“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 25 January 2014 00:00

Vita di A.F., scrittore fallito

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Bizzoso, passa il tempo a mormorare sotto voce improperi e offese. Borbotta, mentre osserva, stando leggermente lontano. Guarda fissandosi su un dettaglio, un particolare, poi si concentra sul volto della persona e la scava con gli occhi, come per trovarne i piccoli difetti invisibili. Pare si contorca, pare soffra di un male intestino, pare abbia dentro un grumo marcio, qualcosa di malvagio o maligno, qualcosa che gli prema tra le costole. Torbido, come ossessionato da chi o da che cosa, torturante che si tortura da solo quando non tortura gli altri, colmo d’umor nero, di bile inespressa, di cattiveria pensata e non detta, ostile al mondo ed ostile agli altri, sente su di sé l’ostilità: “Anche fuori, nel caffè o nella trattoria, alla passeggiata, avverto ostilità e l’odio. In trattoria mi fanno pagare salato, e mi servono con piglio brusco, brontolando. L’altra sera scheggiò una voce di beffa e di minaccia assieme, udii il rumore di un sasso che andò a picchiare sul lampione a me vicino. Ho pensato di avvertire la polizia; ma temo che non mi diano ascolto”.

Estraneo, straniero, ovunque fuori posto, mal accettato dalla famiglia (che non ne sopporta il mutismo, il suo perdere tempo, la sua incapacità di attivarsi e di guadagnare), decide di isolarsi ornando l’isolamento con i toni grigi degli abiti, il pallore del volto, la voce greve e severa, i pochi gesti e le lunghe passeggiate, fatte per non tornare a casa. Frasi nette, secche, acuminate, finalizzate a pungere ed a fare male: questo è tutto ciò che concede. Detta una sua verità, abbassa il mento, respira un secondo, torna a mormorare improperi e offese, stando leggermente lontano.

Desidera la morte, desidera sparire come sparisce la polvere, desidera essere dimenticato; desidera cambiare città, luogo di lavoro, colleghi, desidera un nuovo inizio impossibile; desidera essere o apparire diverso, desidera chiudere i conti per riaprirli di nuovo, desidera una forza che non ha, un coraggio che non ha, una coerenza che gli manca; desidera non essere riconosciuto, desidera essere nessuno, desidera essere qualcuno che non è e che non sarà mai; desidera un nuovo nome, desidera un nuovo destino, desidera qualcosa in cui credere o a cui affidarsi, desidera un nuovo desiderio.
Potesse, farebbe strali di tutto il passato con un gesto, uccidendolo con un solo colpo: che vada alla malora il tempo perduto a fare progetti, a coltivare esperienze, ad aspettare occasioni; che vada alla malora il cumulo di illusioni, promesse, di speranze, idee, di pensieri, proponimenti, certezze, di convinzioni; che vada alla malora questo enorme peso, che sente alle spalle, fatto di potenzialità che non ha espresso, di richieste cui non ha risposto adeguatamente, di attese che ha disatteso. Sa che tutti hanno immaginato qualcosa che non ha realizzato: sente l’assenza dell’affermazione di sé, della riconoscibilità, dell’immediatezza del proprio ruolo tra gli altri; sente l’assenza del sesso, della carnalità, del contatto che predispone alla procreazione familiare; sente l’assenza di un lavoro che sia stabile, duraturo, che gli permetta di apparire onorevole; sente l’assenza della soddisfazione, di quel dolce moto dell’animo che si manifesta quando – da soli e in silenzio – si fa esame della propria esistenza.

Di sé dice: “Mi sembra d’aver promesso non so che, ma d’aver promesso e d’aver mancato alla promessa. Qualcosa d’importante, l’essenza della vita; promessa fatta in un tempo indeterminato, forse nell’infanzia, o subito dopo. Qualcosa che mi strugge e rode, e tuttavia non c’è nulla da struggere; è una condizione di sgomento, d’ira convulsa a cui si mischia, temprandola, la pigrizia; la riluttanza e la ripugnanza. Il senso dell’errore mi tormenta, ma io lo prendo per senso di colpa”.
Scorrere le pagine del suo diario – che titolò, di volta in volta, Diario d’un vecchio, Diario d’un fallito scrittore, Inizio e fine della mia carriera letteraria, Come diventai scrittore, Il mio fallimento come scrittore, La liquidazione della vita del compilatore – significa passare in rassegna una lunga sequela di recriminazioni, di fastidi, di accuse.
“Attendo che mi colga una malattia mortale; o che la fine mia venga determinata dai fatti interni. Nel frattempo continuo a vivere in astinenza e in solitudine. Nessun piacere; una inquietudine ora sottile ora violenta; ma io non mi rivolto, non so essere altrimenti, sono avvezzo all’attesa, e a struggermi in silenzio”.
L’incapacità a vivere si tramuta presto e spesso in una lunga sequela di degenerazioni fisiche: “immobilità greve”, “smanie e incubi”, “incapacità di dormire”, “sofferenza al costato”, alle gambe, alle mani e tremore alle dita, “nausea, fortori, l’affanno”, la tosse continua, la paralisi momentanea ad un braccio, l’eccesso “di acido urico”, gli attacchi di stizza, l’ulcera, la gola gonfia, il mal di denti, il fiato cattivo, l’odore fetido alle dita della mano sinistra, i giramenti di testa, il senso di smarrimento, il comportamento sregolato, inquieto, ammorbato, i nervi “pronti a cedere all’improvviso”, l’affanno, l’impaccio cui si aggiunge questa terribile propensione a passare in rassegna piccoli fatti privati, bazzecole che gli altri avranno certamente rimosso ma che – in lui – fungono da tarlo perenne: quella volta in cui non ha detto ciò che avrebbe dovuto; quell’altra in cui avrebbe potuto ma non volle; quella ancora in cui subì sapendo di subire: “La memoria preme e incalza, e mi struggo per fatti lontani”; “Le reminescenze ora sono sbiadite e, in ogni modo, sono sempre le medesime”; “Citazioni e problemi non più attuali, sfocati, che una volta mi tormentavano e di cui mi appassionavo. E i litigi, le violenze, le inimicizie” ora “mi tornano alla mente e non passano”.

Nasce a Palermo, in un casa modesta, in cui le urla e i litigi sono frequenti. L’infanzia, di cui non v’è traccia, ha come lievi momenti le estati trascorse al mare, a Novara di Sicilia.
È uno scolaro timido, riservato, attentissimo; poi è uno studente silenzioso, da ultimo banco nell’angolo, possibilmente da solo. Lo possiamo immaginare – durante l’intervallo – mentre traversa il corridoio del liceo, estraneo alla sua confusione. Lo possiamo immaginare, rimasto nell’aula, mentre tutti sono fuori: osserva l’esterno da una grossa finestra, sbadiglia, attende che riprenda la lezione.
Prende la maturità classica, senza compiere imprese particolari. Scarsi i guizzi, mancanti sono le eccellenze. Un caso scuote la medietà degli eventi: al professore di Educazione Fisica che gli chiede di saltare – quasi con tono da gerarca fascista – oppone il rifiuto, lo sprezzo, le offese. È costretto perciò a cambiare scuola. Si allega, qui, la pagella finale della sua maturità: “Italiano 6; Latino 7; Greco 6; Storia 6; Filosofia 6; Matematica e Fisica 6; Scienze e Chimica 6; Storia dell’Arte 6; Educazione Fisica Sufficiente”.  
All’Università si annoia. Passa il tempo – piuttosto – a spiare le materie che la Giurisprudenza (scelta paterna) non contempla: inglese, francese, spagnolo, letteratura italiana, filologia, filosofia e testi teatrali, raccolte di poesie, romanzi, saggi su narrativa e storia del pensiero sono nascosti tra le pagine del volume di Diritto Civile. Lascia quando ha da lasciare, quando non sopporta più, quando non può più sostenere la farsa e – trasferitosi a Napoli – si laurea all’”Orientale”: facoltà di Lingue, Letterature e Istituzioni Europee. Titolo della tesi: Influsso di L. B. Giraldi Cinzio sul teatro di Shakespeare. Il massimo dei voti. È il 16 novembre 1942 e A.F. ha trentaquattro anni.

È un precario di scuola. Lo è per tutta la vita. Al Regio Liceo Ginnasio “Vittorio Emanuele” di Bisacquino; all’Istituto Tecnico Commerciale “Foderà” di Agrigento; all’Istituto Tecnico Commerciale “Crispi” di Palermo. Un “finto maestro” si definisce, incapace davvero di trasmettere qualcosa a qualcuno. Non fa gruppo coi colleghi: entra nella sala riunioni, poggia il registro alla tavola, si accende una sigaretta; guarda e riguarda chi ha di fronte, mentre fa uscire fumose nuvolette dalle labbra. Gettato il mozzicone, riprende il registro, si volta, scompare. Lo chiamano “L’estraneo”.
Gli alunni non lo seguono: nota, da loro, uno scarso rispetto. L’umore peggiora: “Ogni giorno una predica, un litigio, un insorgimento; o l’ironia, il sarcasmo, la derisione. Non posso più insegnare, l’intolleranza e l’impazienza mi vincono, tradisco ogni momento”. Certe volte gli viene voglia di scherzare, ammattire, d‘impazzire mentre è sulla cattedra, di dimenarsi, sbraitare, fare il giullare correndo tra i banchi e spaventando questi studenti distratti, arruffoni, che vestono male e parlano peggio. Il desiderio gli passa, come gli passa la necessità di raccontarsi a qualcuno, di confessarsi, di condividere. Arriva da solo a scuola – dopo un lungo tragitto di quarantacinque minuti in cui attraversa strade infangate, tra ali di palazzi in via di costruzione ed alte cortine di rumori molesti – e da solo, dopo scuola, se ne torna a casa.

Di lui dirà un amico: “Era, precocemente, un osservatore sagace della vita sociale, della letteratura allora in auge, dei conformismi, delle piccinerie di persone importanti. Però, come tanti altri superintelligenti, non si metteva nei panni delle persone che hanno molti limiti. Perciò, anziché usare indulgenza, disprezzava e talvolta aggrediva verbalmente. I compagni di scuola e gli amici non sempre lo capivano. Qualcuno lo prendeva per uno squilibrato. Purtroppo in lui c’era qualcosa di psichicamente anomalo”.
Di lui dirà la sorella: “Non andava d’accordo con i nostri genitori. Non frequentava una comitiva e stava sempre a casa e, se usciva, andava al cinema. Litigava spesso con mamma e papà, studiava, scriveva; aveva una vita molto eguale, ripetitiva, monotona. Non ha mai detto nulla della sua attività di scrittore”.
Di lui dirà la nipote: “Non è facile dire qualcosa su mio zio perché il nostro rapporto non è mai stato molto profondo sia perché egli era poco espansivo con noi nipoti, sia perché io ne avevo una certa soggezione. Credo che fosse proprio il suo carattere chiuso, non facile e in certi momenti un po’ burbero, ad intimorirmi”.
Di lui dirà la preside di allora: “Timido e introverso, era tutto preso di sé. Non si aveva notizia di lui. Non era un cattivo professore, ma non aveva molta confidenza coi giovani. Una natura chiusa. Viveva una vita interiore e sembrava che tutto il resto, la vita esterna, non lo toccasse minimamente. Schivo e brontolone, viveva come un orso. Contestava, ma con garbo. Normalmente il linguaggio della sua contestazione era il silenzio”.

Passa i pomeriggi interi a scrivere ed a scrivere passa le sere e le notti. Chiuso nella propria stanza, mentre nell’altra i genitori – ormai anziani – russano. D’inverno il freddo batte alla finestra; d’estate l’afa gli riempie la camera. Sopporta e scrive: mese dopo mese, anno dopo anno, un decennio dopo un altro decennio, lui scrive. Sì, ma che scrive? Romanzi e racconti al centro dei quali c’è sempre un uomo fallito, un miserabile, un inetto, una figura senza qualità né mordente. Passa e ripassa una, dieci, venti, quaranta volte su una frase: toglie un aggettivo, muta il verbo, aggiunge un sostantivo, poi toglie il sostantivo, rimette l’aggettivo, muta ancora il verbo, cambia la virgola in un punto, un punto in due punti, i due punti li cancella per rimettere la virgola: “Divento matto con le mie carte”; “A rileggere le mie carte mi piglia la nausea”; “Queste mie carte non valgono nulla”.
Il 10 febbraio del 1962 annota: “Pare che io possa diventare scrittore; Mario, a cui ho spedito manoscritti miei, dà l’annunzio: un critico di fama ha trasmesso i lavori a una Casa Editrice”. Ma non ci crede: indaga sulla casa editrice, ne scopre la fondazione recente, si disillude, crede sia un inganno, un imbroglio, uno scherzo: “Vado facendo ricerche su quella tal casa Editrice; guardo il nome dell’editore nei libri che posseggo; quello della Casa che dovrebbe pubblicare i miei lavori non c’è. Di recente fondazione, senza dubbio; ho domandato anche a un rappresentante librario. Una casetta, un’azienda forse malsicura; il rappresentante non mi disse granché. E io che seguito le ricerche; invano. Che debba pagar tutte le spese? Ma io non ho denaro; la cosa morirà sul nascere”.
Eppure non può fare a meno di questo impegno; scrivere, infatti, gli risparmia l’anima dalla tortura: “Riprendo a lavorare ai manoscritti; non già perché abbia voglie e speranze, ma perché la vita già vissuta mi opprime col suo volume e le sue giravolte labirintiche; e mi tormenta il ricordo dell’energia impiegata, mentre per la vita in atto ne ho poca, io l’ho quasi tutta consumata a distruggere e a distruggermi”.

Finisce per essere, nonostante se stesso, uno scrittore. Bibliografia: Un caso di coscienza (1963); Il supplente (1964); Il lavoratore (1967); L’incarico (1970); Domanda di prestito (1976); L’Erede del Beato (1981).
È uno scrittore ma non lo dice a nessuno. Il fratello lo viene a sapere scorgendone un volume in libreria, mentre la sorella ricorda: “Portava sempre i suoi scritti con lui: forse temeva che qualcuno potesse leggerli”. È uno scrittore: un parere? La sua prosa è grezza, volutamente sporca, per certi versi ostativa e maleducata. A.F. – il cui meglio lo dà forse nei racconti, più brevi e maggiormente compatti – s’allontana dal solito siciliano-barocco-e-baroccheggiante per scrivere con linguaggio aspro, come non rifinito, ispido, a tratti addirittura fastidioso. Provate a leggere una qualsiasi delle pagine di uno qualsiasi dei romanzi di A.F. e dovrete ritornarci per sentirne il vero ritmo, la maniera voluta in cui devono scorrere le parole, il modo in cui l’autore desidera che vengano udite le frasi. Nel mezzo di questa prosa secca, dura, meschina, ruvida e spessa – simile ad un terreno asciutto, non coltivato, abbrustolito dal sole in eccesso – spunta un petalo, una pianta, una decorazione improvvisa, araldica, di vecchio stampo o di nuovo conio: “nasicare”, “stronfiare”, “svigagnare”, “traccheggiare”, “ammammolarsi”, “anfanare”, “attavolati”, “arrangolare”, “barellare”, “codiare”, “dirugginire”, “aburattarsi”, “buccolare”, “ciccaiolo”, “rachettacicche”, “enimmatico”, “catarrare”, “buscherio”.
E poi l’ossessiva coazione a ripetere; l’avvertibile autobiografismo incessante; certe asprezze di tono ed il vizio di farsi scivolare di mano il racconto, rallentandolo per soffermarsi sulla descrizione di uno scorcio, di una sagoma, di un’ombra o – ancora più grave – la propensione a inserire intere tirate filosofiche su Dio e l’Esistenza, sul Creato e la Morte, sulla Virtù e la Beatitudine, tratte da Kant, Locke, Kirkegaard e Sant’Agostino, Nietzsche, Bergson, Schopenauer. E tuttavia…
E tuttavia vince premi, ottiene recensioni approfondite ed il suo nome viene associato – di volta in volta – a quelli di Kafka, Bernanos, Dostoevskij, Cechov, Tolstoj; Tozzi e Pirandello; Musil e Sciascia; Joyce e Gide, Verga, Capuana, Pizzuto, Italo Svevo e Goncarov, Broch, Stendhal e De Roberto, Borghese, Ionesco, Thomas Bernhard. Una giostra vorticosa d’illustri viene fatta volteggiare in gran fretta, per testimoniare – ad un tempo – l’importanza dell’autore e la sua complessa collocabilità letteraria.
Giusto zittirsi, quindi, per lasciare spazio ai molti critici che hanno scommesso sulla qualità letteraria di A.F.

Per Natale Tedesco “con lui abbiamo l’anima metafisica della nostra isola, in cui campeggiano le figure dell’esilio interiore e non più solo fisico: quelle figure con cui la Sicilia continua a descriversi, a dare notizia di sé al mondo”. Per Giorgio Caproni – invece – il  merito suo è di “correre diritto all’oggetto e, quel che più conta, di tenerlo ben fermo al centro dell’azione e dell’attenzione”.
Enzo Siciliano ne sottolinea la bellezza della “sintassi articolata, fratta, giustapposta, sorprendentemente perspicua” mentre Mario Pomilio bada al “coefficiente di anomalia, per non chiamarlo della follia, che si riscontra nella sua prosa”. Per Michele Prisco “egli è uno scrittore in anticipo” rispetto ai suoi tempi e lo è per la capacità d’immettere nella figura del piccolo funzionario o dell’uomo inutile “un grande tormento esistenziale”; Carlo Bo gli riconosce “una straordinaria fedeltà alla sua invenzione”; invece Antonio Pane mette in rilievo che, “della voragine della solitudine, egli fa lo spazio elettivo della sua scrittura, l’oggetto di una solitaria e perigliosa esplorazione, che è poi il vero compito dei suoi personaggi”.
Antonio Di Grado: “Il dramma dei personaggi di A.F. è riassumibile nelle alterne sorti del conflitto fra gli intermittenti complessi di inferiorità e di superiorità che li attanagliano e che, vorticosamente, si scambiano. Fra introversione ed estroversione, fra torva chiusura in sé e delirante apertura al mondo, fra esaltazione dell’Io e annullamento negli altri”.
Leggiamo Giacinto Spagnoletti: “Con lui la serie dei grandi siciliani, famosi oppure occulti, della letteratura moderna, prende un vigore forse superiore a quello dato anche a Tomasi di Lampedusa. È il vero erede di Pirandello. Ogni romanzo da lui scritto finisce per configurarsi come una tappa, talvolta ispida e inquieta, di un allarmato cammino della coscienza”.
Così comincia un suo saggio Silvio Perrella: “Non c’è luce nei suoi racconti. Il buio si sovrappone al buio. Sulla pagina cadono lampi ciechi, metallici come rasoiate caravaggesche. E a volte è come se una mano venisse fuori dalle righe – e dalle immagini che suscitano nella mente di chi legge – e ci spingesse nel fondo più oscuro di noi stessi” per poi continuare: “Scrivere, per lui, era come scorticarsi. Si levava la pelle di dosso, denudava i nervi, il sangue si coagulava nel giro di una frase, per poi tornare a scorrere nell’oscurità fittissima della biologia”.
Conferma Salvatore Ferlita: “Quando si accinge a scrivere, si concentra essenzialmente su se stesso, meglio ancora sul proprio corpo e sulla sua mente abitata da esseri ‘invisibili’, occupata da strani ‘invasori’, nemici potenti che si insinuano tra le pieghe della sua coscienza” mentre Geno Pampaloni (che dopo la morte di A.F. confesserà: “Ero incapace di dirgli: ‘Lei è un grande scrittore, forse un genio’”) – con consueta eleganza esegetica – ne sottolinea il “realismo metafisico, che trascorre dalla più piatta mediocrità quotidiana al fiato misterioso di verità tanto dure quanto inafferrabili”.
Scrive Luigi Compagnone: “Egli prende il riso nel suo senso assoluto, mette la nostra terra e noi a gambe all’aria, tale è il suo tragico humour, e la realtà rovesciata diventa un cielo in cui ogni cosa sta a gambe all’aria, in una strana pantomima da altro mondo ma del tutto simile al nostro, abitato da miriadi di creature venute fuori chissà da dove, che non parlano ma ruminano parole e soliloqui interminabili”.
Scrive Sebastiano Addamo: “Carattere della sua narrativa è di non avere carattere. Ovviamente, ha un proprio codice e una sua struttura linguistica, un particolare e sintomatico uso aggettivale, e una istanza ossessiva e tendenziosa, quasi che il modo dell’esistere sia il parlare. Ma non ha carattere. Dico: nulla da proporre e nessuna scommessa da avanzare, come l’essere dei suoi personaggi sta nel non essere: non vengono da nessuna parte, non vanno in nessun posto. La provvisorietà li connota e li avvinghia. Transitano sempre, sono precari e futili. Sono e possono essere, non hanno necessità e nessuna funzione”.
Scrive Mario Luzi: “La mia impressione, letto il suo primo libro, fu di aver scoperto non uno scrittore occasionale ma proprio uno che deteneva un suo modo di vedere le cose, di rappresentarle, di giudicarle, di scavarle nel loro possibile significato, recondito, segreto, con un puntiglio anche intellettivo e morale, non moralista”.
Chiude Romano Bilenchi: “Io posso dire che quando lo lessi rimasi sbalordito. Lessi le tre opere che ci aveva spedito e dissi a Pampaloni: ‘Questo è il migliore scrittore che c’è in Italia. Non si scappa, un Moravia fa ridere in confronto a lui’. Ne sono certo ancora: è il più grande scrittore del Novecento italiano”.

A.F. assiste a qualche lezione di Tomasi di Lampedusa, stringe la mano a Contini, trascorre una sera con Landolfi; viene premiato da Sciascia e Salvatore Battaglia, scambia qualche breve opinione con Domenico Rea, riceve una pacca sulla spalla da Guido Baldacci, ma non fa parte della storia della Letteratura Italiana. Espulso dalle enciclopedie, assente dalle antologie, negato è il suo nome nelle dissertazioni saggistiche: rarissimi i convegni, mai gli è stato dedicato un corso di studi o una sola lezione universitaria. Ed inoltre.
I libri di A.F. non sono a scaffale. Inutile chiederli al commesso di una libreria di catena. Stazionano in qualche umida rimessa – accatastati ad altre cose vecchie e inutili – o in qualche deposito di volumi avanzati, destinati al macero, alla distruzione, alla riduzione in poltiglia. Rare copie delle sue prime edizioni sono ferme, come naufraghi su di una zattera, nelle confuse e impolverate bancarelle, ai lati di strada: acquirenti distratti – sfiorata la copertina e notato il nome ed il titolo (entrambi sconosciuti) – passano velocemente al libro successivo.
Qualche libreria antiquaria ne ha ancora qualche accidentale residuo, che valuta poco o nulla. Con pochi spiccioli, e con un po’ di pazienza, si può mettere assieme l’opera omnia e tenersela in casa. Occupa poco spazio: meno della metà di una mensola.
I libri di A.F. non hanno mai avuto lettori. Non li hanno avuti negli anni Sessanta, negli anni Settanta, negli anni Ottanta. Non li hanno avuti negli anni Novanta ed in questo nuovo secolo appena arrivato, in cui pure Isbn ha tentato di rilanciare Il supplente, ma senza riscontro.
“Non può avere successo di lettori” – scrive Bilenchi – “perché è difficile, impegna troppo l’animo. Questo suo modo di affrontare la realtà fino allo sgocciolio del sangue dà fastidio, costringe spietatamente alla verità”. “Eppure” – continua – “li troverà, non può non trovarli”.
“Vorrei trovare delle parole” – delicatamente Mario Luzi  scrisse – “per attenuare la sua amarezza, che è stata tanta. Lo vidi come un uomo molto amareggiato e, quasi, in preda al senso della sconfitta. Ecco, io vorrei trovare delle parole per dirgli, se fosse qua, che non è uno sconfitto, che ha avuto delle avversità, delle congiunture negative (il suo stesso carattere, forse, è stata una di queste) che non lo favorivano o forse lo ostacolavano, ma il suo valore resta. E poi… arriveranno anche i lettori. Sì, vorrei proprio trovare le parole per dirgli che la sua vita non è stata vana”.

“Vivo solo, con i miei genitori. Amici non ne ho. Le sole persone che conosco  sono quelle dell’ambiente scolastico, professori, presidi, bidelli, ragazzi… e non sono cordiali con me, forse diffidano del mio carattere chiuso, a volte mordace”.
Abita una casa vecchia, a pochi passi dal mercato di frutta e verdura, da cui proviene un rimbombo costante. Il portone è sbrecciato, non c’è targhetta, arrugginito è il battente. Vasto l’androne, viscide le scale: si scorge, negli angoli, la polvere condensatasi in grumi. In una casa da borghesia declassata o da piccolo proletariato in pensione abita A.F.
La stanza in cui si relega è foderata da una carta da parati a strisce verticali, macchiate d’unto e calore; vi sono: due poltrone, foderate da una stoffa bianca nel centro ed ingiallita alle punte; un mobiletto, di stile indefinibile, sormontato da un putto, di stile indefinibile; al muro una piccola libreria di legno annerito, con qualche volume mal ridotto nella copertina o sul dorso. Una foto di famiglia in cornice, un piccolo tavolino su cui sono poggiati penne e quaderni, tende che fanno penombra; il letto, con sopra una spessa coperta marrone. Completano l’arredamento una serie di ninnoli di pessimo gusto ed una pila di fogli trascritti: probabilmente le opere che non sono state portate più a termine. Qui, come un adolescente cresciuto e in ritardo, è il nido di A.F.; qui scrive da decenni; qui sente di appassire, fin troppo lentamente.
Quest’esistenza dura fino al 1965, anno in cui i suoi genitori muoiono, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Dopo aver tentato la vicinanza alla sorella ed aver girovagato per anni in varie case – sempre più buie, sempre più umide, strette, periferiche – A.F. decide d’isolarsi ulteriormente: prima trascorre alcuni mesi in case per anziani (la Casa di Riposo “Purpura”; il Centro Residenziale per Anziani di Buonagrazia-Montelepre) poi – con un pensionamento di 500.000 lire – si trascina all’Hotel Centrale di Palermo: terzo piano, camera 109.
Vi trascorre gli ultimi anni.
I clienti lo vedono ciondolare al mattino: un pigiama a righe bianche e blu (d’estate), una vestaglia macchiata e bruciacchiata (d’inverno); uno scialle sulla schiena; i capelli vagamente spettinati, lo sguardo spento, le mani che stringono un gruppo di fogli e una penna. Cammina a piccoli passi, lenti: somiglia a uno spettro. Si siede nella hall, allunga le gambe, piega il corpo allo schienale, porta i fogli all’altezza dello sterno o li poggia sull’avambraccio. Legge e scrive, scrive e legge. Di rado esce, trascinando con sé – in un vecchia scatola di cartone – le copie dei libri che ha pubblicato. Consuma il pranzo a una mensa, evitando il caro ristorante dell’Hotel, e ne conserva una parte per la cena. Torna in albergo, dileguandosi in fretta. “Continuo a strappare le cartelle del lavoro durato trenta o quarant’anni; e ogni tanto rileggo un brano, a caso; che a volte mi pare sciatto o puerile. Mi muore ogni speranza ed ogni forma di energia”.
Rifiuta aiuti, interessi, contatti, vaghe possibilità di recupero; rifiuta assistenza, vicinanza, solidarietà. Ad un magistrato che vuole incontrare l’autore di cui ha sentito vagamente parlare risponde: “A.F.? Non lo conosco”. Ad un giornalista che vuole intervistarlo ripete la propria condanna, chiedendo la pietà dell’oblio: “Dovete spiegarmi perché vi siete ricordato di me, che sono uno scrittore dimenticato”.
“Sembra che io abbia fornicato, rubato e fatto distruzioni; in realtà non ho fatto nulla, ma è come avessi fatto tutto. Non nego – no – ma una stanchezza mi opprime. Mi dicono sottile, capzioso, maligno. Io so che a me tocca soffrire di tutto”. I vecchi pensieri ritornano.
I vestiti, sempre più logori; la pelle, macchiata e diafana; le vene calcate sul dorso delle mani; una certa frenesia a rifare il rifatto; certa mancanza di fiato nel salire e scendere dal terzo al piano terra e la vendita dei pochi oggetti-ricordo rimasti; lo spreco della pensione per rimanere in albergo; un senso angoscioso di fallimento che lo visita anche in questo luogo neutro che si è scelto per tana, per giaciglio, per tomba.
Il 12 novembre del 1986 le sue condizioni si aggravano: tossisce, porta una mano al centro del petto, gli manca il fiato, si piega sulle ginocchia poi si accascia: batte con la guancia su un tappeto, colmo di polvere. Trasportato d’urgenza in ospedale, vi muore – di mattina – dopo tre giorni di coma, in seguito a un ictus.
Così finisce la vita di Angelo Fiore, scrittore fallito.

 

 

 

Angelo Fiore
Un caso di coscienza
Milano, Lerici, 1963
pp. 209

 

Angelo Fiore
Il supplente
Firenze, Vallecchi, 1964
pp. 234

 

Angelo Fiore
Il lavoratore
Firenze, Vallecchi, 1967
pp. 200

 

Angelo Fiore
L'incarico
Firenze, Vallecchi, 1970
pp. 195

 

Angelo Fiore
Domanda di prestito
Firenze, Vallecchi, 1976
pp. 204

 

Angelo Fiore
L'erede del Beato
Milano, Rusconi, 1981
pp. 391

 

Angelo Fiore
Diario d'un Vecchio
a cura di Sergio Collura
con prefazione di Geno Pampaloni
Catania, Tifeo, 1989
pp. 262

 

AA.VV.
Un prepotente spirituale. Appendice al Diario d'un Vecchio
a cura di Cesare Cellini
Catania, Tifeo, 1989
pp. 207

 

AA.VV.
Le opere e i giorni di un grande scrittore: Angelo Fiore. Atti del Convegno Nazionale di Studi
a cura del Movimento Giovani per un Nuovo Umanesimo
collaboratori scientifici Sergio Collura, Salvatore Rossi
Catania, Tifeo, 1988
pp. 220

 

Antonio Di Grado
Angelo Fiore
Marina di Patti (ME), Il Pungitopo, 1988
pp. 156

 

Sebastiano Addamo
Angelo Fiore tra precarietà e solitudine
in Oltre le figure
Palermo, Sellerio, 1989
pp. 144; pp. 131-141

 

Natale Tedesco
Angelo Fiore: il dubbio e l'azzardo
in La scala a chiocciola. Scrittura novecentesca in Sicilia
Palermo, Sellerio, 1991
pp. 119; pp. 77-83

 

Silvio Perrella
Introduzione
in Un caso di coscienza e altri racconti
di Angelo Fiore
a cura di Antonio Pane
Messina, Mesogea, 2002
pp. 258; pp. 7-11

 

Salvatore Ferlita
Angelo Fiore e Carmelo Samonà
in I soliti ignoti. Scritti sulla letteratura siciliana sommersa del Novecento
Palermo, Flaccovio, 2005
pp. 142; pp. 75-97

 

Salvatore Ferlita
I novissimi, la Scuola di Palermo, Angelo Fiore
in Sperimentalismo e avanguardia
Palermo, Sellerio, 2008
pp. 275; pp. 66-138

 

 

 

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