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Tuesday, 26 November 2013 01:00

A tempo di musica

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Una luce fosca e polverosa è la cifra cromatica della tragedia di Seneca messa in scena da Pierpaolo Sepe. Solo il sangue dell’infanticidio finale getterà una nota di colore in questo lucore buio, in questo buio squarciato di sciabolate di luce, in questa penombra eterna che è, a dispetto del disco solare (qui recante il simbolo del dollaro), nume tutelare della barbara principessa, al centro della scena, chiuso da una recinzione.
Pasolini ha scritto che “Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico”. Medea il mito di confine. Medea e la Colchide sono il personaggio/luogo mitico in cui Oriente e Occidente si incontrano, vengono in contatto.

L’Oriente subisce il fascino dell’Occidente, il giovane straniero, leggero, liberatorio rispetto ad una terra onusta di storie, di miti, di tradizioni. Non vi è più padre, fratello, patria. Non vi sono più legami, doveri. Solo la potenza sconquassante e travolgente della passione, del desiderio.
Questa è storia. Una vecchia storia. Che i protagonisti si sono lasciati alle spalle. Giasone non è più il giovane principe alla ricerca della legittimazione per ottenere il regno che gli spetta (il vello d’oro) e Medea non è più la giovane e ammaliante principessa straniera, il trofeo da conquistare. Sono vecchi. Nuove ragioni, nuovi amori, nuove esigenze. Una vecchia storia. Anche banale se la si guarda con occhio prosaico. “Il nuovo amore caccia via l’antico, nell’ombra della sera”. L’azione in Seneca comincia al massimo della tensione tragica, al momento del bando che ha colpito Medea, straniera in terra straniera, salvata dalla morte dalle lacrime di Giasone, a quanto pare, ma condannata all’esilio, da sola, a non avere più una patria, nemmeno adottiva, ad abbandonare gli affetti, ad abbandonare i figli, che sono dell’uomo. “Esco di scena, ma in che casa mi mandi?” domanda a Giasone.
Il seguito lo conosciamo tutti. L’ambiente è un non-luogo post-moderno, una fabbrica dismessa. Sulla stessa lunghezza d’onda gli abiti dei personaggi. Una lunga tunica nera con colletto e polsini di strass per Medea (Maria Paiato). Pellicciotto e cappello texano per Creonte (Orlando Cinque). Un severo abitino nero con colletto e polsini bianchi e una generosa scollatura dietro per la nutrice (Giulia Galiani), giovanissima rispetto a Medea. Occhiali da sole per il corifeo (Diego Sepe). Giacca militare per Giasone (Max Malatesta). Non-luogo, non-tempo. Lo scenario potrebbe appartenere al passato remoto come ad uno stralunato futuro. Il mito è eterno, questo non è un problema. Notevoli le soluzioni sceniche adottate. Dal volto cereo degli uomini, che suggerisce l’archetipo della maschera, alla scelta del coro ridotto ad un solo elemento, personaggio onnipresente in scena, muto e nell’ombra, animato da delirio visionario quando commenta o introduce l’azione.
Scivolano le parole di questa Medea. Rotolano sofferenti, sgorgano dallo stomaco, dalle viscere, dal tormento di una donna abbandonata, ripudiata, messa da parte. Lei che ama ancora, non corrisposta, Giasone, lo abbraccia sensuale, inutilmente ormai. “Se cerchi, infelice, la misura dell’odio, ebbene è la stessa dell’amore”. Scivolano senza lasciare traccia le sue parole. Senza apprendersi nella mente. Senza colpire. Il tormento della donna e il tormento della madre sembrano far parte dell’antefatto, del non detto, del presupposto. L’unico elemento che sembra prevalere è la lucida follia della risoluzione finale. “Io diventerò Medea”. La consapevolezza di aver trovato il punto dove colpire. I figli. Ha appreso presto la lezione dell’Occidente Medea. Ha appreso il pragmatismo. È una tragedia del disincanto Medea. Ha appreso che non ci si pone più domande su identità, valori. Si agisce. E lei agisce. “La mia sola pace è vedere tutto cadere in rovina”. Nel testo originale i bambini sono uccisi in scena. Qui le figure stilizzate sono tracciate col sangue su due fogli di carta e ostesi al pubblico. Dovremmo averne orrore, ma ormai anestetizzati dall’orrore quotidiano assistiamo impassibili anche a questo. Rotolano le parole, come sassolini in un torrente. Nemmeno gli accostamenti al contemporaneo, le poesie dei prigionieri di Guantanamo o il ricordo della prigione di Lubyanka, riescono a staccare davvero questa tragedia dalla pagina scritta, dall’esercizio letterario, a darle quel potere dirompente del mito.
Medea è figura titanica dell’immaginario collettivo. Questa Medea è una donna dolente. Sconfitta. “Chi nulla può sperare, di nulla dispera” dice la nutrice. Le parole non si apprendono nella mente. Resta la musica. Il tappeto sonoro che forse avrebbe dovuto fare da sfondo a quelle parole o magari da contrappunto, diventa protagonista. I suoni scandiscono l’azione, suggeriscono lo stato d’animo, risvegliano dal torpore emotivo.

 

 

Medea
di 
Lucio Anneo Seneca
traduzione e adattamento Francesca Manieri
regia Pierpaolo Sepe
aiuto regia Luisa Corcione
con Maria Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Diego Sepe, Giulia Galiani
scene Francesco Ghisu
costumi Annapaola Brancia D’Apricena
luci Pasquale Mari
trucco Vincenzo Cucchiara
foto di scena Pino Le Pera
direttore di scena Clelio Alfinito
tecnico elettricista Carmine Pierri
realizzazione costumi Sartoria Orlì
assistente volontario scene Valeria Mangiò
assistente volontario costumi Claudia Volpe
assistente volontario regia Simone Giustinelli
grafica Luca Mercogliano
produzione Fondazione Salerno Contemporanea, Teatro Stabile di Innovazione
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Teatro Nuovo, 22 novembre 2013
in scena dal 22 novembre al 1° dicembre 2013

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