale napoletane; dovrei aggirarmi solo per i grandi festival e non badare alle rassegne che tentano di raccontare ed accrescere la consapevolezza identitaria di pezzi periferici di Paese; dovrei smettere di scrivere di una pseudoriforma dei criteri di distribuzione del FUS che – proprio basandosi sull'autocertificazione quantitativa, spesso gonfiata e comunque non controllabile – ha imbottito di ormoni della crescita alcuni Stabili tramutandoli in (vuote) fortezze Nazionali dimenticando, nel contempo, di nutrire il teatro dei dialetti, di sostenere la diversità artistica dei territori. Queste cifre sono importanti tuttavia perché danno una conferma calcolabile di una sensazione personale immediata, che si è rafforzata sera dopo sera: il Festival di tutti è stato – almeno fino ad ora – soprattutto il nostro Festival ovvero il Festival di noi che, a diverso titolo, abitiamo “il condominio del teatro”, per dirla con Giorgio Testa.
Fatte rare eccezioni (il concerto dei Foja già citato o la prima al San Carlo di Buffa col suo Le Olimpiadi del 1936, qualche raro spettacolo straniero, poche messinscene italiane) il Napoli Teatro Festival Italia è stato frequentato e vissuto da registi, attori, drammaturghi e da amici e parenti di registi, attori, drammaturghi, da qualche operatore (soprattutto locale), dai critici (in larga parte campani). Bastava alzare lo sguardo – nella platea del Sannazaro, prima di Animali notturni di Cerciello, come al Mercadante, per il Macbeth di De Fusco o La dictadura de lo cool di Re-Sentida (cito appositamente spettacoli che hanno avuto esiti qualitativi differenti, a mio parere) – per riconoscersi: sei anche tu qui, come va, cosa hai visto, che te ne pare, ci vediamo durante l'intervallo o all'uscita, buona visione. Come fossimo ad una festa privata, ad un prolungato party implicitamente organizzato per inviti ed al quale – soltanto in maniera occasionale – è stata concessa, favorita o cercata la partecipazione dell'altra componente che, assieme agli artisti, rende il teatro davvero teatro: gli spettatori, il pubblico, la cittadinanza ovvero coloro che osservano e si confrontano con l'altrove che prende vita sul palco.
Coniugando diversamente il percorso di privatizzazione progressiva attuato da Luca De Fusco – giunto al culmine nell'edizione del 2015, che fu quasi interamente arroccata nel castello di Sant'Elmo, separando così in maniera fisica il teatro dal contesto cittadino e dalla sua comunità di riferimento – questa prima parte firmata da Franco Dragone si è dimostrata incapace di realizzare quel “contagio gioioso” che era nei programmi: insomma, gli spettacoli “che parlano al pubblico”, che cioè “parlano a voi” di cui dice il direttore hanno finito per parlare prevalentemente a noi, che di spettacoli già parliamo (facendone parte a vario titolo o scrivendone come critici) durante tutto il resto dell'anno.

D'altro canto, mi chiedo, era possibile un risultato differente? La preparazione di questo Napoli Teatro Festival Italia è partita in grave ritardo ed ha accumulato ritardo ulteriore durante la sua gestazione; inutile riferire delle lunghissime trattative che hanno portato alla conferma o alla cancellazione degli spettacoli che hanno fatto o avrebbero dovuto far parte della rassegna tanto quanto è inutile fare riferimento alle occasioni apparse all'improvviso (La tempesta letta coi copioni in mano da Michele Placido, da attori professionisti e dai ragazzi dell'Istituto Penitenziario di Nisida); alle occasioni sparite poco prima dell'ufficializzazione del calendario o addirittura a rassegna ufficializzata (il Welcome di Dragone “con e per” i migranti, opera annullata per i suoi costi eccessivi); inutile fare riferimento alle occasioni di cui si è discusso fin troppo (la presenza di Al Pacino) mentre forse è più sensato sottolineare che il ritardo ha contraddistinto quasi ogni aspetto comunicativo e organizzativo del Festival: in ritardo la firma dei contratti, la scelta dei luoghi di scena e la relativa calendarizzazione, in ritardo la comunicazione interna ed esterna.
Quasi del tutto assente la cartellonistica in città, tardivo e molto limitato l'uso del web, il Napoli Teatro Festival Italia non solo non ha abitato e traversato Napoli e la Regione sul piano spettacolare ma neanche su quello dell'informazione preventiva: nessun banchetto o stand in nessuna strada, piazza o vicolo; nessuna brochure nelle università, nelle librerie indipendenti o di catena e negli altri luoghi di cultura (musei, fondazioni, sale concertistiche, cinema); nessuna strategia di marketing è stata attuata e – mentre nella Cumana e nella Circumvesuviana (treni che collegano Napoli alle periferie e ai Comuni adiacenti) – erano visibili le sbiadite locandine delle edizioni precedenti, si è fatto fatica a scovare in giro segni grafici che rimandassero al Festival 2016, ai suoi spettacoli, ai suoi artisti.
Mai, insomma, la cittadinanza urbana e periferica napoletana o quella dei luoghi regionali interessati dal Festival è stata presa seriamente in considerazione come punto di riferimento comunicativo, come primo interlocutore dovuto, come meta del proprio messaggio teatrale.
Mai inoltre – nei mesi che hanno preceduto i primi trentuno giorni del Festival – si è davvero pensato a quest'ultimo come a un'opportunità di valorizzazione degli spazi e degli ambienti pubblici; di riqualificazione di luoghi, monumenti e scorci paesaggistici; come mezzo o strumento per rendere più approfondita o diversamente sorprendente il rapporto dei cittadini con il loro territorio. Lontano L'attesa, il macro-progetto voluto da Renato Quaglia (NTFI 2010, dietro il quale c'era la presenza ombratile di Franco Quadri) per cui micro-spettacoli accadevano teatralizzando suolo pubblico e tempo quotidiano dei passanti (la fermata di un autobus, lo sportello delle Poste, un tram, la metro, la stazione di una ferrovia locale, una scalinata che collega due strade), risultano lontani anche molti festival europei che hanno riqualificato interi distretti o quartieri col teatro, facendoli traversare o abitare da un flusso artistico in grado di attirare attenzione, motivare curiosità, incentivare la partecipazione collettiva, alimentare la presenza turistica.
In aggiunta.
Incapace di rivolgersi alla vasta platea di una città e di una Regione, il Napoli Teatro Festival Italia è stato incapace – almeno fino ad ora – anche di diversificare e moltiplicare le sue iniziative: possibile che non sia avvenuto alcun incontro pubblico, formale o informale, con i registi (nazionali e internazionali) i cui spettacoli erano in scena? Possibile che non siano state previste giornate di “prove a porte aperte”? Possibile che non si sia pensato di accompagnare il cartellone del Festival con retrospettive video degli artisti in scena o di film e documentari che fossero in grado di ampliare la conoscenza delle tematiche affrontate di spettacolo in spettacolo? Possibile che non sia stata assunta alcuna iniziativa legata all'editoria di settore? Possibile – ancora – che questo Festival non abbia avuto un luogo che fungesse da quotidiano punto d'incontro, uno spazio nel quale artisti, operatori e fruitori del Festival stesso potessero (ri)trovarsi a discutere? Possibile – insisto – che il Napoli Teatro Festival Italia sia sorto e si sia affermato come cosa a sé dal contesto nazionale al punto non solo da non riuscire a stabilire alcun contatto con altri festival che abitano la Penisola ma, addirittura, che sia stato impossibile qui ospitare almeno parte del movimentismo che sta animando oggi nel Paese il necessario dibattito sulle condizioni presenti e le prospettive future della teatralità italiana: sarebbe stato così assurdo, ad esempio, ospitare Facciamolaconta? Sarebbe stato così difficile attivarsi perché vi fosse una tappa partenopea del Lessico Contemporaneo di C.Re.Sco.?

Mi si potrà obiettare che è avvenuta la regionalizzazione del Festival e che, per la prima volta, luoghi come Sant'Angelo dei Lombardi, Montemarano, Gesualdo, Santa Croce del Sannio, Morcone e San Potito Sannitico, Vallo della Lucania, Agropoli, Valva sono stati nuovo scenario di spettacoli o di residenze artistiche. Ebbene, potrei annuire poiché l'ho considerata un'iniziativa pregevole al punto tale da aver dedicato venti giorni all'osservazione del progetto ospitato a Sant'Angelo dei Lombardi. E – a beneficio del valore di tale iniziativa – voglio ricordare il volto segnato da rughe profondissime e le parole sinceramente emozionate di una donna di un'ottantina d'anni che, stando sulla soglia di casa, racconta ad una sua vicina che La casa di Bernarda Alba visto nella piazza principale di Sant'Angelo è stata “la prima volta, Maria, che io sono andata a teatro”.
Voglio ricordarlo quel volto, quelle parole, fermandole qui.
Tuttavia ho il dovere di aggiungere che anche la regionalizzazione svela l'approssimazione comunicativa ed organizzativa del Festival: perché molti degli spettacoli sono apparsi e svaniti senza essere stati anticipati da alcuna iniziativa promozionale e culturale di supporto e perché la preziosa possibilità offerta ad alcune compagnie di vivere l'esperienza creativa della residenza si è tramutata in uno stato di abbandono quasi permanente: nessun esponente del Napoli Teatro Festival Italia che, nei mesi precedenti, avesse visitato quel tale luogo, parlato col tale sindaco o relativi assessori, avviando una fondamentale opera di accompagnamento preventivo e propedeutico. Sono stato diretto testimone di questo stato di abbandono, che in alcuni casi ha raggiunto forme addirittura offensive o paradossali. Un esempio? Proprio alla compagnia in residenza a Sant'Angelo dei Lombardi, a quarant'otto ore dalla prima e dopo una serie di promesse di tenore opposto, è stata negata l'organizzazione delle navette che avrebbe dovuto portare gli spettatori napoletani nell'avellinese. La motivazione? Il tragitto per giungere a Sant'Angelo – luogo scelto dall'organizzazione del Festival, indicato ed imposto alla compagnia – sarebbe stato “troppo pericoloso”. Inutile aggiungere che la stessa compagnia, investendo parte del proprio cachet, ha organizzato una doppia navetta per le due repliche dello spettacolo.
Possibile, mi chiedo dunque, che una parte così importante e preziosa come la regionalizzazione sia stata affidata e gestita da pochissimi supervisori – la cui durata del contratto coincideva con il primo e ultimo giorno del Festival stesso – che sono stati costretti ad arrancare di continuo da un luogo ad un luogo, giungendo sovente solo all'esordio di uno spettacolo ed essendo privi anche delle informazioni minime riguardanti la compagnia, l'opera messa in scena, la scheda tecnica dello spettacolo?
Possibile, aggiungo, che la regionalizzazione economicamente più supportata si sia invece tradotta in una distribuzione di spettacoli in quegli stessi teatri (Ravello, il Verdi di Salerno, il Gesualdo di Avellino, il Comunale di Caserta, il Massimo di Benevento) che, guarda caso, sono stati recentemente (e abbondantemente) finanziati dalla Regione Campania attraverso il Piano Operativo Complementare che ha elargito – in maniera elitaria – trentadue milioni di euro complessivi a soli otto soggetti?
Possibile che a Caserta non si sia pensato ai ragazzi del Civico, che a Benevento non ci si sia ricordati del Magnifico Visbaal, che a Salerno non si sia fatta conoscenza dei giovani operatori che localmente agiscono organizzando rassegne di nuovo teatro nazionale, che non siano cioè venuti in mente agli organizzatori di questo Festival (presidente, Fondazione, direttore e suoi molteplici  collaboratori) quella rete sì regionale composta da medio-piccole sale che da Aversa (il Nostos) ad Avellino (il 99 posti), da San Leucio (Officina) alla periferia napoletana (bene che Dragone abbia visitato il Nest di San Giovanni a Teduccio ma perché non affacciarsi anche al vicolo successivo, dove da vent'anni Sala Ichòs propone stagioni di grande coraggio e di notevole qualità artistica?) si ostinano a sopravvivere, giorno dopo giorno, arricchendo settimanalmente la teatralità campana, facendolo spesso a dispetto della noncuranza e della cecità delle amministrazioni locali?
Mi si dirà che il Napoli Teatro Festival Italia non è né un assessorato né un ministero: io potrei rispondere citando Giuliana Ciancio che, in un articolo pubblicato su Ateatro, ricorda che “i grandi progetti, come il Napoli Teatro Festival Italia, sono dei meccanismi culturali ed economici che, usufruendo di soldi pubblici di diversa natura possono avere la capacità o, forse meglio, devono avere come obiettivo strategico la restituzione di risorse in termini di lavoro creativo, professionalizzazione e abitabilità dello spazio collettivo”; potrei rispondere ricordando che – in nove edizioni del Festival – sono stati spesi contributi superiori ai sessanta milioni di euro e che sono stati spesi in una Regione che non ha – ad esempio – sale prova, biblioteche di settore, centri di formazione delle arti sceniche né un sistema integrato di Scuole ed Accademie; potrei rispondere chiedendo a mia volta: a che sono serviti questi sei milioni e duecentoventicinquemila euro impiegati? Chi hanno retribuito? Per chi sono stati usati davvero?

In Buone pratiche, cattive teorie, pessime regole – una riflessione contenuta nel volume Le Buone Pratiche del Teatro (Franco Angeli Editore, 2014) – Michele Trimarchi scrive che “la gestione pubblica della cultura in Italia è considerata da molti anni, forse troppi, una sequenza di interventi straordinari volti a sanare temporaneamente falle di bilancio”. Simili alle colate di cemento in forma di centri commerciali che dovrebbero riqualificare le periferie in stato di abbandono istituzionale e sociale permanente, alcuni Festival controbilanciano, sopperiscono o arricchiscono la (mancata) politica culturale di una Regione o di un Comune, finendo per essere il mezzo attraverso il quale generare un indotto economico momentaneo, finanziando contratti di lavoro stagionali e permettendo la realizzazione – nel caso del teatro – di spettacoli altrimenti impossibili per le troppo fragili compagnie locali.
A mio parere – in modo apparentemente diverso ma sostanzialmente uguale rispetto alla gestione del Festival firmata da Luca de Fusco – questa prima parte del Napoli Teatro Festival Italia 2016 è servito alla Fondazione per sopravvivere e darsi un ruolo, un senso ed un contegno istituzionale; è servito a confermare lo stretto legame con lo Stabile, vista la coproduzione di alcune messinscene; è servito all'Agis Campania (di cui Grispello è presidente) per sostenere (in)direttamente qualche iscritto attraverso un'indirizzata pratica di produzione degli spettacoli; è servito da un lato a reiterare la cattiva abitudine dello spoil system e dall'altro a tacitare la fame che morde lo stomaco di parte della teatralità locale – anche di quella indipendente – privilegiando la possibilità di distribuire un pasto mensile invece che fungere da premessa concreta e da opportunità per affrontare le gravi problematiche – strutturali – che in questi anni hanno ulteriormente acuito il divario di possibilità formative, realizzative e poetiche, tra i teatranti campani e i loro colleghi centro-settentrionali.
Ecco un altro perché – forse il più profondo ed il meno dicibile – per cui il Festival non si è posto l'urgenza di rivolgersi a voi pubblico ma si è accontentato di rivolgersi a noi del settore; ecco perché ha badato alla (ricca e necessaria) sopravvivenza di se stesso prima che all'incontro con l'altro, con gli altri.

Infine.
Non ho speso alcuna parola per lo spettacolo più discutibile che ha offerto il Napoli Teatro Festival Italia e che ha avuto per autori, registi ed interpreti Franco Dragone e Luigi Grispello, la direzione del Festival e la Presidenza della Fondazione. Una recita mortificante, composta di continuo da accenni, accuse reciproche e relative smentite, da detto e non-detto; una recita poco trasparente, spesso autoreferenziale, indegna degli applausi, cui abbiamo assistito per mesi – attraverso le pagine dei giornali – apprendendo, in maniera discutibile e sempre poco nobile, di contratti e relativi compensi, di sedi del Festival conosciute dal suo direttore solo la sera della prima, di case in affitto con letti posizionati nei corridoi, di conflitti d'interesse (quello di Grispello, che detiene il 10% della Srl Sistema Spettacoli, che gestisce alcuni dei teatri che hanno ospitato le opere del Festival) e "bastoni tra le ruote", "calci" e "sgambetti" che – per citare uno dei due contendenti, Franco Dragone – hanno provocato “ritardi, inefficienze, incomprensioni, malumori, dissapori, tensioni e conflitti” che, a tratti, sembrano aver generato addirittura atti organizzativi autolesionistici da parte di chi, invece, avrebbe dovuto favorire e garantire il perfetto svolgimento del Festival. Si tratta di una diatriba che – dopo il CDA riunitosi il 19 luglio, che avrebbe permesso di chiarire “tutte le incomprensioni, esterne e interne” (Lucio d'Alessandro) – si spera sia giunta alla fine.
Perché non la merita Napoli, non la merita la Campania, non la merita il Teatro, non la meritano i suoi lavoratori ed il suo pubblico. 

 

 

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