“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Paola Spedaliere

Una mano di stucco

Nella nona edizione del 1979 del secondo volume de La Cantata dei giorni dispari, Eduardo De Filippo aggiunse il testo Dolore sotto chiave scritto per la radio nel 1958 e andato in onda con la voce dello stesso autore e della sorella Titina, poi affidato alle scene in anni successivi a Franco Parenti e Regina Bianchi ed anche a Luca De Filippo e Angelica Ippolito.
In questa messa in scena il regista Francesco Saponaro, dopo aver revisionato il testo, ha affidato il ruolo di Rocco Capasso a Tony Laudadio e quello della sorella Lucia a Luciano Saltarelli, continuando un lavoro sui testi di Eduardo De Filippo iniziato con la pièce in spagnolo Yo, el Heredero (Io, l’erede) per il Napoli Teatro Festival della passata stagione.

La ricerca della felicità nelle emoticon

Nel buio totale si sentono suoni di passi. Una luce bianca forte illumina poi il protagonista in camicia bianca e pantalone nero. La luce si allarga sull’assito e si vedono poggiati a terra un bicchiere di latte a sinistra, in fondo una rosa rossa. Vicino ad un leggio vuoto sulla destra, in avanti, c’è il lungo filo di una webcam. Tutto poggia a terra, dove i piedi di Luca Trezza non stanno mai fermi. Il leggio, la rosa, il bicchiere di latte sono i vertici di un poligono entro cui si svolge l’azione scenica e allo stesso tempo oggettivizzano i pensieri misti a ricordi che si affollano parossisticamente nella mente del protagonista.

Disposto a tutto, quasi

La sala del Teatro del Centro Sociale di Pagani per la rassegna Scenari pagani è piena. Il palcoscenico, invece, è vuoto ad eccezione di una sedia giusto al centro ed un piccolo tavolino a margine coperto da una tovaglia rossa con una bottiglia che non farà parte della scena. Da un’uscita laterale della platea, César Brie in abito grigio Principe di Galles, cravatta lilla e fazzoletto nel taschino dello stesso colore, avanza ciondolante a ritmo di jazz verso il palco. Sorride sornione dando subito voce al protagonista, Ciccio Méndez che si presenta raccontando le sue difficoltà a dimagrire.

Tre Madame Bovary

Čechov quando scrisse le Tre sorelle nel 1900 non aveva in mente un dramma, ma considerava il suo testo addirittura una farsa giocata sul confine sottile tra aspettative e realtà. Stanislavskij ci dà testimonianza della delusione dell’autore nel veder rappresentato il suo testo al Teatro dell’Arte di Mosca come una tragedia. In effetti, anche in questo allestimento di Claudio Di Palma, più dell’ironia di certe battute e di alcune situazioni in cui si trovano i personaggi, si coglie l’angosciante “sentimento del contrario” pirandelliano, complice, probabilmente, anche l’allestimento scenico dai toni cupi e dagli arabeschi curvilinei che rimandano a spire inconsce e dal taglio delle luci precise che spaccano di netto il buio.

La fragilità cristallina di un interno familiare

Tennessee Williams definì Lo zoo di vetro “un dramma della memoria”, inteso nella duplice lettura realistica della descrizione dei rapporti tra i personaggi e nella dimensione onirica della rappresentazione del tempo della storia. In scena, con la regia di Arturo Cirillo, non solo si è assistito al dramma della memoria, ma alla tragica celebrazione dell’assenza e del vuoto, inteso come una potente carenza affettiva che dilaga dal microcosmo familiare alla società e all’analisi esistenziale. Cirillo, infatti, sceglie una messa in scena calcolata per sottrazione degli elementi scenici, pochi e simbolici, per lasciare spazio alla potenza espressiva del testo, ai dialoghi, ai movimenti, alle entrate ed uscite di scena che si leggono come ingressi ed uscite dal ricordo.

Scarpe da gettare

Nei Paesi anglofoni si traduce il nostro motto “mettersi nei panni degli altri” con “indossa le mie scarpe”, cioè fai il mio cammino, guarda il mondo dal mio punto di vista. La pièce Scarpe di Mizan – Traversata sulla fuga e altri fossi è la storia dell’albanese, forse slavo, Mizan che ha vent’anni e il sogno comune a tutti quelli che fuggono dalle loro miserie per inseguire il miraggio dell’Europa e del benessere. Vi sono pochi elementi sulla scena che simboleggiano il passato del giovane, a sinistra un piccolo canotto che poggia su un materassino rosso sangue, a destra c’è un manichino con pantaloni e giubbottino che è sdraiato su degli pneumatici, con una mano tesa verso l’alto.

Fumo e fantasmi

È il 1939 sul palcoscenico. Due pezzi di alto reticolato spinato si trovano sui due lati, su uno di essi vi è una divisa a righe di un colore scuro sbiadito, a sinistra sono poggiate una sull’altra una serie di valigie. Un tedesco in divisa nazista accoglie l’arrivo di tre ebrei, due uomini e una donna, con la loro valigia e l’aria smarrita. La macchina del fumo sul palco funzionerà per tutta la durata dello spettacolo creando un’atmosfera tra il surreale e l’onirico producendo effetti inquietanti con il taglio delle lame di luce che partono dal basso verso l’alto proprio ai due lati del proscenio.

Un omaggio in parole e note

Il vasto palco del Teatro Delle Palme accoglie un pianoforte sulla sinistra e un leggìo sulla destra, pochi metri dietro il quale, vi è un tavolino con dei fiori, una sedia e una chitarra in attesa. La musica inizia in sincrono con l’apertura del sipario, grazie al Maestro Ciro Cascino, che accompagna l’ingresso di Isa Danieli: lei, in abito nero dagli spacchi rossi e la sua splendida, inconfondibile corona di capelli canuti. Non appena intona Chi tene ‘o mare di Pino Daniele le note diventano riconoscibilissime e commosse.

Parata di paradossale umanità

Il piccolo palcoscenico del Centro Teatro Spazio di San Giorgio a Cremano e il sipario verde, che si apre e si chiude cinque volte per raccontare altrettante storie apparentemente ordinarie, sono il microcosmo di Human Parade n.1 di Antonio Iavazzo.
Il nome della performance è indicativo di ciò che verrà mostrato sul palco, cioè una parata, una breve carrellata di tipi umani che nell’arco di una scena presentano il loro mondo e i loro abissi esistenziali: le prime due storie, infatti, riflettono questo assunto.

L'Amore emarginato

Al centro dell’assito, verso il fondale dove pende un drappo bianco, vi è un altare verosimilmente in pietra, sbrecciato, consunto, abbandonato. Più avanti, nel nero della sala, spiccano due piccole panche affiancate in orizzontale e delle lenzuola bianche a terra, messe a semicerchio a delimitare questi tre oggetti che costruiscono il mondo segreto di Tommaso e Pietro, due giovani malavitosi che compaiono sulla scena dopo un prologo composto da una scena in cui un cantante dalle mani dipinte di blu, accompagnandosi con una tammorra, intona una melodia napoletana e una seconda scena che vede l’ingresso di una donna in sottoveste nera, a piedi nudi con le mani sporche di sangue.

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il Pickwick

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