“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 10 January 2017 00:00

Questioni di pelle

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Al ruolo simbolico ed antropologico della pelle è dedicato un interessante saggio breve di Francesco Paolo Campione, Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle (Mucchi editore, 2015), ove viene passata in rassegna una serie di narrazioni che vanno dal mito di Marsia al martirio di San Bartolomeo sino poi ad affrontare, in chiusura, il diffondersi contemporaneo della pratica del tatuaggio.

Il libro di Campione prende il via da un mito basato su antinomie insanabili (bellezza/bruttezza, poësis/téchne, logos/follia): la contesa tra Apollo e Marsia che finisce col costare la pelle a quest'ultimo. Lo studioso sottolinea come attraverso la produzione pittorica tale mito ha finito col tradursi in un “fantasma figurativo” che attraversa la produzione artistica di tutte le epoche. "Più di ogni altra scena, infatti, il mito di Marsia è capace d'indurre un brivido poiché la sua forza simbolica non si è pietrificata nell'episodio archetipico della violenza, nella favola bella della vittoria divina, ma è ritornato di tempo in tempo nella veste mostruosa del martirio cristiano, della punizione spietata, della verità storicamente attestata" (p. 14).
All'origine del racconto, ricorda Campione, vi è la costruzione da parte di Atena dell'aulós, uno strumento capace di riprodurre il grido delle Gorgoni emesso quando Perseo ha decapitato Medusa insieme al sibilo delle serpi. Lo strumento non solo si rivela in grado di attualizzare un grido terrificante in grado di trasmettere un brivido sulla pelle di chi ascolta, ma anche di trasmutare le fattezze di chi lo suona in quelle di un mostro. Nell'aulós è ravvisabile una sorta di "doppio della pelle, una epidermide sonora che aduna – in una specie di sinestesia di correlativi – il ruvido e lo stridulo, il tattile e l'acustico. L'orrore trasmigra così dallo strepitio delle Gorgoni, modulato col digrignare infernale delle loro capigliature anguiformi, al supplizio di Marsia non prima d'essersi incarnato in un oggetto che di entrambi i sensi (il toccare e il sentire) è la crasi perturbante" (p. 18).
La contesa tra Apollo e Marsia deriva dalla speranza del satiro di poter far parte di un mondo che gli è estraneo. Nelle Metamorfosi di Ovidio Marsia, in preda al supplizio dello scorticamento, chiede “perché mi strappi da me stesso?”. È in tale passaggio che, sostiene lo studioso, è racchiuso lo statuto simbolico ed estetico della pelle trasfigurato nelle forme del mito. Nel mito di Ovidio “Marsia è la propria pelle” ed essa sopravvive come entità autonoma fremente al vento ed al suono dello strumento. Dunque, "l'urlo delle Gorgoni è passato all'aulós, e a sua volta questo rivive nella pelle di Marsia come se ne serbasse, al di là della morte, un'anima sensitiva. Marsia sconfitto riacquista la parola solo per urlare, dunque per dare ancora voce al suo strumento e alle sorelle che in esso avevano seguitato il loro angoscioso lamento" (p. 24). Un urlo che non si è spento.
Marsia scuoiato è un essere duplice: da un lato è un uomo anatomico privo di vita e identità e dall'altro una pelle viva. La pelle del satiro viene ad avere un carattere perturbante, segno di un'identità mantenuta oltre l'annientamento del corpo. E se Marsia muore per aver sfidato un dio vendicativo, per certi versi rinasce sotto la pelle del martire cristiano. Sono parecchi i casi in cui l'iconografia cristiana attinge dal repertorio figurativo classico e la continuità tra Marsia e San Bartolomeo è evidente.
Negli affreschi michelangioleschi della Sistina, nel Giudizio Universale, "la ripresa delle rispettive fattezze sensibili da parte delle anime corrisponde a una vera e propria metamorfosi, una trasformazione che in quella visione ultramondana risarcisce i corpi delle loro lacune mortali. San Bartolomeo rinasce perciò sotto un'altra apparenza, eroica, sovrumana, sublime, in un aspetto che ha abbandonato la bruttezza e le debolezze della vita terrena" (p. 34). Secondo Campione la pelle del martire viene a rappresentare una sorta di reliquia di un processo creativo concluso, in linea con la convinzione michelangiolesca di dover liberare la statua dal materiale in eccesso che la contiene. Resto mortale e firma figurata al contempo, il "San Bartolomeo/Michelangelo è un po' come il Socrate/Marsia del Simposio: la sua bellezza deve essere ricercata entro il deforme della sua scorza, e questa deve essere aperta con un atto di fede che tutt'uno col gesto artistico" (p. 35). Nel Giudizio divino la pelle esposta è consegnata al disfacimento affinché la forma originaria possa risorgere in forme nuove ed immutabili; "la soluzione cristiana di Michelangelo eguaglia dunque il dio alla sua vittima: Apollo è divenuto Marsia, e la pelle che ha strappato è la propria" (p. 36).
A questo punto il saggio analizza Lo scorticamento di Marsia (1571-1576) di Tiziano in cui la vicenda mitologica viene utilizzata dall'artista tanto come variazione sul tema della melanconia come condizione dell'ispirazione, quanto come rimando al supplizio di Marcantonio Bragadin scuoiato vivo dagli ottomani proprio nel 1571. A proposito del capolavoro del cadorino, lo studioso sottolinea come in esso abbia luogo una traslazione simbolica dalla materia del mito a quella pittorica a partire dalle modalità esecutive che vedono il pennello di Tiziano scorticare la materia coloristica e la superficie della tela in modo che le figure perdano i contorni corporei e la loro “epidermide cromatica”.
Il mito di Marsia ed il martirio di San Bartolomeo tornano in numerose opere pittoriche, il saggio si sofferma su alcuni dipinti dello Spagnoletto, di Ribera e de siciliano Pietro Novelli. Il ruolo di Marsia in epoca rinascimentale e, soprattutto, barocca diviene metafora "dell'artista che rivendica la propria parte di creatore di realtà, anche a costo del sacrifico di sé. Ma se lo scorticamento equivale a una messa in scena della propria pelle, esposta nella sostanza cromatica della pittura, è evidente che saranno differenti i meccanismi simbolici che sovraintendono a questa proiezione nell'ambito della scultura" (p. 44). A questo punto lo studioso indagata le specificità della scultura passando in rassegna in particolare il pensiero di Winckelmann, Herder ed Edmund Bruke. La dimensione tattile inizia a rivendicare un ruolo importante nell'ambito estetico ed alla “scoperta del toccare”, sostiene Campione, un ruolo primario spetta proprio alla figura di San Bartolomeo.
La parte finale del saggio è dedicata alla pelle di Marat, figura di primo piano della Rivoluzione francese affetta da una malattia all'epidermide, una sorta di eczema erpetico provocante prurito e piaghe purulente su tutto il corpo. L'assassinio a tradimento del rivoluzionario proprio mentre si trova all'interno di una vasca per uno degli infiniti bagni lenitivi a cui è costretto, insieme al celebre dipinto di David trasformano Marat in una sorta di Cristo laico che espone un corpo dalla pelle marmorea da cui sono sparite le piaghe. Nel saggio si ricorda come già Baudelaire individui l'abilità del dipinto di trasformare Marat da una sorta di Marsia scorticato in un Apollo.
Nel saggio si individua nel dipinto di David una curiosa consonanza con il film La pelle che abito (2011) di Pedro Almodóvar. In entrambi i casi "il risultato è infatti un'opera di ricostruzione in status quo delle fattezze di qualcuno: un atto, a tutti gli effetti, estetico" (p. 67). Nel film il dottor Ledgard intende restituire la pelle integra a qualcuno che l'ha perduta e dopo un intrecciarsi complesso di personaggi ed identità, come "in un totale rovesciamento del mito di Marsia è Ledgard a soccombere, ucciso da chi – ricevendo una nuova cute indistruttibile – non ha però perduto la propria identità" (p. 68).
Nell'ultima parte del volume l'autore passa in rassegna alcune produzioni di artisti come Piero Manzoni (le firme tracciate sulla pelle delle modelle e le impronte impresse dalla pelle delle dita sulle Uova), Yves Klein (le Anthropométries in cui le modelle lasciano una traccia del proprio corpo imbrattato di colore sulla tela) ed alcuni celebri esponenti della Body Art come Rudolf Schwarzkogler, Gina Pane, Vito Acconci, Marina Abramović, Stelarc ed Orlan.
Se la pelle è sempre più spesso luogo di consumo estetico, il tatuaggio "è probabilmente l'usanza corporea che più estesamente dimostra non solo la forza del relativismo estetico, ma – di più – l'assunzione nella vita comune delle pratiche artistiche, anche da parte di chi poco o nulla intende della creatività o di astratte questioni filosofiche" (p. 76).
Mentre nelle culture antiche ed extra-occidentali il tatuaggio ha probabilmente a che fare con ambiti magico-rituali, nella cultura occidentale per secoli è stato visto come segno distintivo di emarginati e criminali. Dalla fine dell'Ottocento poi, ricorda Campione, il tatuaggio è affrontato dagli studiosi soltanto nell'ambito dell'antropologia criminale, mentre nei primi del Novecento viene visto come poco più di un “fenomeno da baraccone”. In Occidente la trasformazione del tatuaggio da marchio di sottocultura ad oggetto di consumo estetico viene individuata dallo studioso nella messa in discussione degli imperativi estetici e morali in atto tra anni Sessanta e Settanta del Novecento. In epoca più recente il tatuaggio si è trasformato da segno distintivo di esclusione sociale a marca di omologazione.
Non mancano casi in cui il tatuaggio rinuncia a velleità estetiche “migliorative” (pur tenendo presente tutta la variabilità e transitorietà a cui è sottoposto il concetto di bellezza) per volgersi piuttosto ad una sorta di ”estetica della morte”, forse lontana parente delle Vanitas barocche. "Nel tatuaggio l'arte ha abbandonato l'imperativo della bellezza, ma alla pelle ha donato nuovi sensi talora inestricabilmente arcani" (p. 82).
La pelle rappresenta la veste del vivente e si può dire che su di essa si è sviluppata, nel corso dei secoli, un'estetica capace di rendere conto di diversi aspetti relativi al presentarsi al mondo dell'essere umano. In diverse narrazioni la privazione dell'epidermide rappresenta la perdita dell'identità ma in alcune di esse la pelle può anche vivere un'esistenza autonoma rispetto al corpo che ricopriva o, in alcuni casi, può persino tornare a ricoprire il corpo conferendogli un nuovo aspetto. Dunque, spogliarsi della pelle può anche preannunciare simbolicamente una risurrezione che porta ad una nuova vita.

 

 

 

 

Francesco Paolo Campione
Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle

Mucchi editore – Modena, 2015
pp. 126

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