“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 18 May 2013 02:00

"La caduta" di Giovanni Cocco. Una lettura perplessa

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Io ho letto La caduta di Giovanni Cocco perché tutti ne dicono grandi cose – la critica militante pare abbia approvato – e allora sono stato curioso e poi finalmente, in ritardo rispetto gli altri, l’ho letto.
Io dopo aver letto il libro però non sono molto convinto.
Cocco alla prima pagina delle Avvertenze dice che il testo “non ha ambizioni diverse dalla sola per la quale è stato concepito e realizzato: costituire un esempio di postmodern novel in lingua italiana”.
Sulla quarta di copertina Giulio Mozzi cita i nomi di Faulkner, McCarthy e DeLillo anche perché, come accade per la loro opera, “La Caduta altro non è che un romanzo biblico: un romanzo nel quale soffia l’epos che possiamo trovare nella Genesi o nei Profeti” (parole di Mozzi).

Però questi nomi fanno tremare e ci vuole un bel coraggio a ripercorrere la stessa strada pur appartenendo all’Italia dei fatterelli di provincia, delle avventure picaresche dei rappresentanti del terziario e dei precari amati-odiati-ignorati-bistrattati-fanno pena!-mal amati, delle famiglie, delle raccomandazioni, di tutte quelle cose che in Italia fanno discorso e magari fuori dall’Italia non capiscono cosa ci stiamo raccontando, tra di noi, da troppi anni. L’Italia fuori dall’Italia oggi c’è poco, non è più come quando Fellini e Rossellini davano lezioni di cinema, come quando Moravia era considerato precursore dell’esistenzialismo, come quando De Chirico veniva decantato dai surrealisti, e così a ritroso fino all’epos latino. L’Italia oggi è al margine e allora si prova stima a prescindere per il tentativo di Cocco di “sprovincializzare” la nostra letteratura che troppo spesso si autocondanna ed ‘autoreclude’ nei fatti nostri e solo nostri. Ma poi bisogna fare un passo oltre, e magari si scopre che in questo tentativo ci sono ancora dei limiti.
Io ho intravisto in giro tra giornali/riviste web/blog/lit-blog/social tanta ammirazione verso questo romanzo al punto che dicevo tra me e me prima di leggere: “finalmente anche noi abbiamo almeno un Houellebecq o un Javier Marias o un McEwan – insomma ci siamo capiti – uno che il pubblico internazionale può leggere con rispetto e stima e può dire che anche qui qualcosa bolle in pentola e non è sempre ‘la solita zuppa’ per citare Bianciardi il quale suo malgrado oggi, qui, è di moda". E invece io ho letto Cocco e ho avuto conferma che l’Italia non c’è ancora. Ascoltavo Gabriele Frasca, pochi mesi fa, che diceva quello che dicono e pensano molti e cioè che in America con il cinema e l’arte in generale stanno avanti e non si sa perché, e Frasca diceva che è perché lì c’è un connubio tra arte e scienza che invece in Italia non c’è, e allora leggiamo ad esempio Underworld di DeLillo e ci può sovvenire la meccanica quantistica che in fondo basterebbe vedere un anime giapponese, Noein (http://www.youtube.com/watch?v=o4wCKA9wiPg), per accorgersi che meccanica quantistica e teoria dei molti mondi ci sono e sono attuali, ma in Italia non so, semplicità linearità binarismo bipartitismo bene vs. male non se ne esce o se ne esce con affanno. Ma non è che qui non ci si interroga su certe cose, ora sto esagerando, e intanto ho trovato un pezzo sul solito postmoderno e solito ‘new realism’ di Nicola Lagioia che è uno bravo e non lo dico certo io: http://www.minimaetmoralia.it/wp/new-realism-vs-postmodern-delillo-houellebecq-egan-bolano-quattro-modi-per-uscire-dallimpasse-6/.
La Caduta è un romanzo che è una raccolta di racconti la cui cornice è la Bibbia o meglio i cicli pittorici del Quattrocento e del Cinquecento sulla Bibbia. In diverse parti del mondo succedono cose tali da far pensare che stia avvenendo la Caduta dell’Occidente, cose che Cocco estrapola e riadatta dalla storia recente, tipo l’uragano Katrina o le violenze delle banlieu parigine o gli attentati alla metropolitana e all’autobus a Londra o la Grecia affamata o la spazzatura di Napoli che è l’ultimo cliché partorito da questa città la cui maggiore peculiarità pare sia quella di produrre luoghi comuni. Ci sono violenza degrado difficoltà a distinguere tra bene e male fanatismo paura terrore orrore tremore fino all’Apocalissi.
Però la Bibbia di McCarthy è una cosa e quella di Cocco è altra: non saprei spiegare perché ma c’è differenza. Forse è la coercizione a livello di struttura, cui sono costrette le Sacre Scritture collegate ai vari racconti che compongono il romanzo, a rendere l’impressione di una forzatura che non regge bene, ma sulla struttura dice molto meglio Vittorio Giacopini su IlSole24Ore del 24 febbraio (http://www.nutrimenti.net/public/GW031_001.pdf). E invece in McCarthy la Bibbia è a tal punto metabolizzata da non aver bisogno di palesarsi esplicitamente affinché se ne senta, gravissima, la presenza.
Poi c’è questa scrittura di Cocco che non mi convince tanto. Ne leggo grandi cose, la sua freddezza e ritmicità vengono più volte sottolineate, e invece a me pare di no, cioè quando penso alla freddezza e ritmicità di matrice anglosassone lo so non c’entra nulla ma mi vengono in mente subito Fenoglio e quei suoi contemporanei che consegnarono all’Italia alcuni pezzi di letteratura americana. È più forte di me: io leggendo Cocco ho pensato subito a Berardinelli che critica il linguaggio di Pincio e di altri imitatori di letteratura americana postmoderna dicendo
“Di che lingua si tratta? Di un gergo da traduzione semilavorata, che finge un parlato che nessuno parla, un finto inglese mescolato con un finto italiano, che porta la narrazione, quando c’è, in una fantasocietà che idealizza il già fatto e consumato, invece che anticipare un qualche futuro possibile” (La finta America in Italia, 2006, in Non incoraggiate il romanzo).
Voglio dire anche che qualcosa in eccesso, nel bello scrivere, ci scappa, come qui che l’effetto è cercato ma ricercato no:
“La tv mostrava le immagini provenienti in diretta dal Vaticano.
I centoquindici cardinali elettori, disposti su due file, stavano sfilando in processione dall’Aula delle Benedizioni verso la Sala Regia.
La telecamera indugiò sui porporati mentre facevano il loro ingresso nella Cappella Sistina. Su di loro l’attenzione del mondo intero e sopra le loro teste il Giudizio di Michelangelo” (La Caduta, p. 41).
Tutto questo per concludere: ‘bene!’, bene iniziare ad uscire dalla piccola Italia per affacciarci di nuovo alle grandi tematiche universali, bene osare in modo tale che quando traducono l’ultimo Pynchon (la butto lì a caso, magari Pynchon l’hanno tradotto tutto) non ci sentiamo in enorme disagio perché il romanzo postmoderno è ancora qualcosa di fascinosamente estraneo per noi, fascinosamente da fascinum con il sentimento di inferiorità che ne consegue. Ma, detto questo, io ho l’impressione che rispetto ai modelli il pur bel libro di Cocco ne esca come quegli adolescenti cui va data una pacca sulle spalle di incoraggiamento con la speranza che in un futuro, ancora da venire, giunga sospirata la maturità. Io però poi magari mi sbaglio, intanto ad uscir fuori dal coro si prova sempre quel po’ di brivido che ti ripaga, come una forma raffinata di autoerotismo.

 

 

 

 

Giovanni Cocco
La Caduta
Nutrimenti, Roma, 2013
pp. 223

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