“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 30 December 2013 00:00

Quaesivi et (non) inveni

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Fredda la luce che trattiene il corpo, come ad ingabbiarlo, come a chiedergli conto di una verità che fa male. Fredda se intorno, tacendo, tutto è buio. Fredda se la verità è il sasso di una piena risposta urlante lanciata in uno stagno di vuote domande silenziose. Eppure il chiassoso mondo strilla, infinite le sonore voci sparse in un caotico spazio deviante. Si devia. Per non vedere. Per non chiedere. Per non sentire. Per non rispondere.

Nella luce fredda è il corpo di Francesco Miniato, giornalista per incoscienza, cameriere per coscienza. La coscienza di una manciata di euro che gli ricordano che i primi ‘enta’ sono già superati e che, vivendo di ‘idee’, ce ne vorrà una buona per campare, nel lusso di una pur parca autonomia. La coscienza di un padre che mal comprende lo sforzo della sua scelta perditempo. Come quella di una compagna che riproduce diffusi e continui atomi di rabbiosa ‘coscienza’ per ricordargli che esiste anche una vita, magari in due, e che questa storia del ‘giornalismo’ non paga. Già, non paga per niente.
Tra incoscienza e coscienza, la gabbia di una luce fredda trattiene il corpo di Francesco rannicchiato in un angolo: mentre prova a lavorare ad un’inchiesta, assordato dal frastuono delle voci coscienti, stringe nelle mani un registratore. In questa tenera stretta, tutto il coraggioso bisogno di cercarsi, di trovarsi, di rispondersi. Come per un nuovo inizio, se è vero che “molto spesso una risposta non è la fine di nulla ma soltanto l’inizio”.
Francesco si cerca tra i ricordi, tra la frustrazione di sentirsi dire che un giornalista è “uno che non sa farsi i fatti suoi” e l’esigenza di scoprire la verità delle cose rendendola comprensibile agli altri, purchè non si riduca ad un vile esercizio di gossip.
C’è una storia che si muove tra i ricordi di Francesco, vivi e rossi come i solidi in verticale che appaiono in scena ad intermittenza con il buio. Il buio del vuoto sul rosso del pieno, se precisa è la verità scoperta tra le voci sottili imperanti ai tavoli, da servire con discrezione e cecità. Luci smargiasse e fatue quelle di certi locali vuoti e longevi, freddi di una miseria da fare invidia alla crisi se, a pochi passi, altri abbassano le serrande e nessuno si chiede il perché. Chi si chiederebbe il perché di un centro commerciale spuntato all’improvviso in un luogo destinato al verde dove, evidentemente, edificare è un’operazione illecita? In fondo c’è anche un piccolo campo sportivo, una fonoteca, entrambi inutilizzati, e il nome non lascia spazio ad alcuna curiosità: Centro Integrato Il Gorilla. Per un aggettivo che viene, un altro va e scompare nel buio dell’omertà: ‘abusivo’. Qual è, dunque, la risposta se la domanda è vuota e liscia come i nastri lucidi che Francesco svolge e aggancia mentre racconta la verità? Se l’illecito non fa paura, e neanche notizia, a che serve rispondere? A chi? Ricchi premi e cotillons per tutti e il nastro, teso in un ambiguo guazzabuglio architettonico, sempre più lucido, abbaglia come la luce psichedelica sparata dall’alto (con tanto di trasparenti pistole a colpi di bolle di sapone), dalla mano di Francesco alle prese con la collocazione della verità.
Fatti, nel sole del Sud, quotidiani: per campare serve non capire.
C’è una storia che Francesco non può dimenticare, soprattutto perché la memoria non seppellisce in fretta cinquecento euro di mancia. Un silenzio preteso e fetido, pregno del puzzo di quel denaro sporco riciclato per imbavagliare il cervello, prima ancora che liberi il pensiero.
È la storia che Francesco non ha dimenticato, quando ha deciso di restituire quella mancia alle istituzioni competenti e di prestare la sua voce per denunciare questo diffuso illecito. In cambio, un prezzo ancora più alto: la libertà perduta. Quella che si è fatta piccola nella miniatura di un tavolo e di qualche sedia, nella voce che urla di cercare il coraggio di non arrendersi mentre il suo volto è nella schiena e un rimbombo assordante, camuffando, s’impone e schiaccia, quella che si lancia in una vasca. Nastri tesi e lucidi anche qui, per analogia: così, snaturata in pochi millimetri, soffoca anche la vita di un piccolo pesce.
Figlia e madre di questo tempo, la storia di Francesco diventa un po’ nostra. Tutte le volte che, irresponsabilmente, lasciamo che siano gli altri a decidere, come le ombre delle nostre stesse paure. Tutte le volte che scegliamo di non scegliere, convinti di aver comunque scelto. Intanto, fuori e dentro, c’è una vita che aspetta. Una.
Francesco ha risposto alla sua domanda. Sarà un nuovo inizio?
Qui accade che ogni dettaglio sia al posto giusto, in un gioco di piene risposte lanciate in uno stagno di piene domande parlanti. In ogni attimo della pièce, della regia, dell’interpretazione.
Se l’inizio è uguale per tutti, e la fine è per tutti, quel che cambia è nel mezzo. Nel mentre. C’è un tempo per chiedere ed uno per trovare delle risposte.
Nell’attimo del ‘mentre’, il gioco della vita.  In verità, questione di un attimo.

 

 

 

Questione di un attimo
di Emanuele Tirelli
regia Roberto Solofria
con Antimo Navarra
produzione Mutamenti
foto di scena Marco Ghidelli
Caserta, Teatro Civico 14, 27 dicembre 2013
in scena dal 26 al 30 dicembre 2013

 

 

 

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