“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 01 December 2013 01:00

Amleto, il tuo vero nome è Ofelia

Written by 

Le esequie di Ofelia avvengono quando manca un’ora alla fine dell’opera. Quinto atto, scena prima. Un rito, “monco”, si trascina in ribalta. Dobbiamo immaginare la grande pedana a semicerchio, le lampade fioche, il silenzio battuto dai passi lenti e tre attori (Re, Regina, Laerte) che portano in dote un cadavere. Di un quarto (Amleto) intuiremo la presenza: la punta dei capelli, forse gli occhi, il capo intero magari: egli s’affaccia, spiando la recita e aspettando il momento in cui toccherà prendervi parte. Un quinto interprete (il prete), fisso dritto a sinistra, attende di dire la sua battuta: “Le esequie sono state celebrate nei limiti consentiti”. Dobbiamo immaginare il pubblico, a ridosso del palco del Globe, afferrato alla gola dalla commozione, fisso nello sguardo, immobili i muscoli, ferma ogni espressione mentre segue gli eventi: gli uomini trattengono il fiato e disperano di non essere donne per potersi dare liberamente alle lacrime; le donne s’indignano come s’indignano di solito gli uomini e, zitte, tormentano le labbra e stringono i pugni, desiderando la vendetta.

“Mettetela nella terra” – prorompe Laerte – “e dalla sua carne bella e incontaminata possano spuntare le viole. Io ti dico, zotico d’un prete, che mia sorella sarà un angelo misericordioso, quando tu urlerai nella tomba”.
“Fiori al fiore. Addio”: la regina.
Che il dramma, adesso, prosegua.

 

Una citazione: “Shakespeare scrisse, o perlomeno rimaneggiò, un copione antico. E scrisse le parti. Ma non le distribuì. Perché le parti le distribuisce l’epoca. Ogni epoca successiva. È lei che manda in scena i suoi Polonio, i suoi Fortebraccio, i suoi Amleto e le sue Ofelia. Prima devono passare dal guardaroba teatrale. Basta che non vi si trattengano troppo a lungo. Possono mettersi in testa enormi parrucche, radersi i baffi o applicarsi barbe finte, indossare gli aderenti pantaloni medievali o buttarsi sulle spalle dei mantelli alla Byron, recitare in cotta di ferro o in frack. In realtà non cambia niente. Basta che non si trucchino in modo esagerato. Devono avere i volti di ora, contemporanei. Altrimenti non recitano l’Amleto, ma un dramma in costume storico” (Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo).
Ed ora a Elsinore, quattro secoli dopo…

 

Elsinore, quattro secoli dopo.
Un lembo di terra: umido, buio, friabile. Al centro una tomba, al centro della tomba un cadavere, al centro del cadavere un cuore che batte, che torna a battere, che torna a battere per un’ora, per quest’ora in cui lei – Ofelia – torna viva apparenza che vive, spettro di carne e di stoffa, immagine di giovane attrice o personaggio che recita ancora nel tentativo di riformare il copione, di ricreare il suo ruolo.
Un lembo di terra e, nel suo centro, Ofelia: “Sì, sono la povera, matta, Ofelia; condannata a vagare nella notte, ricacciata fuori dal sepolcro. Il mio corpo morto torna a vedere i raggi della luna, la luna danese che illumina i vivi e i morti. Oh me sciagurata! Ho visto quel che ho visto, vedo quel che vedo…”.
Pallida di carnagione, più pallida ancora per quel po’ di trucco che la imbianca, più pallida poi per il fascio di luce che disegna il tondo lunare sulla nera parete di fondo, Ofelia avanza a ribalta: guardata, ella guarda chi la guarda: “Voi potete vedermi”, “Ascoltatemi, credete ai fantasmi”, “Vi racconterò dei segreti”.
Un velo chiaro le fascia il corpo nudo; i capelli ora sciolti, ora  tenuti, ora di nuovo sciolti; gli occhi cerchiati di scuro.
Ofelia: “casta come il ghiaccio, candida e pura come la neve”. Ofelia: fiore tra i fiori, virginale fanciulla inviolata. Ofelia: stupida oca, sguattera di casa, peccatrice che ha conosciuto la passione e donna costretta al suo compito, al suo dovere, ai suoi obblighi. Ofelia: di cui tutti hanno abusato dandole ordini; imponendole comportamenti e finzioni; consigliandole mestizia e pudori, silenzi e riserbo, privazioni ed inganni. “Sii cauta, dunque; la migliore sicurezza sta nella paura” (il fratello). “Non voglio, d’ora in avanti, che tu disonori nemmeno un momento di libertà col concedere parola o discorso al principe Amleto. Guarda che te lo comando. Vieni via” (il padre). “Vattene in convento” (Amleto).
Ofelia: ridotta a un’ombra sottile, a vento che passa leggero, a riflesso labile, quasi invisibile. Ofelia: che s’affaccia – muta – nella seconda scena del primo atto; che nella terza scena dell’atto medesimo subisce le parole degli uomini senza emettere un fiato di risposta, di ribellione, di rivolta. Ofelia: drammatica forse; melodrammatica spesso; tragica mai. Ofelia: costretta dall’autore – “Oh William, sai che gli spettatori non mi sopportano? Mi trovano scialba, inetta” – a fare da orologio al principe (che scambia il tempo del lutto col tempo di recita) o usata, come l’ultima tra le comparse della compagnia, per una piccola scena metateatrale.
Ofelia, che adesso prende parola tornando come tornano le anime in pena, che cercano ancora il proprio tempo, il proprio diritto, la propria ragione, il proprio sorriso.
Ofelia, dunque, e finalmente da sola, da sola in quest’Hamletelia che avviene quando Geltrude è un ricordo, Polonio è una carcassa mangiata dai vermi, Claudio è tra la polvere, Yorick non è più neanche un teschio mentre Amleto è un nome da lapide e di Elsinore non resta che questo piccolo scorcio di un cimitero in cui si fa memoria, ricordo, citazione e teatro ovvero: recita, gioco, finzione.
Ofelia da sola, finalmente, ma non da sola davvero se – attrice anch’ella, quanto e più di Amleto che recita Amleto in Amleto – può permettersi di rendere parte del testo in inglese, parte in italiano; se può permettersi di imitare la lussuria della regina o il tormento del principe; se può permettersi di scimmiottare le versioni che – di anno in anno, di decennio in decennio, di secolo in secolo – hanno offeso o deriso quest’opera immensa e, perciò, incapace d’essere resa davvero come merita.
Attrice dunque, Ofelia, prima che personaggio o meglio personaggio che recita la sua recita e che, per questa sola occasione, recita anche le recite che le altre figure dell'Amleto hanno da recitare: atto primo, scena quinta; atto secondo, scena seconda; atto terzo, scena quarta; atto quinto, scena seconda. 
Attrice dunque, Ofelia, e pertanto libera di rivendicare i tratti che non ha ottenuto, la parte che non le è stata scritta, le battute che non le sono spettate. Attrice e d’altre attrici invidiose – personaggio e d’altri personaggi ora interprete – Ofelia accenna scampoli che Shakespeare ha composto per Lady Macbeth, per Giulietta, Desdesmona, per Cleopatra, desiderandone lo strazio convulso, la poesia da balcone, il furore finale, la morte immortale.
Attrice dunque, Ofelia, quando rivive singoli frammenti del proprio ruolo (“Una volta mi era stato ordinato di passeggiare per la stanza, leggendo un libro”); quando muta brandelli del testo (“Perfidia, il tuo nome è Gertrude”; “Fragilità, il tuo nome è Amleto”); quando s’impossessa dei consigli del principe per fare lezione da capocomico (“Non segare troppo l’aria con la mano”; “Non essere nemmeno troppo controllato”; “Adatta il gesto alla parola, e la parola al gesto”); quando del dramma fa analisi, esegesi, commento (“Amleto era incompreso, e anch’io: incompresa”; “Talvolta mi vedeva come una donna lasciva. Come sua madre. Come tutte le donne”; “Alla corte di Elsinore tutti sanno tutto di tutti, tutti spiano tutto di tutti”).
Attrice dunque, Ofelia, e attrice che si fa attrice d’altre attrici (Sarah Bernhardt); che fonde autori ed altri autori (Steven Berkoff; Vladimir Holan); che moltiplica immagini, iconografia, riferimenti artistici (il dipinto di John Everett Millais) nel tentativo di ricomporre la propria immagine non come gli altri l’hanno voluta (l’autore, i personaggi maschili, le interpreti cui è spettato il suo nome; gli artisti che vi si sono ispirati, i critici che hanno analizzato, gli spettatori che hanno frainteso) ma com’ella si vuole, com’ella si desidera, com’ella si sente, si vede, si percepisce. Personaggio pirandellianamente rimasta senza autore e senz’opera (o meglio: con un autore che non ha saputo renderle l’opera che meritava, immischiandola nel dramma delle condizioni imposte, costringendola ai pensieri obbligati, riducendola a una maschera di se stessa), questa Ofelia si trascina di nuovo sul palco, e oltre palco − alternando istrionismo, caricatura grottesca, divertita espressione di sé e capacità mimica, propensione metateatrale, poliglossia giocosa ma perfetta − per chiedere attenzione, per ottenere ascolto, per avere giustizia che sia una nuova forma, la propria forma, la forma che non ha mai ottenuto in quattro secoli.
“Buonanotte dame, buonanotte uomini: ci vediamo al prossimo plenilunio. Vendicate la mia morte. Ricordatevi di me, remember me…”.
È l’ultimo sussurro, mentre cominciano ad imporsi gli applausi.

 

 

 

 

Hamletalia
di Caroline Pagani
interpratato e diretto da Caroline Pagani
consulenza musicale Carlo Majer
produzione Teatro Baretti
foto di scena Pierluigi Mulas
durata 1h 20'
Napoli, Teatro Elicantropo, 28 novembre 2013
in scena dal 28 novembre al 1º dicembre 2013

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook