“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 November 2013 01:00

Calcio, canzoni e Zamberletti

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Trentatré anni fa. Una vita. Il terremoto segnerà per sempre un momento di rottura, sarà la cesura tra il prima e il dopo nelle narrazioni delle storie personali e delle comunità che lo hanno vissuto, per chissà quanto tempo ancora. Come commemorare un evento di tale portata? Come tradurre la forza terribile dell’evento, i cambiamenti che ne sono scaturiti sul piano letterario e teatrale?

Non è un caso che la chiave adottata per mettere in scena ciò che ha diviso il tempo (come un prima e dopo la guerra) sia quella del ricordo, dell’imprescindibile rievocazione dei fatti – grandi e piccoli, collettivi e privati – della gioventù, del passato custodito sotto la teca del mito, della memoria di quelle vicende importanti nelle vite di bambini e adolescenti: gli eventi sportivi, specialmente le partite di campionato, le canzoni da hit parade. Sono questi gli elementi evocativi che fanno da cornice alla narrazione dei momenti salienti e drammatici della nuova storia, quella che comincia dopo novanta (o cento) lunghissimi interminabili secondi. Da lì inizia l’aneddotica del terremoto che segue un andamento consolidato, un canovaccio stabile su cui si tessono le trame dei tanti resoconti personali che insieme costituiscono il patrimonio condiviso della memoria collettiva.
E così da quelle 19 e 34 del 23 novembre prende l’avvio la rievocazione degli elementi caratterizzanti il sisma che ne hanno delineato la fisionomia: la gravità delle distruzioni, l’immane numero dei morti, dei feriti, dei senzatetto, gli scenari apocalittici dei paesi più colpiti, ma soprattutto la mancanza di una comunicazione tempestiva che facesse scattare immediatamente i soccorsi. I quali, una volta accertata la vastità della tragedia da parte delle istituzioni, sono partiti colpevolmente in ritardo e sono stati gestiti in maniera a dir poco caotica, giungendo a destinazione anche dopo 48 ore, e comunque preceduti dagli organi di stampa. Come non ricordare poi l’angoscia dei superstiti che non avevano di che scavare per salvare la vita ai familiari sepolti sotto le macerie, o la fretta di seppellire presto i morti senza il tempo di poterli piangere perché il mondo era letteralmente crollato addosso e non si aveva più un luogo fisico e mentale dove collocarsi per riflettere sull’accaduto? Non ce n’era il tempo.
È un racconto teatrale per voce sola Il fulmine nella terra. Irpinia 1980, il monologo di Mirko Di Martino andato in scena sabato 23 novembre all’ex Carcere Borbonico di Avellino. Un racconto dove la voce del narratore si fa voce di un popolo intero, assumendo le cadenze del vernacolo per dar corpo alle ansie e alle riflessioni, dolenti e tragicomiche, di chi ha perso parenti, case, lavoro, ma che ancora non sa di dover perdere qualcosa di più profondo: il senso di appartenenza ad una collettività. Col terremoto si disgrega non solo un tessuto paesaggistico e urbano, ma specialmente un tessuto sociale e culturale, un legame con un passato che ha perso, insieme ai centri storici, la capacità di definire una identità. L’effimero tentativo di insediare le industrie nelle zone colpite non allenterà che di qualche anno lo svuotamento dei paesi dell’alta Irpinia, dai quali i giovani continuano a partire per studio o per lavoro senza più farvi ritorno. La narrazione dell’autore segue il filo di quelle settimane con uno sguardo sufficientemente documentato e attento, frutto di un accurato lavoro di ricerca (all’epoca Di Martino aveva solo cinque anni), impastando la materia di voci che prepotentemente entrano in scena fino ad annullare la distanza del tempo. La scrittura è colloquiale, piena di considerazioni ad alta voce, di anacoluti, di riflessioni amare. Il coro dei figli d’Irpinia, dei contadini, delle vecchie, dei giovani esprime una fede antica fatta di rassegnazione e fatalismo, un senso di fiera dignità di chi ha vissuto per secoli nell’indigenza e che non ha paura di emigrare per sopravvivere e acquisire il diritto a quella cittadinanza troppo a lungo ignorata, “perché è meglio sentirsi italiani all’estero che stranieri in Italia”.
Certo non era un’Irpinia tutta marginale o inconsapevole quella che ha subito il sisma, ma le generalizzazioni sono licenze necessarie all’economia drammaturgica e al fascino affabulatorio del racconto. Orazio Cerino, giovane attore e unico protagonista, ammalia la platea alternando toni leggeri ad altri più dolenti e riflessivi per circa un’ora, aderendo perfettamente agli umori che percorrono il testo. Ed è un ricordo a misura di bambino quello che introduce il monologo, la sconfitta dell’Inter fresca campionessa d’Italia sul campo della Juve nell’ottava giornata di campionato. Eh sì, perché molti telespettatori erano sintonizzati sulla replica preserale di un tempo di una partita di serie A, e rimarrà tristemente famoso il gol di Ambu al 34° minuto. Non mancano le canzoni a intervallare i capitoli di un flusso narrativo che si fa sempre più incalzante e frenetico, urgente. Momenti musicali che stemperano la tensione e rievocano un mondo analogico di vinili e transistor, quando bastavano quattro luci psichedeliche, una cantina e un giradischi a creare l’illusione di una discoteca, quando Miguel Bosé trionfava al Festivalbar con Olympic Games, Diana Ross dichiarava di sentirsi sottosopra per amore (Upside Down) ed Enzo Malepasso scippava il secondo posto del festival di Sanremo a Pupo con l’affermazione più leggera e banale della musica (Ti voglio bene).
La conclusione si riassume nell’illusione che il terremoto abbia costituito un’occasione di azzeramento e ripartenza, carica di aspettative e promesse. “La nostra vita è nel futuro, adesso. In questo magnifico gioco del progresso che il terremoto ci ha regalato. Che in tutti i giochi si vince e si perde, si sa. Ma noi, chi lo sa se abbiamo vinto o perso?”.

 

 

Il fulmine nella terra. Irpinia 1980
di Mirko Di Martino
con Orazio Cerino
aiuto regia Melissa Di Genova
musica brani di repertorio
produzione Teatro dell’Osso
durata 1h
Avellino, Carcere Borbonico, 23 novembre 2013

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