“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 30 December 2012 12:37

Prima della Prima

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C’è un tempo nel quale uno spettacolo non è ancora uno spettacolo. In questo tempo – in questo prima della prima – le quinte sono soltanto pannelli in legname, i vestiti di scena sono stoffe sgualcite e tavoli, sedie, piatti o bicchieri sono tavoli, sedie, piatti o bicchieri: senza alcun senso in aggiunta, significato ulteriore, valenza allusiva. 

In questo tempo la trama è un insieme di battute da leggere, le battute da leggere sono frasi di prova, le frasi di prova sono un accenno al futuro. In questo tempo gli attori sono attori mentre i personaggi non sono ancora personaggi: compaiono ad intermittenza, come ombre passanti, e soltanto nel momento in cui – quasi per un involontario trasporto dato al mestiere – l’interprete calca il suo tono, plasma maggiormente l’espressione dovuta, trova il gesto che sarà replicato ogni sera.
In questo tempo – sul palco – possono stazionare gli oggetti di vecchi spettacoli, di spettacoli che replicheranno in serata, di spettacoli destinati a venire: le sedie di Jucatùre, ad esempio, la radio di Chiòve; sulla sinistra in disparte il letto di Lali (ancora Chiòve), nel mezzo il tavolo dei quattro che fingeranno la finzione di una rapina fintata (ancora Jucatùre); in fondo il retro-cucina: di Jucatùre e di Chiòve. Tra questi, ciò che potrebbe servire a Liune, l’opera di cui spiamo la prova aperta (o lettura drammaturgica) a Sala Assoli: un tavolo da stiro; un attaccapanni ricolmo; abiti imbustati; una scatola di tela e di legno; una sedia a rotelle. Ancora: una corda, un baule blu col manico in ferro, pantaloni e camicie; una busta di plastica, una tovaglia azzurra, ancora pantaloni e camicie; una tazza, una borsa di pelle, ancora pantaloni e camicie e maglie e una giacca.
A ben vedere gli interpreti stessi sono insieme di passato, presente e futuro teatrale: Tony Laudadio ed Enrico Ianniello sono, sull’assito medesimo, in Jucatùre: da due giorni e tra due ore. Chiara Baffi sarà, sull’assito medesimo, la Lali di Chiòve: come lo scorso anno e tra quattro ore. Tony Laudadio, Enrico Ianniello, Chiara Baffi (e Fulvia Carotenuto e Antimo Navarra) saranno Liune: forse sull’assito medesimo, in un giorno non prevedibile.
C’è un tempo nel quale uno spettacolo non è ancora uno spettacolo. Di questo tempo cosa tenere a mente, cosa portare con sé, cosa serbare fino alla sera per scriverne poi a mattino inoltrato? Il fruscio dei copioni, quando una pagina porta alla pagina dopo; il giallo visibile che evidenzia le battute del singolo interprete; l’inciampo in un termine; l’assenza fisica di ciò che viene nominato; il momento nel quale – mentre si legge una scena alla sinistra del palco – fissiamo (sulla destra) Chiara Baffi attenta a cercare il suo prossimo attacco, la sua prossima parola da dire. L’imperfezione perfetta di un movimento, di una pronuncia, di una piccola attesa. Un silenzio di troppo, qualche scheggia di vuoto. Il soffio alle unghie su cui lo smalto s’asciuga. Il rossore degli occhi. Una lacrima che già tende a divenire una lacrima.
C’è un tempo nel quale uno spettacolo non è ancora uno spettacolo. Questo tempo, se possibile, andrebbe mostrato. Al pubblico. Ai critici. Andrebbe mostrato questo tempo nel quale ogni singola lettera ha un peso gravissimo, nel quale ogni accenno di mimica può essere una fortuna o un errore; nel quale è certezza l’incertezza ma nel quale – anche –  un’incertezza può divenire certezza. Questo tempo nel quale qualcosa si prova, riprova, la si muta d’un poco, la si riprova di nuovo per poi lasciarla sparire. Questo tempo nel quale qualcosa che non si è provata per niente la si trova in un attimo e, da quell’attimo, è destinata a restare. Questo tempo senza tempo, che può durare qualche ora, un pomeriggio, il pomeriggio e la sera, la notte, la mattina e una settimana, due mesi, tre anni: andrebbe mostrato. Al pubblico. Ai critici. Andrebbe mostrata la delicata fatica, la ripetizione che logora, l’illusione che stanca; la gioia di un passaggio ed il passaggio della gioia; la convinzione acquisita, qualche dubbiosa inquietudine, la sensazione del lavoro da compiere quando è compiuto tutto il lavoro possibile.
Andrebbe mostrato questo tempo che viene prima: prima dei cartelloni, delle comunicazioni alla stampa, della vendita dei biglietti; prima della fila ai botteghini, del vocio nel foyeur, del cappotto lasciato in deposito; prima della ricerca del posto, di una comodità momentanea, dell’ultimo sguardo all’intera platea.
Il pubblico rumoreggia, ancora rumoreggia poi sibila, spiffera, abbassa ancora il suo tono: le luci si spengono, qualcuno disturba il silenzio, qualche ritardatario si affretta inciampando nei passi. Le tende del teatro si chiudono, il mondo è all’esterno. Il pubblico diventa il pubblico mentre gli attori, nel retro d’assito, s’accingono a diventare personaggi.
Prima c’è stato un tempo. Quel tempo andrebbe mostrato. Quel tempo è il tempo che dà senso e valore al momento dello spettacolo. Il tempo in cui una sedia interrompe il passaggio di un attore; in cui una frase ha del fiato di troppo; in cui non c’è una finestra dove è previsto vi sarà una finestra.
Questo tempo al pubblico, questo tempo ai critici.
È un dono che il teatro può ancora concedere.

 

 

 

Liune (lettura drammaturgica)
di Pau Mirò
traduzione Enrico Ianniello
regia Enrico Ianniello
collaborazione artistica Simone Petrella
con Chiara Baffi, Fulvia Carotenuto, Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Antimo Navarra
durata 1h 20’
Napoli, Sala Assoli, 29 dicembre 2012
in scena il 29 dicembre 2012 (data unica)

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