“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Un ibrido Mozart

Nel cuore di Castellammare di Stabia esiste uno spazio teatrale chiamato CAT. Quarantacinque anni di attività alle spalle, per un teatro che raccoglie l’eredità di Italo Celoro, attore di cinema e teatro che del CAT è stato direttore artistico dal 1991 fino ai suoi ultimi giorni. In scena, in una domenica di gennaio, c’è Amadeus… genio e delitto, partitura teatrale che s’ibrida con la performance musicale, dando luogo ad una forma scenica composita, in cui teatro e musica si combinano e si amalgamano per tratteggiare, in maniera quasi espressionistica, la figura di Wolfgang Amadeus Mozart, nel cui cono d’ombra vive di riflesso il personaggio di Antonio Salieri.

Dove abitano i ricordi?

Dove abitano i ricordi? In quali stanze sopravvivono le memorie? In quali meandri tortuosi si snodano i vissuti? In angoli, cassetti, sgabuzzini, spazi riposti e reconditi della mente, giacciono e sedimentano ad un livello più o meno conscio, patrimoni esistenziali che compongono il corredo genetico di ciò che siamo, sintagmi del nostro divenire, mappature dei nostri precordi.

Solitudini in un interno

Due solitudini indotte alla reciproca e coatta compagnia; due solitudini di donna, differenti per ceto ed estrazione, accomunate da un legame di parentela acquisito – sono consuocere – abitano uno stesso interno portato in ribalta; lo abitano per volontà congiunta, che s’intuisce venata d’egoismo dei rispettivi figlioli, convolati a nozze e determinati a lasciare che le rispettive attempate genitrici si facciano “buona compagnia”, incuranti delle evidenti incompatibilità che sussistono fra le due, Cibele e Serena.

Un altro giorno felice, per dirla nel vecchio stile

C’è Beckett, c’è Giorni felici, c’è la regia di Andrea Renzi, c’è Nicoletta Braschi. C’è folla e c’è attesa in platea; un’attesa che si protrae, ben oltre il consueto quarto d’ora di cortesia, rendendoci per un po’ come epigoni ad orologeria di Vladimiro ed Estragone. Ma il nostro Godot è solo appena appena in ritardo, ad un’apertura di sipario poco più in là.

Tante parole dal sapore di poco

Formule matematiche complicate affastellate su una lavagna che sormonta la scena e una radio che gracchia cercando (e trovando) la frequenza sono i primi segnali che si offrono alla decodifica. Ai quattro angoli della scena, quattro donne incorniciano il perimetro d’una camera d’albergo spandendo in terra rossi petali di rosa; emerge dalla penombra, di spalle, l’uomo che sarà epicentro nevralgico di Some Girl(s), commediola incentrata sul tema delle dinamiche sentimentali.

L'incanto del bosco

Risuona poetica la parola. Tangibile ed eterea ad un tempo, trovando asilo e ricetto in un tòpos poetico quale il bosco, la parola – e l’ossimoro, che la parola alla parola accosta per antinomia – s’evoca diafana. Sullo sfondo d’un buio fitto che pian piano si dissipa, un letto di foglie ai piedi di quattro alberi s’incornicia a radura; scorre un tempo scandito dai ritmi della natura: il cinguettio degli uccelli segnala ch’è giorno, il frinire dei grilli che la sera è calata.

Gli altri fantasmi

Un racconto, un film, una location. Questi i tre presupposti che costituiscono l’ossatura della messinscena di Gli Altri, per la regia di Peppe Celentano. Il racconto è Giro di Vite di Henry James, il film è The Others, di Alejandro Amenàbar, che al romanzo di James liberamente si ispira e che viene evocato nel titolo della pièce allestita nella suggestiva cornice del Pio Monte della Misericordia di Napoli.

Alle radici del Male

La scena spazio vuoto, come vuoto universo all’atto della creazione. Si parte dalla Genesi – “o ‘dal’ Genesi, come direbbero i puristi” – per raccontare come in quello spazio vuoto possa insinuarsi ed allignare il Male. In scena un solo attore, portatore di parola, corpo e gesti, che dalla parola parte nelle sue definizioni primigenie, nelle sue formulazioni ancestrali, per andare alla radice ed alle viscere del Male, per raccontare una menzogna (quella della storia, che inganna) attraverso una menzogna (quella del teatro, che finge), per coniugare infine quella parola con l’espressione corporea e gestuale.

Incomunicabilità e catastrofe

Potenza visionaria delle immagini costruite in scena, la parola ridotta all’afasia, a parlare sono la scena ed i corpi che la abitano. Titanic (The End) di Antonio Neiwiller, nella riproposizione di Salvatore Cantalupo – nel ventennale della scomparsa dell'autore – è visione che abbacina, magnete che attira su di sé sensazioni tirandole dalla platea, quella platea che viene più volte traversata dallo stesso Cantalupo, traghettatore su un ideale ponte (di comando) fra i due poli della visione, regista in scena di una compagnia alle prese con la deriva del tempo, ad un tempo nostromo di una nave di disperati e caporale che dei loro gesti dispone al suono d’una sirena.

Tre atti per tre fughe

Un grido, uno squarcio. Tre storie, tre quadri, tre modi diversi di urlare un fremito di rivolta. Marina Confalone torna in scena, in formazione con Giovanni Martino e Mario Di Fonzo, per affrescare in ribalta una quadreria partenopea che ha il gusto amarognolo del disincanto e, perché no, anche del livore sotteso all’amore che si porta per una città come Napoli, matrigna e crudele.

il Pickwick

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