“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Piccione

Angeli e spettatori

Quanto è grande il cielo sopra Kibera. Se si ha il coraggio di alzare la testa, nonostante il caldo, la spazzatura e le macchine veloci, si vede quanto è grande. E che cosa promette. Marco Martinelli la chiama “fame di luce” e dice che è sempre la stessa cosa, ovunque e in ogni tempo. Eppure oggi, qui, diventa dirompente. Che cosa significa fame a Kibera. Che cosa significa luce. Lo sguardo di Martinelli ci prende per mano e ce lo mostra, novello Virgilio è la sua macchina da presa.

Dove le parole cominciano

“È lo spettacolo più bello del mondo, mamma, il più bello il più bello”. Una bambina saltella nel foyer dopo i settantacinque minuti di danza e racconto de La mia vita d’artista.  “Allora anch’io posso fare tante cose” aggiunge emozionata, articolando le parole in modo un po’ stentato. Carla Fracci le passa accanto, come una piccola nuvola bianca, e le sorride uscendo dal teatro defilata, senza preoccuparsi di esser riconosciuta.

Sei tu il monte, il verme e anche la farfalla

Che cosa c’è fra l’inferno e il paradiso? Appare immensa la vastità che separa la condanna dalla salvezza: è difficile immaginare le atmosfere nascoste fra i versi del Purgatorio, i colori possibili, i profumi e i volti di questa terra di mezzo. La messa in vita della seconda cantica dantesca è una sfida scenica molto complessa, che Marco Martinelli e Ermanna Montanari hanno portato avanti con rara maestria, offrendo agli spettatori davvero una mirabile visione − visione che non è pura contemplazione, ma partecipazione vivente al coro e al cammino, perché la salita al monte c’è davvero, e ciascuno la percorre con le proprie gambe e con la propria voce. Incanto del teatro vivo, teatro che si fa qui e ora, gioco che ognuno può giocare, sacro e felice.

Il posto del re

L’Avaro è uno spettacolo aperto, in tutti i modi in cui si può aprire il teatro. La scena è esposta sin da principio agli spettatori che prendono posto in platea: al centro, si staglia il profilo di un teatrino in legno, con colonne vuote e in alto la scritta “théâtre français”, sotto la quale cade un sipario rosso circondato da una collana di lucine gialle. È un teatrino mobile, che nel corso dello spettacolo ruota creando linee d’azione possibili.

Una risata vi seppellirà

Siamo abituati a pensare allo straniero come a colui che sta al di là confini, che tenta di superarli o che ci guarda ostile dalla torre nemica. Non si parla d’altro, oramai, che di quest’entità fittizia, lo straniero, come colui che viene da fuori e contro, come un’alterità pericolosa per la vita. Non si capisce che in fondo è di questo che si tratta, sempre, della vita, del tentativo di tenersi in vita, in un modo o nell’altro. Non si capisce che in fondo si tratta di sfidare la morte, che è l’unica vera alterità, estraneità da capogiro che ci aspetta, tutti, al confine.

Per far crescere peschi e ciliegi

La storia. Una storia di eroismo quotidiano, il più difficile, le cui gesta si svolgono nella piazza centrale di una piccola città, nell’ufficio del sindaco, sull’argine di un fiume. Una storia che ricorda la cronaca, ma affrancandola dalla tristezza, scovando la poesia dentro la prosa. Un eroismo dell’al di qua. Umanissima fierezza fragile.
Il corpo. I corpi di tutti sono il corpo di lei, come dell’assoluto. Dove l’assoluto passa negli occhi accesi e nella sottile muscolatura affettiva dell’anatomia. È questo tremare, la mistica, la vita che lavora alla sua trasfigurazione, la carne e il divino. L’assoluto nell’organico, dentro ogni gesto di Ermanna Montanari, un corpo dell’al di là − attualità dell’ossimoro.
Il lavoro. Il lavoro del teatro, forma raffinatissima della scena delle Albe, che con ritmo perfetto si fa e si disfa davanti ai nostri occhi. La trasparenza dei cambi di scena è artigianato esposto: vedi il martello che batte sul ferro incandescente, vedi come sposto questo tavolo. Ti racconto il modo di raccontarti.

Non si smette più di guardare

Ad un certo punto dello sguardo, sarà come avere una telecamera negli occhi. Ho questo compito, questo gioco: dall’istante in cui mi volterò, diventerò una cinepresa. Libera di girare il mio film, che sarà quello che voglio e sarà solo per me. Provo ad abituarmi a quest’idea, che i miei occhi saranno una macchina da presa, provo ad immaginare che cosa potranno prendere dal mondo. Ma non faccio in tempo a figurarmelo, che già mi devo voltare. Comincia. Mi giro e si gira.

Trasumanar di passi e di poesia

Dai libri di scuola alle strade della città, si risveglia la Commedia. Scartandosi un poco dalla lettura cui siamo abituati, con annessa parafrasi e lettura allegorica, i versi trovano sapore nuovo nei cori di settecento voci di cittadini – cittadini davvero, perché si ridiventa polis cantando Dante per le vie di Ravenna. Le Albe mettono in vita l’Inferno dantesco come evento intrinsecamente teatrale. È forse la sfida più grande dell’arte contemporanea: cantare un capolavoro della lingua, rivestire di immagini sceniche un capolavoro della letteratura, comporre un teatron, ossia una visione, la “mirabile visione” dantesca. Inferno 2017Purgatorio 2019Paradiso 2021. Facendosi carico di questa opera-mondo, selezionando e montando luoghi e figure, le Albe si propongono, con un progetto che si sviluppa nell’arco di oltre cinque anni, di riportare in vita una grandezza del passato facendola risuonare in un’esperienza presente, con la convinzione che il senso sia sempre futuro, a venire. Magari fra sette secoli ancora. Perché “c’è una verità più grande del vero” e non si può far altro che svuotarsi per raccoglierla, come profezia che è già da sempre nell’opera.

Onde dentro onde

Come si muove il mare, quando va e viene, con ritmo continuo, come fanno le onde a scandire un movimento che è un ritmo, battere e levare. Così, ripetendo il moto del mare, sul palco di Mari c’è una donna che fa per uscire di scena, e poi rientra sempre. Così, un uomo fa la terraferma, immobile, svolge e riavvolge il filo da pesca, la sua tela di Penelope forte e trasparente.

Per la stessa ragione del grido

C’è un teatro che nasce da un’urgenza. Germoglia perché è necessario, è stato seminato dal mondo ed è il mondo a chiamarlo in vita (non in scena). Da quarant’anni le Albe cavalcano l’onda di una necessità, onda lunga che li ha portati oggi alla soglia di Maryam.
In questi tempi consumati dalla paura del diverso, le Albe danno voce a tre madri musulmane devote a Maria. Le tre preghiere, che sono lamenti e maledizioni e urla sommesse, rappresentano un punto d’incontro paradossale fra due culture, cristiana e islamica, perse a farsi la guerra e dimentiche delle loro radici comuni.

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il Pickwick

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