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Tuesday, 01 January 2013 18:28

Ucciderò Roger Federer (parte 7)

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7. “F, ma sei veramente tu?”

Fu così che il piccolo signor F, dopo aver attentamente scrutato l’orologio – un vecchio ma affascinante Citizen, trovato sulla bancarella di un vecchio incartapecorito che sopravvive vendendo cianfrusaglie a volte di discreto valore e che pronuncia il nome della famosa casa produttrice più o meno così: “Cittizzè”, un orologio che aveva il brutto vizio di guadagnare minuti su minuti fino a far perdere la cognizione dell’ora esatta – decise di intrattenersi ancora un po’ in giro, “del resto” pensava “questi sono i vantaggi di non avere nessuno a cui rendere conto” e, un po’ come dimorando nel suo alibi preferito, riteneva, ridacchiando fra sé e arcuando lievemente quel sopracciglio i cui movimenti erano stati da lui analizzati a fondo, che era fortunato a non avere una compagna perché, se mai l’avesse avuta, di lì a poco già lo starebbe tempestando di chiamate, magari poi, una volta tornato a casa, avrebbero litigato urlando feroci offese, lui si sarebbe sicuramente innervosito e sarebbe corso di filato in bagno come gli capita sempre e molto probabilmente non avrebbe dormito serenamente, proprio stanotte che domani ha il famoso concorsone.

Decise così di recarsi al centro storico dove, soprattutto quando era “giovane” – e sì che lui si sentiva vecchio, già si respirava l’autunno nelle sue parole e sul suo volto comparivano le prime foglie secche – amava trattenersi nei bar a bere qualcosa, dove insomma aveva trascorso molte serate, alcune delle quali, in verità non tantissime, per lui veramente “memorabili”. Spesso si soffermava sul ricordo di quelle serate ed anche quello era un modo per passeggiare un po’ più serenamente nella desolazione della vita presente. Si trattava di un tentativo di affrontare la vita, “basta clausura!”, un tentativo di respirare ancora quella gioventù passata all’improvviso, gli anni della scuola e dell’università, in cui tutto era vita ed era vita ad ogni costo, senza perdite di tempo e senza procrastinare nulla, quand’ecco che si era ritrovato all’improvviso anziano, con i capelli che un po’ tendevano già a incanutire, e con quel suo maledetto stato di salute che non gli permetteva più di farsi una sonora ubriacata come un tempo. Certo non era quella la serata ideale per rinverdire i fasti – qualora veramente vi siano stati, noi all’epoca non conoscevamo il piccolo signor F – del glorioso passato ma, forse, qualche piccolo cicchetto (e gli venne da sorridere malinconicamente a quell’espressione), non tanti certamente, giusto qualcuno, avrebbero forse reso quella serata di attesa un po’ più semplice da sopportare.

Camminò a lungo per via Benedetto Croce non sapendosi risolvere in quale bar fosse preferibile trascorrere quell’oretta di libertà che voleva concedersi e camminò veramente a lungo avanti e indietro, affacciandosi più volte in ogni bar e attirando spesso la curiosità di qualche barista che, non avendo nulla da fare, asciugava qualche bicchiere o guardava qualcosa, forse nulla, nella confusione della strada lì poco fuori il suo bar, ponderando con attenzione il nostro eroe non soltanto l’aspetto dei singoli bar (meravigliandosi di quanti ne fossero sorti negli ultimi anni, del loro assoluto anonimato se non della loro rara bruttezza, come facendoci caso soltanto in quel momento) ma anche le persone che vi si annidavano dentro. Dovete sapere – ma probabilmente oramai ci sarete un po’ entrati nella sua ritorta psicologia – che il piccolo signor F temeva di entrare in un bar e di trovarsi magari immerso in un ambiente di persone – e a sua parziale discolpa dobbiamo dire che è piuttosto frequente a Napoli – dai modi, per così dire, poco urbani, persone in parole povere che, nell’assoluta bestialità della propria esistenza gutturale, l’avrebbero preso in giro ferocemente, fino al limite di ogni umana sopportazione (e se lo diciamo è perché al nostro eroe era capitato ben più di una volta e anzi era stato uno dei motivi per cui non si era quasi più azzardato a entrare in un bar del centro storico), che sicuramente l’avrebbero provocato attendendo febbrilmente una qualsiasi risposta per aprire le danze macabre della violenza gratis et amore dei e che lui, senza alcuna reale possibilità di reazione, avrebbe dovuto soltanto uscire con la testa abbassata e con il signor Risentimento sottobraccio.

Bisognava in poche parole stare molto attenti e il piccolo signor F sembrava oltremodo agitato, un po’ per questa lieve paura, un po’ per l’eccitazione di ciò che stava per concedersi.

Optò alla fine per un piccolo (e veramente anonimo) baretto al quale non aveva mai fatto caso, si trattava di un antro stretto e lungo, poco più largo di un corridoio di una casa signorile, e che aveva un arredamento nuovo, forse nuovissimo, ma di nessun gusto. Che significa “di nessun gusto”?, semplicissimo: che non era né brutto né bello, si potrebbe dire che “era-e-basta”, cioè era sì di legno ma non suscitava alcuna immagine nella mente, non faceva immergere in alcuna fantasticheria da film o romanzo, in poche parole non avrebbe potuto attirare per nessun motivo, non era per niente irlandese, non era alla francese, non era all’italiana, non aveva esotismi di sorta, dava l’idea che lì dentro nulla potesse accadere oltre al bere e mangiare qualcosa, era un mobilio da Ikea, comodo funzionale asettico, la cosa però sulla quale eccelleva (eccelleva rispetto al resto, per cui sembrava anche quella cosa migliore di ciò che effettivamente era) era il buffet da aperitivo in bella mostra e  ben visibile anche semplicemente passando dinanzi all’ingresso, che presentava pizzette col pomodoro tagliate a quadratini e con graziosi stuzzicadenti con bandiere delle nazioni più svariate conficcate al loro interno, pizzette “parigine” organizzate nella medesima maniera, noccioline di ogni tipo genere forma, patatine di ogni tipo genere forma, rusticini di ogni tipo genere forma, strani micropasticci di verdure di ogni tipo genere forma, e tutta una serie di “pagnottielli” di incerta fattura e di ancora più incerto ripieno, i cosiddetti “salatini” e strani cracker al bacon, al formaggio e alla cipolla. Ma non fu quest’ultimo il motivo principale per il quale il piccolo signor F lo scelse (dobbiamo notare che comunque trasalì alla vista di quello che, per un uomo che vive da solo, la cui dieta è particolarmente grama e insapore, non poteva essere definito in altra maniera che “un ben di Dio”, un “ben di Dio” per giunta gratis) bensì due ordini differenti di considerazioni: il primo era perché al suo interno non c’era proprio nessuno, né buono né cattivo, né angelo né demonio, né bestia né uomo, né maschio né femmina, e quindi sarebbe stato tranquillo e serenamente in disparte senza sentirsi tale, senza doversi sentire necessariamente e ancora più angosciosamente solo perché immerso in chiacchiere e risate di gruppi di persone che conducevano briosamente la propria serata e per i quali lui (ovviamente) non esisteva e, qualora fosse esistito, sarebbe divenuto probabilmente oggetto di scherno (prese comunque quella che lui definiva un’ottima risoluzione, sebbene il locale fosse del tutto vuoto, il nostro eroe decise comunque di sedersi il più lontano possibile dall’ingresso, in un angolo poco illuminato, sperando insomma di non essere visto), il secondo era perché aveva letto su un cartello scritto a pennarello, con colori variegati e fiorellini e altri piccoli gingilli grafici, un cartello indubbiamente ridicolo e di rara mancanza di gusto, che ogni cicchetto non sarebbe costato più di due euro, cifra considerata più che congrua da parte del piccolo signor F che, tra mosche e ragnatele che si annidavano da tempo nel fondo del suo piccolo borsellino di pelle, sapeva bene che al suo interno si trovavano non più di venti euro.

Iniziò con un bel whiskey liscio stupendosi della generosità della barista e cominciando poi immediatamente a fantasticare sul malinconico sorriso che aveva visto aprirsi sul volto di quella ragazza troppo matura per essere ancora una semplice barista a giornata, un volto candido liscio come ricoperto di cerone naturale, sul quale spiccavano turgide e rosse labbra, forse appena un po’ troppo grosse e per questo come un po’ deformi anzi sbavate su quel viso delicato e in definitiva piccino, un naso discretamente robusto e largo e piuttosto arcuato che però riempiva a perfezione gli spazi a lui concessi e due occhi di un intenso nero, profondi come la notte ma allo stesso tempo piatti come il buio, che esprimevano una sottile ma allo stesso tempo estrema angoscia che faceva ribollire a tratti il nostro eroe anche grazie a un trucco sapiente, che sembrava leggero, ma che invece denotava una grandissima perizia ed esperienza.   

Beveva lentamente il piccolo signor F. Beveva lentamente e, come in un sogno (e ne aveva sognate di situazioni del genere), si abbandonò al piacere della sua solitudine, cominciò a vedersi dall’esterno, seduto nell’angolo di un bar, e prese a fantasticare sulle sue possibili vite, su cosa un osservatore estraneo a lui avrebbe pensato vedendolo lì tutto solo, mentre, con sapienza filmica (e ne aveva visti di film nella sua vita) faceva roteare lentamente il dito sul bordo del bicchierino di whiskey forse appena un po’ troppo piccolo per il suo grosso e tozzo dito (ultimamente si è affermata, soprattutto nei baretti piccoli ed economici, l’abitudine di servire il whiskey non in bicchieri larghi ma nei bicchierini one-shot, cosa che, indubbiamente, per uno spirito intriso di romanticismo come quello del piccolo signor F creava qualche problema). E così non pensava più a se stesso, ma pensava a qualche altro se stesso ipotetico ma comunque verosimile, riflettendo sul fatto che la vita nel pensiero e la vita nella realtà, in certi momenti, hanno la stessa possibilità di emozionare. E così immaginava di essere stato appena lasciato dalla sua compagna, donna in carriera e troppo arida per comprendere la sua sensibilità, e di voler affogare la sua malinconia in bicchieri di whiskey. Immaginava tante cose il nostro piccolo sognatore, cose che però non staremo qui a raccontare, soprattutto per non tediare il lettore, tanto più che si trattava di situazioni decisamente banali a raccontarsi, storie un po’ struggenti e preconfezionate, storie da filmettino americano che, se ben girato, può dare anche qualche soddisfazione ma che perlopiù annoia, storie dunque che annoierebbero il lettore ma che, a chiunque fosse capace di fantasticare in quel modo, avrebbero sicuramente prodotto emozioni su emozioni e languori e forse quel gonfiarsi di lacrime degli occhi proprio del sognatore fallimentare.

Insomma in un modo o nell’altro il nostro piccolo signor F stava veramente godendosi quegli attimi (era ormai al quinto o forse sesto whiskey e quanto più la sua lucidità veniva meno tanto più il suo fantasticare produceva situazioni e storie impensate e impensabili), quando all’improvviso udì alle sue spalle una voce potente ma allo stesso tempo lievemente stridula, che salutò un bel po’ di clienti e baristi (evidentemente un cliente abituale) e che gli permise di ritornare nel nostro mondo facendogli all’istante dimenticare l’ultima fantasticheria che riguardava (ma potremmo sbagliarci) una donna sola dal passato oscuro che stava lentamente innamorandosi di lui. Nel momento stesso in cui stava riuscendo a compiere la torsione del busto necessaria affinché potesse esaudire la sua curiosità nei confronti del nuovo avventore, gli arrivò una robusta ma calorosa pacca sulla spalla destra (quella che gli doleva più spesso, ma fortunatamente il whiskey ha un grandioso potere anestetico), e quell’uomo gridò ad altissima voce: “F, ma sei veramente tu?”

Prima di sottolineare lo sguardo attonito e stupefatto del nostro caro piccolo signor F, è necessario che noi, in quanto narratori, vi spieghiamo un’altra graziosa seppur discretamente comune caratteristica del nostro eroe: dovete assolutamente sapere che non è un buon fisionomista, i volti per lui sono sempre stati una sorta di mistero indecifrabile, difficilmente è capace di distinguerne uno prima di averlo scrutato a lungo ma ciò che gli crea sempre grande imbarazzo è il fatto che, una volta riconosciuto e ricordato il volto, questo rimane come de-contestualizzato, sì! lo ricorda ma non ricorda nulla della persona a cui appartiene, non ricorda come lui abbia fatto conoscenza di quella persona, cosa quella persona faccia nella vita per poter interloquire intelligentemente con lui, in poche parole di solito non ricorda proprio un bel niente.

“Sei sorpreso di vedermi, eh?” gli sbraita addosso quello che possiamo già chiamare una vecchia conoscenza. Ma il piccolo signor F non riesce a proferire ancora verbo, si accorge in pochi attimi che la testa gli gira, si rende conto di starsi avviando lentamente verso un’ubriacatura ma soprattutto sente di non potervi più resistere, la soglia era oltrepassata, si sarebbe dunque continuato a bere.

Con uno sforzo ben visibile – e che suscita un leggero ma cordiale sorriso nel suo interlocutore – il piccolo signor F risponde qualcosa biascicando strani fonemi incomprensibili e che ricevono come risposta un “d’accordo – non ti ricordi di me! – barista: due di quello che beve il mio amico – sempre stato un po’ un rincoglionito, eh? – felice di rivederti”.

Prima di chiudere questo capitolo, in maniera tale da rimandare la discussione tra i nostri due personaggi al prossimo, dandogli così il giusto spazio, dobbiamo sottolineare che lo stupore del piccolo signor F non era tanto dovuto alla mescolanza tra il principio di ubriacatura e la mancanza di attitudine fisiognomica, bensì al fatto che quell’uomo assomigliava moltissimo, forse appena un po’ più giovane, a quel pazzo che, poche ore prima, quando ancora non era stato dai genitori, lo aveva invitato a spaccare la testa a qualcuno.

E lo stupore del nostro piccolo eroe aumentò ancor di più quando quella sua vecchia conoscenza gli comunicò di avere la dichiarata intenzione di “Uccidere Roger Federer”.  

 

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