“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Roberto Cirillo

Non c’è onore nel digiuno

Torna l’affiatatissima coppia Lo Cascio/Rubini. Nato sul set di Mio cognato (anno di grazia, 2003, del “compianto” Piva, regista però, forse, da poco risorto), questo sodalizio artistico, che ci ha già regalato, un paio d’anni fa, la bella trasposizione teatrale del classico dostoevskiano, Delitto e castigo (di cui quest’altra opera rivela l’influsso, quantomeno nella scenografia, in cui ritroviamo almeno un oggetto di scena: la piccola scrivania dove Rodia Lo Cascio Raskolnikov riversava il suo flusso di coscienza), torna ora ad affondare i canini  in un altro poderoso tomo da mettere in scena: il Dracula, di Bram Stoker.

Another brick in the street art

La street art al museo ha smesso di essere un ossimoro anni fa.
Non fa specie, quindi, la presenza di Banksy al PAN, insieme ad altri artisti della sua orbita (se mai ce ne possano essere).

Συμπάθεια by the Devil

La resa in scena a firma di Andrea Baracco del samizdat capolavoro di Bulgakov è magistrale in quanto riesce nell’impervia impresa di trasfeire in toto il realismo magico dell’opera originale, nel teatro, che è arte del reale, realtà vivente e vivida, materia che respira insieme a noi, a pochi passi, tutto il realismo magico dell’opera madre. Come Berlioz subirà, inerme, il fascino da stupor mundi del misterioso Messere, Woland, fino a perderci, letteralmente, la testa, così a noi non rimarrà che rimettere gli occhi nelle orbite per riaverci della grandeur di uno spettacolo che non fa sconti, e da cui nessuno rimanere scontento.

Marco Bechis, desaparecido del cinema italiano

Il 21 novembre 2019 il mio giornale mi propone un’intervista a Marco Bechis. Se il nome non mi diceva granché, quando ho scoperto essere l’autore di Garage Olimpo, ho subito accettato. Per amore di un film. Quel che segue è il resoconto delle due intense ore che mi ha donato, nella hall di un albergo, a Napoli, in occasione della proiezione del suo La terra degli uomini rossi – Birdwatchers, alla XI edizione del Festival dei Diritti Umani di Napoli presso lo Spazio Comunale Piazza Forcella, in compagnia della professoressa Valentina Ripa. A onor del vero, ho scoperto che la mia ignoranza è dovuta al fatto che Bechis è un regista alieno, in qualche modo desaparecido da entrambi i continenti, scomodo per la sua caparbietà e per l’integralismo intellettuale che trasfonde nel suo cinema, in ragione del quale esige che i temi politici dei suoi film siano rispecchiati nel modo in cui vengono girati.

Galeotto fu il benessere e colui che lo porse

I grandi maestri del racconto breve sono pochi, e recenti. Se uno è Carver, l’altro, probabilmente, è Dürrenmatt. Dürrenmatt, infatti, lo si ricorda per alcuni dei più perfetti, ben ingegnati, racconti brevi che ci sia dato leggere, fra i quali meritano di essere citati, perlomeno, il rashomoniano Il lamento della Pizia e Il Minotauro.

“Skianto”: urlo muto sottopelle

Il sipario si solleva, come velo di Maya, e disvela l’infanzia perduta di un bambino interiore cui non è dato crescere. Cui non è dato perdersi. Il protagonista, calzettoni giallo fluo, pigiama di Mazinga, imbracato ai lombi, volteggia, come un acrobata sospeso, o meglio, burattino, bimbo costretto a una sindrome di Peter Pan, nonostante i suoi un metro e ottanta e passa.
Questo incipit trapezista occorre per introdurre allo spirito di leggerezza (qualche volta naïf, qualche volta sguaiato, qualche volta patetico, ma sempre efficace) che è proprio di tutto lo spettacolo. Nonostante il tema affrontato. O forse proprio per questo.

Poco fumo ma tanto Orson in questo “Welles’ Roast”

È sempre un piacere ritrovare sul palco Battiston, oltre che sul grande schermo (che, in realtà, non fa che penalizzarlo), che sia Danton per Martone o Churchill per Rota. Scritto a quattro mani col regista, Michele De Vita Conti, stavolta sceglie di mettere le sue carni a disposizione di un’altra incarnazione, complice la suggestione d’un physique du rôle ma, più probabilmente, un’affinità elettiva e caratteriale verso un artista stabordante e incontenibile: quell’Orson Welles la cui impronta ha lasciato un segno indelebile in tutte le arti con cui ha intrecciato il suo cammino.

Addio Vallo bella, l’anarchico va via

Li riconosci, gli anarchici. Da come invecchiano. Come e più di qualsiasi altro iniziato d’un credo politico (quei pochi che restano) ma, con l’età, un anarchico stacca gli altri, e si rende vieppiù identificabile. Vien da dire che un anarchico (o un’anarchica) ha uno smalto tale, a rivestirne la tempra, che con l’usura del tempo resiste meglio. Non la lavi via di dosso a qualcuno, l’anarchia. A nulla possono, lavoro, famiglia, imborghesimento, rammollimento, delusioni. O meglio, possono sì, ma meno.

Bud Spencer. Da leggenda napoletana a icona universale

“Nel 1999, il Time conduce una ricerca su base mondo
per valutare chi fosse l’attore italiano più conosciuto:
il risultato è sorprendente, si trattava di Bud Spencer”.


“Io sono napoletano prima di essere italiano”.
Bud Spencer

 



Si è inaugurata in questi giorni la fiera multimediale dedicata a Bud Spencer (budspensér come l’ha pronunciato qualcuno, passando). Per accogliere col giusto spolvero questo figlio tanto devoto, Napoli gli ha riservato il suo salotto buono: il Palazzo Reale. Trattandosi di una mostra multimediale, le opere che accolgono il visitatore sono alcuni memorabilia, cimeli del set e della vita dell’artista partenopeo, la ricostruzione di alcuni ambienti tipici nei quali l’abbiamo visto sguazzare (alcuni letteralmente, come il fondo di una delle vasche in cui ha brillato la sua carriera da natante olimpionico) e vari omaggi, fra targhe e riconoscimenti, libri da tutto il mondo, i dischi che ha inciso, le lettere dei fan (che ancora gli scrivono benché ci abbia lasciati tre anni fa).

Non 5 ma un multiplo di 5 è il numero perfetto

Si attendava al varco, Igort. Un varco che aveva preso una curva piuttosto larga. Fa piacere che, tanta attesa, con l’effetto moltiplicatore delle aspettative che ne consegue, sia stata premiata.
L’esordio alla regia di Igort, infatti (per l’anagrafe, Igor Tuveri, punta di diamante del fumetto, italiano ma non solo, visto che la sua arte lo ha portato – e lui ci ha portati con essa – in giro per i vari angoli del mondo, vedi Quaderni Ucraini e i folgoranti Quaderni Giapponesi) non conosce sbandate.
Ma fu vero esordio?

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il Pickwick

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