Cara Trieste, che non t’ho veduta mai e che, pure, m’appartieni come un lembo immaginario, luogo e non-luogo che si abita col pensiero, fidandosi della mancanza come fosse una carezza. Cara Trieste, che non t’ho parlato mai mentre tu mi parlavi facendo parlare i tuoi scrittori, ieri io t’ho veduta come t’ha veduta Elisabetta Sgarbi.
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"Southern trees bear strange fruit" canta in un famosissimo brano Billie Holiday. "Blood on the leaves and blood at the root" colora in modo macabro un’epoca, un tempo, e un luogo, che s’immagina in bianco e nero. Il vento del sud nell’America degli anni Venti e Trenta – potremmo continuare con i decenni precedenti e seguenti – si tingono di un rosso cremisi che sparge nel mondo il dolore di un popolo deportato, schiavizzato, privato dei diritti essenziali.
Questa non vuole essere una comune recensione. Non però nel senso che vuole essere una recensione fuori del normale, straordinaria o altro, non ce la sentiremmo mai di affermare una cosa del genere, ma che proprio non vuole essere una recensione, anzi la stessa parola “recensione” non ha mica sempre un bel suono e soprattutto spesso e volentieri mal si adatta a narrazioni che vogliono essere ben discrete e sussurrate.
“Madame Bovary c’est moi” diceva Gustave Flaubert, riferendosi alla natura autobiografica della sua creatura letteraria.
Flaubert ambientava le vicissitudini sentimentali della sua Emma nella Francia bucolica del1827, ma la parabola del mal d’amore della Madame parigina rimane sempre di incredibile attualità. Lo dimostra la riproposizione teatrale di Lorena Senestro (attrice e autrice del testo) che presenta la sua Madama Bovary al Teatro Sancarluccio di Napoli, in un’insolita rivisitazione in dialetto piemontese, accompagnata dai versi poetici di Guido Gozzano e da una commistione di suoni inediti ed originali sfumature.
- Madama Bovary
- Lorena Senestro
- Massimo Betti Merlin
- Marco Bianchini
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- Gustave Flaubert
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Terzo appuntamento della rassegna cinematografica Visioni a cura del Centro Donna di Avellino. Parigi, febbraio 1971. Studenti liceali scendono in piazza per protestare contro l’arresto di esponenti del movimento, nonostante il divieto della polizia. Intervengono le brigate d’intervento che picchiano alla cieca e feriscono alcuni di loro. Il movimento studentesco si riunisce per interrogarsi su come reagire. Anche nel liceo di Gilles, alter ego del regista – che nel 1971 ha 16 anni – si discute, si organizzano volantinaggi e distribuzione di giornali ciclostilati. Per dire a chiare lettere dell’ipocrisia del PCF e dell’immobilismo di chi si limita a guardare.
La vita è proprio una brutta bestia (parte III)
Written by Delio SalottoloSarebbe difficile raccontare e motivare la passione che Gennaro o’ scemo provava per i piccioni ma sarà sicuramente più semplice mostrare come quella passione fosse un altro dei motivi di attrito con il quartiere. Non c’è animale (e per molte persone è già tanto chiamarli così) che provoca più disgusto, orrore e schifo del piccione, “sti zoccole con le scelle”, gli diceva la signora Assunta, “ma come ti fanno a piacere?”.
Sala Ichòs apparecchiata come un desco per pochi convitati, commensali per i quali è appannaggio succulento il menù consistente in degustazione della vivanda teatrale.
Chef, maître e cameriere – ovvero autore, regista e interprete – è Elvira Frosini, da sola in scena a tradurre in immagini dinamiche la parola scritta; la scrittura è concitata e ridondante, serrata ed assonante. Imbandendo convivio di parole, si fa mensa del reale cucinandolo in salsa teatrale.
Succede che la vita è un viaggio, e in ogni sosta c’è il tempo per crescere. Attendendo i giorni futuri, ricordando quelli passati. Mentre quel burattinaio del presente tira i fili, ora intrecciandoli ora sciogliendoli. Eppure li tira. Al punto che l’umano sentire ne avverte lo spostamento d’aria: molecole di emozioni in lotta per la vita, ancor più quando l’Io si accorge di esistere.
Rezna è forte. Sta lì seduta, da sola al centro della scena. Ci mette subito a nostro agio con i suoi modi bucolici, da donna di montagna nata tra le vacche e cresciuta con la pelle dello stesso colore dei vitelli. È forte la sua voce e sono ampi i suoi gesti: non c’è da badar tanto alle buone maniere quando si parla di guerre.
Rezna ha una storia incredibile da raccontare e come se ci avesse tutti presi al lazo ci trascina dentro. Il ritmo dei suoi ricordi è musica, la sentiamo e aiuta Rezna a tenerci più stretti al laccio delle sue parole e dei sui gesti.
Rezna, che vive in una zona di confine, conosce quattro diverse religioni e quattro nomi diversi per chiamare Dio.
Di chi è il sangue che ha sporcato il grembiule di Rezna?
CICLO BERGMAN (PARTE IV) - La fontana della vergine
Written by Daniele Magliuolo“Già da tempo l’idea di Dio aveva incominciato a incrinarsi in me, rimanendo per lo più come decorazione. Quello che, in realtà, m’interessava era l’orrenda storia della ragazza, dei violentatori e della vendetta”
(Ingmar Bergman)
Nel 1959, subito dopo Il volto, Bergman torna a dirigere un’opera dai tratti spiccatamente religiosi. Siamo ancora una volta nel medioevo. La giovane Karin, accompagnata dall’invidiosa serva Ingeri, si dirige, attraverso i boschi, verso la chiesa della contea per portare i consueti ceri alla Madonna. Nel bosco fa la conoscenza di tre pastori, fratelli vagabondi. Questi, dopo essersi finti amichevoli ed aver pranzato con lei, prima la violentano, poi la uccidono con un bastone (per la verità, uno dei tre è solo un bambino che si limita ad assistere al crimine per poi rimanerne turbato).