“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 13 January 2014 00:00

Recitare. Che altro si può fare?

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Mettere in scena Quartett di Müller presuppone la piena conoscenza ed il rispetto profondo per la particolare forma-teatro cui pensa l’autore. Müller, infatti, nel realizzare fabule non lineari, complicate d’intreccio, saltellanti nel tempo e nello spazio, schizofreniche nella forma, articolate e complesse nell’evocazione e nella gestione dei ruoli, desidera che la trama – la vicenda, la storia, l’insieme delle battute – sia altro dalla scena: che l’una venga portata su palco e detta, senza che sia forzatamente interpretata dal regista o dagli attori, mentre l’altra – la scena: con le sue luci, le sue quinte, il suo spazio teatrale – viva di vita propria, parallela, autonoma, contemporanea.

“Non bisogna portare le storie a livello del pubblico, renderle comprensibili, spiegarle, perché questo è il modo sbagliato di lavorare” scrive e – per confermare tale assunto – fa propria una frase di Kounellis (con cui collaborò per la realizzazione di Quartett): “Il teatro è visione”. Occorre dunque proporre il dettato e, come fosse un’ulteriore esposizione autonoma, accompagnarlo con una visione ed occorre che questi due elementi manifestino sì una pertinenza, una sintonia, una reciproca adesione percepibile dal pubblico, ma non imposta al pubblico stesso.
Non è un caso che Robert Wilson sia stato l’unico regista di cui Müller abbia approvato le messe in scena dei suoi testi (a parte il complesso e non sempre fecondo rapporto con il Berliner Ensemble): la capacità di Wilson nel tenere in palcoscenico il testo, nel non manometterlo, nell’offrirlo senza indicarlo esplicitamente ma esaltandolo attraverso una partitura plastico-visuale, immaginifica, tutta composta di colori sbiaditi e di mugolii o di piccoli passi, piccoli gesti, piccole macchiette animate, rende perfettamente il teatro dell’autore tedesco: “Ciò che mi interessa di Wilson è la libertà che lascia alle singole componenti del teatro; lui non interpreterebbe mai un testo. Un buon testo non necessita di interpretazione e – con Wilson – il testo viene esibito, senza valutazioni: c’è e basta”.
Questo scarto/adesione tra testo e spettacolo – questo stare assieme pur non coincidendo, questo accompagnarsi reciproco senza mai fondersi completamente – trova l’apice proprio in Quartett che, basato su Le relazioni pericolose di Laclos, non si limita a trascinare in ribalta il romanzo ma lo arricchisce proponendo cambi di ruolo, interpretazioni fasulle, moltiplicazione di sagome, conclamata ed esposta teatralità di maniera. Così chi interpreta Valmont interpreta anche la marchesa di Merteuil e viceversa, in una esaltata girandola scenica in cui si gioca costantemente a “fare finta che”. Io faccio finta di essere Valmont, Valmont fa finta di essere la marchesa di Merteuil, dunque io faccio finta di essere la marchesa di Merteuil. La marchesa di Marteuil è la marchesa di Marteuil ma è anche Valmont o la giovane Cecile de Volanges. In questo accumulo di maschere l’esaltazione dell’attore che, continuamente, dichiara la propria recita, il passaggio da un costume all’altro, da una parte a una parte.
“Il problema principale nella scrittura di Quartett” – leggiamo ancora Müller – “era come ideare una drammaturgia a partire da un romanzo epistolare. Alla fine la soluzione è venuta recitando” ovvero inscenando allusioni e metafore e proponendo la verità falsa di cui è fatto il teatro.

La regia di Carlo Cerciello esalta Quartett di Müller. Lo esalta con l’offerta precisa della tortuosa trama di partenza; con la precisione meticolosa nel calibrare gli equilibri e le simmetrie tra i due attori su scena; con la propensione a tradurre l’incontro tra le figure in una danza spaziodinamica, composta da tirate, sospensioni e riprese; con la sottolineatura burattinesca di alcune parti dell’opera, affidata in particolare al tono, alla velocità di parola, all’accenno di un movimento, di una posizione, di una fissità carnale assunta dal volto; con l’annullamento d’ogni quarta parete possibile (per cui gli spettatori sono a un centimetro dagli interpreti e gli interpreti guardano, parlano, ammiccano agli spettatori rendendoli consapevoli che sono a teatro e che la schermaglia è una finzione); con la puntuale schematicità da congegno, con la precisa orologeria delle movenze, con lo spessore psicologico tradotto in truccatura marcata.
La regia di Carlo Cerciello esalta Quartett di Müller a partire dall’invenzione della scena: al di sotto di un vecchio lampadario a dodici luci (residuo del teatro che fu, avanzo d’arredo, emblema dell’ipocrisia scenografica di spacciare per vero il presunto, ricostruendo scorci ed interni) viene issato un quadrato sul palco ed è una sorta di teatrino in teatro e – nel contempo – la definizione strutturale di uno spazio-galera, di una camera da costrizione, di un carillon crudele, di una stanza della tortura.
Qui gli spettatori sono posti in circolo, spalle alle pareti di stoffa, sguardo che sfocia direttamente su scena. Gli attori passano accanto, non volendo sfiorano, talvolta invece affidano il corredo (il cappello, la giacca, il manto) con un gesto diretto ed esplicito: i loro costumi toccano gli abiti di chi osserva, le loro mani sono adagiate ai gradoni su cui ci si siede. È la resa concreta dell’“assenza di distanza” di cui parla Müller. Al centro di questa gabbia ristretta (compressione dello spazio per intensificare l’energia e l’impatto della visione) ecco un asse attorno a cui girano quattro pareti, insieme di plastica e plexiglass. La struttura ricorda, nel suo complesso, le porte girevoli dei grandi alberghi: si entra, si spinge e spingendo si viene spinti, ritrovandosi dall’altra parte: il tutto, naturalmente, avviene guardando ed essendo guardati.
Prima sensazione: la struttura è la realizzazione pratica del tourbillon che il testo di Laclos propone, ovvero di questo continuo volteggio di lettere, voci, punti di vista, personalità, invenzioni e ostentazioni di sé che Müller eleva al quadrato rendendo i due attori due personaggi e i due personaggi dei personaggi ulteriori. 
Seconda sensazione: la struttura segmenta lo spazio in quattro spicchi, tanti quanti sono gli attori effettivi dell’opera (Valmont; la marchesa di Merteuil; Valmont che interpreta la marchesa di Merteuil e Madame de Tourvel; la marchesa di Merteuil che interpreta Valmont e Cecile). Il numero delle personificazioni si traduce, dunque, in delimitazione e organizzazione interna del palco.
Terza sensazione: ogni spicchio è una piccola ribalta in cui l’interprete – sempre da solo – offre il proprio spettacolo. Non a caso si nota una dipendenza costante tra le parole e gli sguardi dei due attori, tra la realizzazione dei gesti e la loro ricezione: Valmont osserva come recita la marchesa; la marchesa osserva come recita Valmont; la marchesa osserva Valmont come interpreta la marchesa; Valmont osserva la marchesa come interpreta Valmont. “Quando vi siete guardata l’ultima volta, mia anima?”; “Siete dunque ritornato nella vostra parte, Valmont?”; “Cosa nasconde questa smorfia: maschera o volto?” e – quando la marchesa di Mertueil/Imma Villa porta agli occhi un piccolo binocolo per osservare più da vicino (come fosse in un palchetto o in una poltrona da platea) Valmont/Paolo Coletta che compie la propria tirata – ecco che abbiamo davvero la sensazione del teatro fatto in teatro, moltiplicato alla seconda, in cui uno è uno ma può essere molti, tanti, tutti.
D’altronde la natura innaturale di Quartett – questo spettacolo che è uno spettacolo di sé tanto quanto è uno spettacolo di sé Le relazioni pericolose di Laclos (in cui ogni conquista è un’esaltazione della propria persona, un’affermazione del proprio carattere) – è rivendicata dalle interne didascalie di regia (“A terra, Valmont, a terra: siete folgorato”); dalle indicazioni mirate a coordinare o caratterizzare la recita (“Ritirate la mano”); dalle prove di una battuta che non viene e che tocca riprendere perché sia detta come va detta (“Mi… Mi sono messo sui vostri piedi, Valmont”); dalla messa in evidenza di una parte di trama che viene annunciata e poi realizzata (“Ed ora, Valmont, vogliamo far morire la presidentessa? Sacrificio della signora”); dall’interrelazione diretta con gli spettatori (“Ben recitato, no?”); dallo smascheramento dell’immedesimazione impossibile (così Paolo Coletta/Valmont può uscire dal personaggio lasciando la sua giacca in scena – illuminata da un faro – e sedersi tra il pubblico facendo esegesi e commento della parte che ha appena declamato).
E d’altronde Quartett di Müller ha tra le sue battute più illuminanti il “Devo intendere che voi siete ancora una volta innamorata” dove ciò che più conta è quell’ancora che – rimando alla sfrenata sessualità da romanzo – diventa una sottolineatura della replica teatrale in quanto replica: questo ruolo che vi tocca recitare lo recitate anche stasera, di nuovo stasera, stasera ancora.
Oppure: “Vorrei poter assistere alla vostra morte come adesso assisto alla mia” è altra frase-chiave per comprendere quanto – in Quartett – l’uno assume per l’altro la funzione di specchio e di quanto lo specchio sia il teatro che rende, riflette, evidenzia, consente di vedere vedendosi, di riconoscere riconoscendosi. E quando Coletta/Valmont chiude con “Spero che la mia recita non vi abbia annoiato: questo sarebbe imperdonabile” non è che l’ennesima conferma che – questa violenta lotta a ferirsi fino alla morte – si svolge (s)mascherandosi vicendevolmente.
Si aggiungano: le pose da coito a ruoli invertiti; i contatti tra i corpi senza che vi sia davvero contatto tra i corpi; il passaggio simboleggiato per gli abiti (l’uso del cappello; il manto posto alle scapole); la vocazione simbolico-cromatica delle luci (“Sangue” chiama il rosso, ad esempio; ma anche la neutralità bianca degli abiti); la coniugazione scenica della battuta “Lo farò con le forbici” per cui i due pugnali – armi per uccidere – sono un paio di forbici le cui lame sono state svitate e separate ed ecco che si ha piena consapevolezza del lavoro svolto da Cerciello per generare la visione di cui parla Müller.

In aggiunta la recitazione. Paolo Coletta sembra far presenza innanzitutto con lo sguardo. La misura con cui muove le palpebre, la capacità di fissare senza fissare, di accennare di profilo, di spiare, di rendere gli occhi una linea sottile o uno spalanco evidente regolano il movimento del corpo che ora si offre in posa esaltata, trionfante, priapica; ora si accuccia in forma devota, finto-penitente e pronta al consumo: “Potreste guardare una donna senza essere un uomo?” chiede, da uomo che sta interpretando una donna, a una donna che sta interpretando un uomo.
Imma Villa, di contro, ha nel volto la ferma necessità della maschera; ha nelle spalle, nella schiena, nella rigidità delle gambe l’assunzione del ruolo; dondola – ad un punto – su se stessa, tenendo le mani giunte, bloccando ogni passo in attesa di proseguire la sua parte; alimenta la prosa col fiato, ci gioca, l’accelera, la propone come una pantomima poi torna seriosa, cattiva, orrida, cinica, maligna. Ora un ghigno, ora la stretta di un pugno, ora il lieve movimento delle labbra: immagine-rebus, attrice-robotica, pupazzo ed ambigua figura che assume più nomi caratterizzando le stesse fattezze con particolari differenti: la maniera di calcare una parola, il modo in cui piega le ginocchia, la misura con cui ferma le mani nell’aria. “Recitare. Che altro si può fare?”.

Già, che altro si può fare se non recitare quando si recita Quartett? Recitano gli attori; recitano le figure recitate dagli attori; recita lo stesso Müller attraverso il teatro, attraverso i personaggi (“Quando si è un oggetto della storia si prova il bisogno di avere altre figure per poter parlare di sé e dei problemi reali”, “per questo ho scelto il teatro: perché tra un Io e l’altro c’è una grande distanza”); recita anche il Laclos de Le relazioni pericolose che – sempre secondo Müller – “per quanto si sia sempre dichiarato un moralista intento a descrivere gli abissi dell’immoralità al fine di mettere l’umanità in guardia” infine fa scena: “Il suo atteggiamento moralistico è solo la posa di un autore fortemente interessato, invece, alle tenebre dell’anima”.
Già, che altro si può fare se non recitare quando si recita Quartett?

 

 

 


NB. Le fotografie a corredo dell'articolo sono di Cesare Abbate, che si ringrazia per la gentile concessione.

 

 

Quartett
di Heiner Müller
traduzione Saverio Vertone
progetto e regia Carlo Cerciello
con Paolo Coletta, Imma Villa
scena Marco Perrella
costumi Julia Luzny
ideazione scenica originale Massimo Avolio, Roberto Crea
musiche originali Paolo Coletta
assistenti alla regia Maria Rosaria Postiglione, Pasquale Saggiomo
produzione Teatro Elicantropo Anonima Romanzi, Prospet
durata 1h 05'
Napoli, Teatro Elicantropo, 11 gennaio 2014
in scena dal 9 gennaio al 2 marzo 2014

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