“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 20 April 2015 00:00

ART 3.0: AutoRiTratto di Marco Orsucci

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Marco Orsucci si racconta così prima di rispondere alle nostre domande: “Sono nato 'sfollato' nel '44 ad Altopascio da famiglia livornese. Figlio di orafo, probabilmente il mio destino sarebbe stato quello di intraprendere il mestiere di mio padre. La ventura (non posso dire fortuna) è stata quella di realizzare, da giovanissimo, piccole sculture in creta che hanno suscitato un coro di "ma quanto è bravo! Ma come è creativo! Mandiamolo a studiare a Firenze" e mi sono salvato da un istituto per geometri. A Firenze liceo artistico e accademia: al liceo ho avuto la fortuna di incappare in personaggi come Piero Bigongiari e Quinto Ghermandi che Dio solo sa cosa ci facessero lì.

Bigongiari mi ha iniziato alla buona letteratura e Ghermandi, che allora era un mostro sacro dell'arte contemporanea, mi ha fatto capire che arte non era solo quella che si insegnava all'accademia. Finita l'accademia alla scuola di Oscar Gallo, sono stato richiesto come assistente dallo stesso Ghermandi e lì è cominciata la mia storia di insegnante che è durata fino a qualche anno fa. Il mio percorso come artista non era partito male: la Biennale del Fiorino a Firenze, la Biennale del Bronzetto a Padova, varie mostre collettive e personali, un gallerista a Bologna e un paio di critici interessati alla mia produzione. Poi venne la crisi: smisi di produrre e mandai a quel paese critici e gallerista. Naturalmente la reazione di quelle persone che avevano speso energie su di me fu una minaccia: "Non ti ripresentare mai più nell'ambiente dell'arte perché verrai fatto a fette!". Avevo ventisei anni, ora ne ho settanta... posso rischiare.
Comunque, a parte l'arte messa da parte, ho sempre vissuto di scultura; per più di trent'anni ho partecipato alla messa in scena di almeno duecento opere liriche per i teatri di tutto il mondo: Tokio, Parigi, Houston, Madrid, Atene, e in Italia il Comunale di Firenze, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Regio di Torino, il San Carlo di Napoli, La Fenice di Venezia e così via. La continua attività come scultore di teatro ha fatto di me un grande conoscitore dei materiali più disparati e mi ha dato soprattutto la capacità di risolvere i problemi tecnici più difficili.
Nel 2011 ho fatto la mia prima personale a cui sono seguite numerose altre mostre fra collettive e personali”

Quando ti sei accorto di voler essere un artista?
Francamente ho accettato l'idea molto tardi. Ho sempre vissuto di scultura, ma la mattina la insegnavo a scuola, il pomeriggio e spesso anche la sera dopo cena facevo sculture per il teatro; non mi rimaneva molto tempo per produrre arte. Bisogna anche considerare che fino all'inizio di questo secolo la mia produzione era considerata, dai più, un genere ormai obsoleto e da non prendere in considerazione: “Ma scherziamo? Questo fa ancora il figurativo!”. Poi qualcosa è cambiato: si è cominciato a dare un maggior valore alla capacità di usare le mani oltre che la lingua ed è nato un maggior interesse nei confronti del mio modo di lavorare.

Quali sono i passaggi fondamentali della tua evoluzione artistica?
L'essere stato allievo e poi assistente di Quinto Ghermandi e l'Accademia alla scuola di Oscar Gallo mi hanno dato un base tecnica e culturale accettabile, anche se poi col cuore ho seguito più il secondo che il primo.

Hai dei modelli a cui ti sei ispirato e perchè?
I modelli li abbiamo tutti sotto gli occhi continuamente e da sempre: non è possibile stabilire quali e quanti mi abbiano influenzato. Una cosa è certa: sono curioso, e quindi tutto ciò che mi si para davanti e mi procura un'emozione entra dentro e lavora. Noi siamo la somma e il risultato di tutto ciò che vediamo e proviamo.

Cosa pensi del mercato dell'arte, quali sono i limiti e quali le potenzialità?
Ciò che mi sorprende è l'assoluta mancanza di regole che può anche sembrare un limite, ma che lascia delle possibilità anche a chi obiettivamente non ne avrebbe.

Se tu potessi suggerire un'idea per valorizzare gli artisti contemporanei cosa suggeriresti?
Fu Beethoven a ipotizzare una banca dell'arte a cui un artista poteva attingere il necessario per creare in tranquillità. Era naturalmente un'utopia, ma un aiutino da parte delle istituzioni con qualche mostra gratuita sarebbe buona cosa per liberarsi dalla gogna dei galleristi “affittacamere”.

Qual è l'opera tua o di altri a cui sei più legato e perché?

Direi tutta la produzione di Donatello per la facilità con cui risolveva i problemi. Era un artista sereno, sicuro, senza dubbi. Anche Rodin, per i motivi opposti. Per ciò che riguarda la mia produzione è probabilmente il Cristo dell'abbandono nel Santuario di Montenero. È un'opera che ho realizzato in legno all'età di diciannove anni ed è considerata da molti il mio capolavoro; vale a dire che sarei potuto morire a quell'età. Mi diverte il fatto che sia tutto circondato di ex-voto, perchè sembra che faccia miracoli. Se la sapessero tutta...
Un'altra opera a cui sono affezionato è il Pan di Poggio Valicaia, un giovane fauno che nasce da una ceppa di quercia e suona il doppio flauto.

Se potessi scegliere, dove vorresti esporre e perché e in quale periodo dell'anno?
Penso che nessuno risponderebbe in brutte gallerie poco frequentate, quindi nemmeno io. Mi piacerebbe esporre oltre che a Firenze, in altre città della Toscana: Siena, Arezzo, Lucca e − perchè no? − Livorno visto che nemo propheta in patria.

Secondo te si può vivere di arte in Italia?
Solo la Tosca è vissuta d'arte e sappiamo tutti la fine che ha fatto... All'infuori di alcuni mostri sacri, l'arte in Italia può essere solo un secondo mestiere. Per ciò che mi riguarda, la vendita di qualche scultura è servita solo a finanziare la realizzazione di altre sculture e non certo a farmi la villa a Settignano. Ammetto che ho sempre vissuto di scultura, soprattutto come realizzatore scenografo, ma dovendo dimenticare l'arte e basando tutto sul mestiere. Realizzare grandi sculture per il teatro mi ha consentito di sbarcare il lunario, ma ha solo contribuito alla gloria dei vari scenografi per cui le ho realizzate.

Nel processo di crescita e nel tentativo di affermazione e diffusione del proprio lavoro quali sono le difficoltà che, più spesso, incontra un artista?
Lo scarso interesse da parte della maggioranza degli addetti ai lavori se uno non è già più che affermato.

Cosa potrebbe essere migliorato nella comunicazione dell'arte?
La chiarezza, e quando dico chiarezza intendo comprensibilità. Sono annoiato dall'uso di terminologie comprensibili solo a pochi addetti ai lavori. Il critico dovrebbe oltre che criticare e spesso stroncare, far capire il perché di un certo operare, e non mi si venga a parlare della necessità dell'uso di termini tecnici irrinunciabili: il pubblico vuole sopratutto capire e non essere sopraffatto dall'aulicità delle parole usate.

Puoi indicarci un pregio e un difetto della critica d'arte?
Un pregio può essere quello di spiegare all'artista perchè ha fatto determinate scelte, il difetto è che molti critici parlano di te per dimostrare quanto sono bravi a farlo. Il compito di un critico dovrebbe essere quello di far da tramite tra l'artista e il pubblico, ma non succede spesso.

Cosa vorresti che i lettori conoscessero di te e della tua arte?
Gli aspetti migliori, ma non so neanch'io quali siano.

Infine, che domanda vorresti che ti venisse rivolta durante un'intervista?
Quella a cui posso rispondere facendo un figurone.

 

 

 

 

 

ART 3.0 − AutoRiTratto
Marco Orsucci
in collaborazione con Accademia dei Sensi

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