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Thursday, 05 December 2013 01:00

Coro a due voci nel dramma di Ibsen

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Scena prima, interno di casa Tesman. Hedda appare di spalle, indossa una lunga camicia da camera azzurra, ha in mano una lampada ad olio, fissa per un attimo la platea, poi venera il grande quadro che domina la scena, in cui è ritratto suo padre, il defunto generale Gabler, si reca al pianoforte, dove accenna un romantico e caldo motivo musicale, infine esce.
Tutto si tiene, tutto lascia presagire uno sviluppo avvincente della messa in scena, fatta di silenzi e luci ad hoc. Così non sarà. Il piano luci resta d’effetto, ma non il resto.

Dietro lo spaccato di vita, dell’affascinantissima protagonista del dramma di Henrik Ibsen, non si muovono interpreti degni di lode, fatta eccezione per Manuela Mandracchia e Luciano Roman. Manuela Mandracchia, che veste i panni della protagonista assoluta dell’opera, ci regala un’interpretazione avvincente, spigliata e naturale. I suoi gesti, i suoi sguardi, i moti d’ira, i silenzi, rendono perfettamente il carattere descritto da Ibsen. In quel non detto, tutta la solitudine del dramma esistenziale di Hedda, l’incapacità ad accettare la mediocrità che la circonda; nei suoi impeti la ricerca ossessiva del successo, della volontà di potenza che la condurranno nell’intento di riuscire a superare la contraddizione tra la sua natura e il mondo, di essere regista indiscussa della propria e altrui vita, ad adoperarsi in azioni sconsiderate, fino al gesto estremo del suicidio.
Interpretazione interessante anche quella di Luciano Roman, nei panni del giudice Brack. Roman dà prova di esperienza e bravura nella resa reale dello squallore morale di quell’uomo che, biecamente, tenta di sedurre la giovane sposa vinta dalla fragilità, su di lei userà tutta la sua protervia, a lei darà prova del male oscuro di cui è padrone.
Mandracchia e Roman appaiono interpreti rilassati, non così per gli altri, che si affannano, con uso eccessivo della tecnica teatrale, di cui, evidentemente, dispongono, in una rincorsa di quegli spiriti che non sono riusciti a possedere fino in fondo. Tra pause prolungate, moti scattosi e voci di gola, le loro performance non convincono. Vestono panni che non gli appartengono, che non sono riusciti a fare propri. Difficile credere ad una scelta registica, più probabile che il ruolo professionistico con cui si propongono, sia per ora di là da venire. Non piace la scelta di Germano Mazzocchetti per la musica, sempre identica ad ogni cambio di scena, ed unica dall’inizio alla fine, a voler, forse, sottolineare l’immobilità del tempo, o l’eterno ritorno dell’eguale, non c’è né l’uno né l’altro nell’opera di Ibsen. C’è, invece, movimento, c’è palpitazione esistenziale, c’è nascondimento e disvelamento, c’è il non detto e il presagito, ci sono pause ed accelerazioni, c’è un percorso nell’inconscio di assoluta fascinazione. Carla Teti fa un buon lavoro con i costumi, in linea con la scenografia, ma avremmo voluto vedere qualcosa di diverso, di nuovo, avremmo voluto vedere corpi senza orpelli in movimento scenico, avremmo voluto assistere ad una sfida sperimentale all’ambientazione ottocentesca, così non è stato.
Al ritorno da un lungo viaggio di nozze, durato cinque mesi, in cui Jorgen Tesman, il novello sposo, ha speso tutto il suo tempo a reperire materiale per completare la ricerca sull’economia domestica del Bramante nel medioevo, perché diventasse materia del suo prossimo libro; Hedda Gabler si ritrova a dover fare i conti con un marito sprovveduto e noioso, sposato solo per convenienza; convenienza calcolata male, visto che Jorgen ha dovuto indebitarsi fino al collo per garantirle la continuazione di una vita agiata, a cui l’aveva abituata l’aristocratico padre. Hedda Gabler, fin dall’atteggiamento della zia Jule (zia di Jorgen), e dalle espressioni che l’accompagnano, appare come una grande conquista sociale per la famiglia Tesman. Lei, bellissima e facoltosa, è donna irresistibile, intelligente ed intrigante, scaltra, cinica ed altera, è corteggiatissima ed impenetrabile. Jorgen non è alla sua altezza, e così spera di far fronte a tutte le spese ordinate da sua moglie, con l’assegnazione di una cattedra universitaria, ma per ottenerla dovrà competere con Løvborg, giovane e affascinante intellettuale, antico amore di Hedda. Quando Løvborg fa il suo nuovo ingresso nella vita della giovane sposa, il ricordo di un gioco amoroso intrecciato qualche anno prima si scontra con il legame, intanto da lui intessuto, con l’insignificante Thea, la cui anima pura è contenuta nel libro che Løvborg si appresta a scrivere. Attraverso lunghe conversazioni e una relazione segreta (Thea è sposata ad altro), ha, infatti, preso corpo un manoscritto che tratta dell’avvenire. Sarà proprio questo, il cui ruolo centrale è sottolineato dalla copertina rossa in contrasto con i toni scuri della scenografia, a determinare il susseguirsi di avvenimenti nefasti. Jorgen è invidioso di quel geniale trattato diviso in due parti, di cui la prima tratta delle forze sociali dell’avvenire, la seconda del cammino della cultura nel futuro; mosso dall’invidia Jorgen raccoglie, e non restituisce immediatamente, il manoscritto smarrito da Løvborg; sua moglie ne approfitterà per commettere, dandolo alle fiamme, il primo dei suoi infanticidi. Il testo è infatti considerato, per loro stessa ammissione, figlio di Thea e  Løvborg. Poi Hedda, punterà al suicidio di quel misto di genio e sregolatezza a cui è stata costretta dagli eventi a rinunciare, Løvborg appunto. E qui altra grande delusione per lei, quando scoprirà che Løvborg muore, sì, ma non suicida come ella avrebbe sperato, ma in seguito ad una lite, per mano di un’altra donna. Quando Jurgen apprenderà della morte dell’amico-rivale, in preda ai sensi di colpa, si dedicherà anima e corpo alla riscrittura del manoscritto bruciato, coadiuvato da Thea che ne conserva gli appunti, e non si curerà del ricatto a cui Hedda è sottoposta dal giudice Brack, da tempo desideroso di possederne il corpo. A questo punto Hedda non reggerà più la miseria della sua esistenza e porrà fine a tutte le sue frustrazioni, e alla creatura che le cresce in seno, con un colpo di rivoltella alla tempia. Un applauso, ed un sospiro di sollievo per i protagonisti, accompagna gli inchini finali.

 

 

 

 

Hedda Gabler
di
Henrik Ibsen
regia Antonio Calenda
con Manuela Mandracchia, Luciano Roman, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Compagnia Enfi Teatro
scene Pier Paolo Bisleri
costumi Carla Teti
luci Nino Napoletano
musiche Germano Mazzocchetti
lingua italiano
durata 2h
Gubbio (PG), Teatro Comunale, 3 dicembre 2013
in scena 3 dicembre 2013 (data unica)

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