“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Luigi Paolillo

Te piace L'elisir d'amore?

"Te piace 'o presepe?". La domanda tormentone di Luca Cupiello mi perseguita da iersera, dopo la visione di questo Elisir d'amore qui a Napoli, al Teatro di San Carlo, che la collaudata regia (è del 2003) di Riccardo Canessa trapianta in un presepe napoletano classico, col suo fondale di tela dipinta con la luna rossa, l'osteria attaccata alla roccia di sughero, l'arco romano in rovina e tutto il corredo napoletan-popolare che addicesi alla bisogna, insieme rabberciato di luoghi comuni e personaggi pittoreschi e stereotipi vari. Così, forte mi prende la voglia di risponder di no, come quello sciagurato di Nennillo, e per le sue stesse ottime ragioni: "Nun me piace 'o presepe!", perlomeno non questo presepe, che in pieno tradisce l'essenza stessa dell'opera.

Il cielo sopra "Pagliacci"

Canio è solo, al centro della scena, come sempre, nel cuore tormentoso di Pagliacci. Tu se' Pagliaccio!, e l'aria troppo famosa – come d'uso – s'innalza e forza il cuore e l'emozione. Per una volta, tuttavia, non indossa la povera gabbana d'istrione, ma un candido gilet: ha appena smesso infatti il frac, che dei lirici cantanti è tuttora alt'uniforme. E a terra scalcia per rabbia e per diletto – pare – e solleva spruzzi d'acqua: perché l'impiantito del palcoscenico è ormai una pozza d'acqua – son lacrime di dolore, spiega il regista – in questa visionaria e fantasiosa messa in scena firmata Daniele Finzi Pasca che al San Carlo (ri)approda con l'opera di Leoncavallo dopo il clamoroso successo estivo di qualche anno fa. Così Vesti la giubba s'appropria d'inedito costume astratto e surreale sul fondo rigorosamente nero che sul finire s'arrossa e trasmuta l'acqua in sangue.

Lo straziato paese del Moro di Venezia

Ovviamente non è scelta a caso la tela che chiude la vista dello spettatore all'inizio dell'opera: col Giardino delle delizie Bosch raffigura un mondo – brulicante d'uomini e animali – al di là dei confini dello spazio e del tempo e del bene e del male: non è, il Giardino, il Paradiso perduto a causa del peccato di cui parlano le scritture cristiane, paradigma e modello d'ultraterrena felicità. È, invece, finzione narrativa, astratto pensiero di mai raggiunta felicità: così, l'idea d'effimera costruzione umana viene rafforzata dal gesto di Jago che strappa con un urlo il velo dipinto – come in Maugham fragile schermo d'illusione fatto di nulla e di nebbia – a dar inizio alla tempesta dei cuori. In verità, il particolare del Giardino raffigurato è la Torre dell'adulterio, e anche questo particolare può dar conto della misura insieme corposa e ironica della chiave di lettura adottata.

Lezione di violino

Uto Ughi. Un mito che resiste fin dalla giovinezza: sinonimo di musicista serio famoso talentuoso. Assistere ad una sua lezione-concerto credo sia – per molti aspetti – esperienza che ognuno dovrebbe fare almeno una volta nella vita, come il morbillo. E non scherzo.

Traviata suare

Certo, le premesse erano buone: per questa Traviata al Petruzzelli – già presentata al mio bel San Carlo l'anno scorso – era lecito ben sperare, tutto sommato. Ferzan Özpetek – il regista turco che da tempo già lavora nella nostrana fabbrica del cinema – si cimentava con quest'opera che – diceva – tanto lo ispirava: gli ricordava, il personaggio, infatti – lui affermava – Laura Antonelli nel pien del suo splendore e dei giorni suoi dorati. Ed effettivamente, a vedere adesso l'allestimento confezionato – il prodotto finale, diremmo – una qualche somiglianza tra la Violetta nel nero abito da sera del second'atto, vittima dell'alfrediano disprezzo e la Laura del viscontiano Innocente, strapazzata dal Giannini/Tullio, sì, a guardar bene c'è... Ma questo ricordo altri echi si portava inevitabilmente appresso, in lunga catena, altrettanto – se non di più – fecondi: Luchino Visconti, maestro del cinema, certo, ma pure regista indiscusso innovatore e geniale di tanto teatro d'opera, consentiva di porsi indubbiamente sulla strada giusta; L'innocente, poi, estrema creatura di cotanto Maestro, tirava dentro la partita il divino Gabriele, nientemeno, che – si sa – Parigi, cocottes ed esangui pallide femme fatales ha sempre frequentato, dal vero e in fantasia.

Tragedia in blu

Jasmine ha gli occhi blu come il freddo cielo d'inverno, aperti sul vuoto dei suoi pensieri mentre ripete tra sé frasi spezzate, riferimenti a una vita ormai aliena e distante. Chiunque la incontri – non si può sbagliare – ne avrà l'impressione contrastante di donna raffinata ormai in deriva emotiva: aveva un marito, Jasmine, ricco e affascinante, che ogni suo desiderio inverava: lei lo sapeva – sì lo sapeva anche se civettuola altrove guardava – che tutti quei soldi non erano trasparenti, limpidi come i suoi occhi blu, ma a lei non importava, perché quei soldi si trasformavano in vestiti, viaggi, feste... ogni tanto, ancor oggi che lui s'è impiccato in galera, ancor oggi tornano i ricordi, a brandelli, e prima quelli belli, dorati e fragili, poi quelli brutti sempre più cupi, sempre più neri.

L'insostenibile leggerezza dell'acqua

Si muove sulla scena, Tat'jana, e canta i turbamenti del suo primo scoprirsi innamorata, sotto una gelida oscurità da cui piovono cenni di betulle spaesate, a mo' d'arboree stalattiti. In fondo e a destra e a sinistra, grandi spazi neri – di sicuro in virtù di qualche speciale incantesimo silvano – mostran le parole le frasi i pensieri che in questa magica notte s'accavallano si rincorrono s'accartocciano e infine trovano compiutezza e pace nella lettera che Tat'jana scrive a Colui – nemmeno riesce a dirne il nome – che primo ha svegliato in lei inconoscibili passioni.

Orso d'Oro allo scorso Festival di Berlino: "Il caso Kerenes"

Ritratto di famiglia in un interno – un claustrofobico violento volgare interno – è questo rumeno Il caso Kerenes di Calin Peter Netzer, meritato Orso d'Oro al Festival di Berlino dell’anno scorso. Appartiene all'alta classe rumena contemporanea, la famiglia Kerenes, composta di medici, architetti, sceneggiatori, uomini e donne (ancora) di potere nella Romania di oggi che continua a confrontarsi, come irrisolto trauma della crescita – come distopico parto (cui allude probabilmente il titolo originale Pozitia Copilului, che potremmo tradurre "presentazione fetale") – con i fantasmi di un passato che non si nomina mai, cui non si fa mai allusione, che in apparenza potrebbe perfino non esser mai esistito, ma che ritorna persiste imbeve di sé situazioni vicende sentimenti, il passato del potere impassibilmente crudele e amorevolmente feroce di Ceaușescu.

Falstaff o del Novecento, secondo Ronconi

Un sipario bianco sporco. La quarta parete chiude alla nostra vista lo spettacolo che sarà; al di là − lo scopriamo nel momento stesso in cui il muro virtuale di alza, alle prime note dell'orchestra − le rimanenti tre pareti che delimitano la stanza del teatro, anch'esse lenzuoli bianchi macchiati dall'umidità, dalle muffe, dal tempo. In alto un altro telo funge da soffitto.

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il Pickwick

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