“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 31 December 2013 00:00

La disfatta di Stig Dagerman

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Insofferente verso ogni forma di costrizione e di ingiustizia, Stig Dagerman era vicino agli ambienti anarchici, aveva curiosità multiformi e anche la sua produzione riflette la molteplicità dei suoi  interessi: dalla poesia ai testi teatrali, dal romanzo al racconto breve, dal saggio agli scritti apologetici.

I giochi della notte è una raccolta di racconti del 1947.
Storie di solitudini e disperazioni si susseguono ordinate secondo un crescendo: nei primi racconti i protagonisti sono bambini e ragazzi, poi coppie adulte, nell’ultimo c’è un vecchio.
Cosa fanno i bambini per cercare di proteggersi dalle brutture dell’esistenza? Immaginano, si illudono di poter controllare il mondo sforzandosi  di condurre i sogni nella vita.
Così sono I giochi della notte che fa Aeke per cercare di dominare l’angoscia determinata dai pianti e dai singhiozzi della madre e dall’assenza notturna del padre – in quale bar, in quale bettola.
Il padre rientra, e “in cucina l’angoscia è così grande che sarebbe insopportabile senza un’arma, ma alla fine Aeke è talmente stanco di avere così tanta paura che senza opporre resistenza si lascia cadere a capofitto nel sonno”.
E di giorno?
Non resta che la fuga.
Comincia lì, nel grumo dei primi anni di vita, a mettere radice l’albero della tristezza da cui, man mano che la consapevolezza si fa più chiara e più forte, gemmano un senso di estraneità e di disadattamento, e di smisurata solitudine.
Essere poveri aggrava.
In Nevischio e Carne Salata e cetrioli, è il guardare le scarpe bucate a fare la differenza.
E la vergogna.
“Ma il giudice che avevo dentro, che doveva essere più maturo dei miei nove anni, mi disse alla fine che avevo agito da autentico vigliacco: era rubare prendere quello che noi avevamo gettato via?”.
Nei racconti centrali − Lo sconosciuto, Uomini di carattere, Gli implacabili – l’attenzione di Dagerman si pone all’interno delle dinamiche di coppia: gelosia, incomunicabilità, disaffezioni, distanze.
La torre e la fonte è un epilogo, in tutti i sensi: “Si limitava a star lì seduto, ora dopo ora, o magari anche anno luce dopo anno luce, pervaso da una crescente stanchezza. La stanchezza va molto bene, la stanchezza va sempre bene, in particolare quando ci si esercita nell’arte amara di essere prigionieri di se stessi. Anche una grande calma e una certa capacità di mantenersi freddi vanno molto bene, perché l’uomo deve avere i nervi molto saldi per potersi sopportare”.
Dagerman è stato uno scrittore molto apprezzato in patria dal pubblico e dalla critica.
Un successo con il quale lo stesso autore, uomo inquieto, fragile e durissimo soprattutto verso se stesso,  ha dovuto fare i conti: “Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di una ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi. Lascio una situazione economica miserabile, un’attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione. Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe:
'QUI RIPOSA UNO SCRITTORE SVEDESE
CADUTO PER NIENTE
SUA COLPA FU L’INNOCENZA
DIMENTICATELO SPESSO'"
È uno dei quattordici scritti (pubblicati tra il 1947 e il 1950, alcuni postumi) compresi nella raccolta Il viaggiatore.
Nove  i racconti: i personaggi sono gente comune, bambini e nonne, adolescenti, studenti e studenti che non possono più permettersi di esserlo.
La Svezia si sente poco, come nei racconti precedenti, e se non ci fosse qualche nome proprio, si potrebbe dire che la radice storico-geografica non esercita alcun interesse sull’autore.
Ci sono fattorie isolate, o appartamenti in condomini di città anonime e grigie, e poco importa che si tratti di Uppsala o Stoccolma o Vattelapesca. Potrebbero essere campagne o sobborghi di qualunque città occidentale i luoghi dove si consumano piccole e grandi tragedie: bambini colti nel momento della consapevolezza della loro misera esistenza, quasi invisibili (L’auto di Stoccolma), ignorati e snobbati (La sorpresa); adulti travolti da un attimo che peserà per sempre, perché non si può “avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’unico minuto possa essere diverso” (Uccidere un bambino e Una tragedia minore).
Nel racconto La scacchiera da viaggio, uno degli ultimi scritti da Dagerman prima che sopraggiungesse il rifiuto verso le proposte degli editori, un ragazzino gioca con un compagno a scacchi in un aula, e viene colto in flagrante dal professor Lind, del quale “Si sarebbe detto che fosse preparato a tutto: dalla malvagità di cui è piena la storia dell’umanità alla nostra incommensurabile stupidità. Per questo motivo non avevamo paura di lui come degli altri. E lo rispettavamo come non rispettavamo nessuno degli altri. Credo addirittura che sia stato lui il primo ad insegnarci che il rispetto non è la paura, ma il suo opposto.”
Il ragazzino sente di aver deluso il professore, ed è assalito dal senso di colpa e di vergogna.
Ma è un ragazzino, cosa può esserci di punibile o sanzionabile nel giocare a scacchi in un’aula vuota?
In quel racconto, più che in tutti gli altri, si rivela la natura scissa di  Dagerman.
Lo scrittore è l’integerrimo professore ed è il ragazzino: il lato etico e morale, incarnato nel professore, schiaccia e inibisce la fanciullezza,  la leggerezza, e non perdona.
In uno scritto postumo, Stig Dagerman, lo scrittore e l’uomo, dove emergono chiarissimi i conflitti interiori, l’autore così parla di sé, in terza persona: “Per quel che riguarda lo scopo Stig Dagerman non dovrebbe avere dubbi, dato che ha iniziato la sua carriera proprio manifestandolo: descrivere, in una forma congeniale alla propria personalità, l’essere umano nella sua lotta per liberarsi dal bisogno, dalla paura, dalla miseria, dalla bruttezza, dalla stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita”.
E invece ciò che descrive non è la lotta, ma il momento del fallimento, della sconfitta, della perdita, della rottura: l’attimo in cui il peso gravoso del bisogno, della paura, della miseria, della stupidità e dalle convenzioni contrarie alla vita sopraffanno l’uomo, e più in particolare il bambino, l’adolescente, e rivelano l’oceano di sofferenza nel quale, privati del candore dell’innocenza, saranno condannati a vivere.
Il peso che lui stesso non riuscì  a sopportare, e che intatto ci restituiscono i suoi scritti.


 

 

Stig Dagerman
I giochi della notte
(1947)
Iperborea, Milano, 1996
pp. 168

Stig Dagerman
Il viaggiatore
(1983)
Iperborea, Milano, 1991
pp. 140

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