“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Teatro e consuetudine teatrale

Attendersi buie pareti di legname o di mattoni, con una finestra sola e per di più tappezzata come una galera, un grosso portone sulla destra o la sinistra ad indicare che l’uscita non è un’uscita e che la condizione è da reclusa sembra la consuetudine scenica per Yerma, sembra la consuetudine scenica per le opere che García Lorca ambienta in un interno. Prigione e prigionia, carcere e carcerazione, vita tumulata in una casa che somiglia a un tumulo: il rischio della consuetudine poteva reiterarsi.

Sepolti tra i libri

“L’intellettuale si scopre abitante da sempre di un cimitero, quello della letteratura” – scrive Alberto Castoldi in Bibliofollia – “ma è al tempo stesso custode di questo mondo defunto, e quindi in una condizione di liminità, sospeso fra la vita e la morte”: egli si nutre “vampiristicamente” della scrittura defunta e, nel contempo, “la riattiva facendola propria”. Tuttavia – compiendo quest’azione consueta ma innaturale (l’uomo non nasce per leggere, la lettura è un’acquisizione che si apprende, si raffina, ci si impone o si persegue nel tempo) –  egli stesso cede parte della propria vita alla morte perché questa riprenda il respiro: ciò che è scritto è fissato, ciò che è fissato è definitivo, ciò che è definitivo è immodificabile e – come tale – langue trascritto con caratteri immobili eppure ciò che è fissato, definitivo, immodificabile perché trascritto con caratteri immobili riprende fiato, colore, spessore, fa nuova voce fino a sembrare – come uno spettro – di nuovo vitale, presente e tangibile.

Sulla pittura del Teatro

Il Teatro, arte delle arti nella misura in cui le contempla tutte per formare la propria, usufruisce del contributo pittorico per rifinire suoi molteplici aspetti: la luce, ad esempio, perché una scena, uno spazio, un’intera vicenda drammatizzata si svolga tra decisi equilibri di chiaro e di scuro; lo spazio, perché la tridimensionalità di una tela possa accrescere la tridimensionalità di un palco suggerendo il posizionamento opportuno di oggetti e di arredi; il rapporto tra le figure, perché vi sia una correlazione studiata non solo tra l'espressione singola ed il singolo atto ma tra gli atti degli interpreti in relazione tra loro, la posizione assunta in assito, la distanza tra i corpi.

Dicerie con lo scrittore: intervista a Gesualdo Bufalino

“Se dovete recarvi a Comiso, non dimenticate d’arrivarvi per i tornanti che rigano un fianco degli Iblei, lasciandovi alle spalle gli interminabili muri a secco della campagna ragusana, magari con ancora negli occhi il ricordo d’una Modica molle e signorile. Vi si spalancherà, specie in un giorno di cielo pulito, un panorama largo e commovente. In pochi minuti, assecondando pigramente volte e risvolte, vi troverete nel centro del paese”.

Il Teatro: questa vita, questa prigione

L’elemento di scena che contraddistingue davvero Eleonora: ultima notte a Pittsburgh non è lo scrittoio, di legno sbiadito e contenente vecchie carte, vecchi libri, vecchie penne; non è il letto, distesa di lenzuola sul fondo che racconta con le grinze gli incubi, i pensieri terribili, gli affanni notturni; non è il cumulo di valigie di lato, coperto dalla polvere e recante all’interno cappelli e vesti di scena (che sono l’unica vivacità colorata, l’unica testimonianza che esistono ancora il lilla, il granata, il celeste); non è la poltrona posta nel centro, quasi in ribalta, su cui Eleonora s’adagia piegandosi tra cuscini e pizzi e cordoni da vecchia sartoria manuale. L’elemento di scena che dà, alla scena, l’intero tono dell’opera è il drappo che pende, dall’alto a sinistra, e che – in apertura del sipario del Teatro Nuovo – è un leggerissimo velo di tulle o cotone che tutto ricopre e che viene tirato: un secondo sipario dunque che, trascinato dal davanti sul fondo, sparisce senza mai sparire davvero.

Guido e Ciccio, perduti in un libro perduto

                                                                                                  Tanto per cominciare i fratelli De Rege erano napoletani di Caserta.

                                                                                                                                             Nicola Fano, De Rege Varietà

 

Il racconto del teatro è il racconto del passato: un attore ha appena smesso il suo saluto chinandosi agli applausi, rispondendo con lo sguardo, con un nuovo inchino, con un gesto breve della mano; verranno poi le quinte, il rumore che scema nel silenzio, l’aumento di distanza tra chi ha smesso di guardare e chi ha smesso di essere guardato. Verrà il buio. Il ritorno in camerino, l’abbandono degli abiti di scena, la mano che strucca il bianco pallido alla pelle, uno sguardo dato nello specchio, il ritorno alla vita dell’esterno, in attesa di una nuova replica, di un nuovo
inizio, di un finale nuovo sperando in nuovi applausi.

La scatola, la grande magia

Che significa un muro? Che cos’è un muro se 

non un giuoco preparato? Dunque, devi essere

d’accordo con me che non esiste. La pietra è

una. (Mostrando la platea) E quello è il mare!

             Eduardo De Filippo, La grande magia

 

 

La vera scatola de La grande magia non è questa che Calogero Di Spelta stringe alle dita e che – per proteggere da sguardi indiscreti – tiene ora al petto, ora sul ventre, ora sotto al braccio ed a cui dedica ora uno sguardo, ora una carezza, ora parole di compianto o timore nell’attesa – inattendibile – che da lì torni la moglie sparita: questa non è che una cianfrusaglia da palco, una rigatteria di legname e di vetro con false gioie per decoro o qualche fregio smaltato in origine che, a forza di prove e di repliche, ha perduto la sua lucentezza. Una quisquiglia, questa scatola; un balocco, questa scatola; un orpello opaco e sbiadito, questa scatola, presa da chissà che robivecchi o trovata in chissà quale angolo buio di chissà quale oscuro magazzino d’arnesi.

Storia di Bobi, che si perse tra i libri

Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio
non vive per fare bei versi, come sono
brutti i versi del tizio che non vive per fare
bei versi.
                                      Bobi Bazlen

 

 

Ricordo di aver letto, in qualche vecchio libro di Hawthorne, una storia, data per vera, letta dallo stesso Hawthorne in qualche vecchia rivista o giornale: un uomo – chiamiamolo Wakefield poiché Wakefield lo chiama Hawthorne – che si assenta per un lungo periodo di tempo dalla propria casa e dalla propria consorte.
Wakefield vive a Londra. I suoi affetti, mai violenti, sono smorzati in un sentimento tranquillo, che vivacchia tra abitudini comode. Pigro quanto basta, indolente quanto basta, accomodante quanto basta. Razionale, impegna i meriggi in lunghe riflessioni senza pretendere uno scopo preciso: pensa per pensare, pensando pensa a ciò che sta pensando senza pensare ad altro. Nessuno lo direbbe un eccentrico, tutti lo direbbero incapace di compiere un atto qualsiasi degno di stupore, capace di fissarsi in eterno.

Pensai

“Noi proviamo continuamente a sgusciare via da noi stessi, ma questo tentativo fallisce regolarmente, pensai, e in questo tentativo seguitiamo a incaponirci perché non vogliamo ammettere che a noi stessi non scamperemo mai se non con la morte. Adesso è scampato a se stesso, pensai, in maniera più o meno ripugnante. Farla finita a cinquant’anni, cinquantuno al massimo, ha detto una volta. Alla fine, pensai, si è preso sul serio”. Un frammento de Il soccombente, perché cominci l’articolo.

L'inganno del tempo, di replica in replica

La condizione di stasi, per la quale il presente è una galera mortifera, è inconciliabile con il teatro. L’immobilità, la fermezza assoluta del tempo e dell’azione nel tempo, la quieta assenza di prospettiva, che determina il blocco, è il vero tabù inesprimibile tra le quinte di scena. Qualcosa deve accadere, deve accadere qualcosa che dia un senso – e, se non il senso, almeno la percezione fisica e contenutistica – dello smuoversi delle lancette.

il Pickwick

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