“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Jennifer Poli

La peste come metafora

Premessa
A partire dagli anni ‘30 del secolo scorso, come scrive Susan Sontag, la metafora della peste "era frequente, come sinonimo di catastrofe sociale e psichica. Tali evocazioni procedono di solito di pari passo con gli atteggiamenti conservatori: si pensi, a esempio, a quelle di Artaud sul teatro e sulla peste, e a quelle di Wilhelm Reich sulla 'peste emotiva'".1

Per una scrittura dell'esilio

Il radicamento è forse il bisogno
più importante e più misconosciuto
dell'anima umana.

Simone Weil

 

Parte I

Pensare l'esilio
L'esilio è il luogo della diversità, del contatto con l'Altro per eccellenza. È il luogo di assimilazione dell'altro, in cui l'altro diventa sé e il sé diventa l'altro.

L’apparizione. Memoria di una vita irreale

Era un freddo mattino di gennaio. Le nuvole pallide e gonfie offuscavano il sole, quasi fossero gelose del suo antico splendore.
Alba se ne stava in cucina coi gomiti poggiati sul tavolo e l'aria assorta. Tra le dita affusolate e bianchissime rigirava un ricciolo nero che le pendeva dalla fronte, simile ad un prezioso gioiello orientale.
Una sigaretta fumava silenziosa dal posacenere ed il caffè ormai era freddo, dimenticato.
“A cosa pensi Alba?” le domandò sua madre con un leggero senso di inquietudine.

"Tre croci" di Federigo Tozzi o sull'abitudine alla disperazione

"Giulio chiamò il fratello:
– Niccolò! Dèstati!
Quegli fece una specie di grugnito, bestemmiò, si tirò più giù la tesa del cappello; e richiuse gli occhi".

Questo è l'incipit di Tre croci, un romanzo di Federigo Tozzi scritto in sedici giorni e pubblicato nel 1920. È la storia di tre fratelli: Giulio, Niccolò e Enrico. Tre satelliti che orbitano intorno ad un luogo: una libreria.

Giorni d’esilio

Attraversando un paese sconosciuto
− Dove sono? Cos’è successo?
Anna si bagna con la lingua le labbra secche, con la coda dell’occhio si accorge di perdere sangue da un braccio: lo sente scivolare sulla pelle come un languido serpente scarlatto.
Intorno ci sono strade grigie, anonime. Non un cartello, non un’anima viva.
C’è un silenzio doloroso, quasi come se qualcuno avesse reso muto questo luogo.
In realtà sembra che le case, le strade, i marciapiedi vogliano esplodere, espandersi, rompere la quiete del giorno.
C’è una strana stasi, l’aria è come sospesa, soffoca e trema.

Danza alla rovescia: dramma di un corpo

Qui suis-je, d’où je viens?
Je suis un corps.

Nella sala d’aspetto del Teatro della Contraddizione di Milano osservo l’ambiente circostante: foto, libri e manifesti. All’angolo, una macchinetta del caffè. Sorseggio la mia bevanda calda in tutta tranquillità quando dal telone che apre sul teatro entra in sala un attore vestito di bianco, che si para davanti ai presenti chiedendo loro di imitare un suo gesto; ciò compiuto, dona loro un biglietto con sopra scritta una frase. A me è capitata questa: “Basterebbe una semplice parola senza importanza per essere grande”.
Lo spettacolo si chiama Danza alla rovescia, ideato dal regista Gaddo Bagnoli e interpretato dall’attrice Claudia Franceschetti. La compagnia milanese si chiama “Scimmie nude” e si è costituita nel 2003.

Due voci dell'Ignoto

A Elisa Foti Rossito
che tu possa essere la mia Carrington o la mia Varo.
I confini non hanno più importanza.

 



A proposito di Remedios Varo e Lenora Carrington, due pittrici di epoca surrealista, il poeta messicano Octavio Paz scrive:
"Vi sono in Messico due streghe stregate: non hanno mai ascoltato voci d’elogio o di biasimo, di scuole o di partiti e molte volte hanno riso del padrone senza faccia. Indifferenti alla morale sociale, all’estetica e al prezzo, Leonora Carrington e Remedios Varo attraversano la nostra città con un’aria di indicibile e ineffabile leggerezza. Dove andranno? Dove le chiama l’immaginazione e la passione…".

L’incontro

Marta era sul treno, seduta dalla parte del finestrino, e guardava scorrere i paesaggi davanti ai suoi occhi: tutto sembrava far parte di un grande flusso di luci, colori e forme. Di quel paesaggio in movimento non riusciva a distinguere nulla, la sua mente era simile a quella visione: fulminea e confusa.
L’aria condizionata le faceva ghiacciare le ossa e strofinò le mani sulle spalle, per scaldarle. Erano passate già tre ore e Marta aveva voglia di sgranchirsi le gambe, ma non voleva disturbare l’austero uomo d’affari che, seduto al suo fianco, scriveva freneticamente numeri al computer. “Che vita triste dev’essere la sua", pensò.

“Gli Indifferenti”: un dramma mancato

Gli indifferenti, romanzo d’esordio di Alberto Moravia, viene pubblicato nel 1929 e redatto tra il 1925 e il 1928, quando lo scrittore non era ancora diciottenne.
Egli ne inizia la stesura dopo aver lasciato il sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo, luogo in cui è costretto a letto per due anni, essendosi ammalato di tubercolosi ossea alla tenera età di nove anni.
Solo, durante la convalescenza legge in maniera compulsiva: Dostoevskij, Proust, Kafka, l’Ulisse di Joyce, Una Stagione all’inferno di Rimbaud, Molière, Ariosto, Manzoni, Shakespeare, Dante ed altri. Compone versi in francese e in italiano che definirà “bruttissimi” per poi dedicarsi totalmente alla scrittura in prosa.

La Belle Époque. Da Boldini a De Nittis

Nel 1867 Giovanni Boldini giunge en touriste a Parigi, considerata come un forte polo di attrazione da un gran numero di artisti europei desiderosi di conoscere lo splendore della Ville Lumière. Boldini, come altri artisti italiani − tra i quali ricordiamo De Nittis e Modigliani − rimane folgorato dell’irresistibile charme della città, dai suoi caffè, dalle sue luci serali, dai suoi cabaret − mirabilmente immortalati da Toulouse-Lautrec − dalla sua frenetica ed elegante mondanità.

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