“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 23 November 2013 01:00

Tante parole, senza carattere

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Il palco è un imbuto simbolico, una sorta di cavea o di grotta post-moderna che tende a veicolare attenzione ed ascolto verso il centro. Quinte nere sigillano ogni lato, ogni pertugio, ogni fuga d’aria possibile costruendo una cappa totale, da cui nessuna distrazione è consentita, da cui non è consentito nessun sollievo momentaneo. Nel mezzo il divano rosso, unico vero arredo di scena, mentre tra quinta e quinta brillano intense intercapedini a neon. A vista sembra operazione interessante: sigillare tutto lo spazio consentito, attraendo ogni sguardo della platea perché venga sospinto e convogliato esattamente nel punto – il divano – dal quale verranno le parole.

La scelta sembra dovuta al rispetto che si deve a Prima del silenzio, dramma di relazione e d’analisi scritto da Patroni Griffi in un tempo diverso (gli anni Settanta di lotte e di viaggi, di responsabilità collettive e di fughe solitarie, di facile e più o meno sincera interpretazione di se stessi come bohémien o flâneur) ma con motivazioni che, in parte e solo in parte, potrebbero ancora incidere sugli umori del pubblico: quanto conta la parola? Che uso abbiamo fatto della possibilità di costruire discorsi? Cosa ci siamo raccontati (o cosa ci è stato raccontato) davvero negli ultimi trenta o quarant’anni? Abbiamo svalutato le parole in una vocalità futile, in una retorica vischiosa e melensa, in un’opportunistica proliferazione del niente? E che rapporto c’è tra le parole e le cose? E qual è il valore delle parole di chi sta tramontando; quali parole vuol spendere chi deve avanzare, affermarsi, prendere posto? Possono le parole già usate trasmettersi a chi continuerà a esistere, possono essere un lascito, un’eredità, una conservazione? “È difficile, alla mia età, ritrovarmi in un giovane” proferirà Gullotta ma è la Parola stessa – la Parola in quanto tale – a recitare la battuta di un testo che ha, forse, il suo centro in questo passaggio: “La parola che non trova asilo nella bocca dell’uomo è già morta, senza resurrezione”.
Proprio perché il testo è (volutamente) un eccesso verboso abbiamo, dunque, questa serratura scenografica, questa totale chiusura da cassa di risonanza: perché tutto sia dentro, perché non si perda una sillaba, perché risulti stagnante (e insopportabile) – davvero – la voce di chi ossessiona di continuo blaterando senza stanchezza, mentendo a noi per mentire a se stesso.
Proprio perché il testo è (volutamente) un contrasto generazionale (dunque rapporto d’astio tra corpi e pensieri diversi, tra atteggiamenti e prospettive differenti: “Tu non lo puoi capire, io non te lo posso spiegare”) si opta per l’asciuttezza della visione, macchiata soltanto da simboli, proiezioni, avvenenze in un bianco-nero da memoria: ecco che sul fondo o sui lati appaiono onde del mare, immagini della vecchia City o le sagome – fastidiose, tormentanti, caritatevoli o incarognite – delle persone (una moglie, un figlio, un maggiordomo) frequentate o amate nel tempo che fu.
Scontro tra passato e futuro ambientato in una coesistenza presente che non ha alcuna ragione per prolungarsi, Prima del silenzio è opera che costringe alla gabbia reclusiva un vecchio, che ha fallito artisticamente, ed un giovane che vuol apparire, tentare, provare, sparire e – vecchio e giovane – sono chiaramente emblemi della parte vetusta che crolla lentamente, s’affievolisce, si sfianca, si stanca, che arranca su se stessa ribadendo concetti ormai inattuabili (la generazione dei padri) e di quella che vorrebbe ma non sa ancora bene cosa volere; che potrebbe ma che non sa se riesce davvero; che forse comincia ma che non sa se porterà a compimento (la generazione dei figli).
Ma è anche – lo scritto di Patroni Griffi – una riflessione raggomitolata e insistente sulla facoltà, l’opportunità, la possibilità di fare racconto, di fare analisi, di generare prospettive e resistenze dialettiche e sul fallimento di tutto ciò, al cospetto di chi non vuol sentire, non vuol ascoltare o – semplicemente – non vuole ripetere ciò che è stato già usato e abusato: “Tu ti affidi alle parole ma le parole, lo vedi, non riescono neanche a trattenermi con te”.
Ed è – se vogliamo ancora – tutta una costruzione metaforica in cui il vecchio è il Discorso, il giovane è il Reale, per cui ciò che si sostiene è l’incapacità progressiva e acclarata di fare Discorso del Reale: come se il mondo proseguisse per la sua strada, mentre la chiacchiera continua a chiacchierare, logora oramai e insignificante. 
Per questo troppo che già c’è – l’opera è colma fino all’orlo di riflessioni su Arte, Società, Amore, Sesso, Libertà, Economia, Famiglia, Istituzioni, Cultura – fa bene Fabio Grossi a puntare sul buio scenotecnico, sulla povertà degli oggetti, sull’iconicità cromatica dei neon (rossi, ad esempio, ad inizio d’opera: allusione al sipario; gialli, ad un punto, quand’è giorno). Tuttavia questo, ci sembra, sia l’unico vero merito della messinscena poiché – per il resto – può davvero parlarsi di operazione che non rende la complessità originaria e che stanca subito mostrandosi – teatralmente – priva di spessore, di forza e di carattere.
La scarna capacità quasi fisica di Leo Gullotta nel sostenere un personaggio tanto carnale e così colmo di storie, di bugie, d’illusioni o menzogne; la recitazione manierata di Eugenio Franceschini, talmente corretto e accademico da produrre in scena non un giovane ma il giovanilismo più facile; la scelta (vista e rivista) di far apparire gli spettri del passato come sagome proiettate a parete e quella (aggiunta in eccesso, di cui non si sente il bisogno) di far calare ripetutamente dall’alto un gran telo – schermo o patina o velo proposto in ribalta – per aumentare l’incidenza pseudo-avvolgente degli effetti visivi (le pagine che svolazzano; le foglie che cadono; l’acqua che scorre) nonché il finale contraddistinto dalla gigantografia del Gullotta medesimo, icona-testamentaria o personalizzazione-mimica-del-discorsivo, segnalano quanto la messinscena di Prima del silenzio appartenga a una pratica teatrale che, oramai, replica costantemente se stessa, cercando piccole innovazioni apparenti (di natura tecnologica e architetto-scenografica in questo caso) perché non ci si accorga – per dirla col Brook dei medesimi anni in cui l’opera di Patroni Griffi fu scritta – che è “teatro mortale”.
Priva di una crudeltà che porti allo scontro muscolare, al contrasto tra corpi, alla cattiveria reciproca (una propensione al conflitto, alla rivolta, all’imbarbarimento che, pure, il testo sembra possedere) la forma di questo Prima del silenzio è – quindi – una noiosa e noiosamente infallibile alchimia di senso del dovere, di tradizionale concetto dell’innovazione, di vivacità interpretata con mestiere, di brillantezza ridotta in orpello cui è aggiunta la giusta dose di senso dell’ovvio, di intellettualismo auto-convincente, di sforzo ben fatto. Ne viene, per dirla ancora con Brook, “un lavoro senza qualità nuove, che non fa che ingannare se stesso”, intrattenendo il suo pubblico.
“Perdono per la parola sbagliata, per la parola male usata; perdono per la parola carpita, per la parola che seduce; perdono per la parola aumentata di potere, che si è data credito ed era da gettare; perdono per la parola che ha sfruttato i poveri, gli illusi, le vittime designate; perdono per la parola colta, che ha confuso gli innocenti; perdono per la parola povera, che ha fallito negli intenti: non le fate colpevoli, non le accusate, piuttosto condannate chi ha lucrato con esse, chi ha detto e non doveva dirle, quelle parole”.
Ecco: l’inefficacia di Prima del silenzio si misura esattamente tra la forza compatta dello scritto e la sterile pratica scenica, tra il vigore delle espressioni e la scarna forza sul palco, tra l’alto nerbo delle lettere e l’inconcludente gesto della loro recita.
Messinscena di “chi ha detto e non doveva dirle, quelle parole”, paradossalmente riesce – col suo fallimento – a dimostrare quanto lontano possano essere le intenzioni dal compimento, gli sforzi retorici dall’esercizio reale, il buon teatro scritto dal modesto teatro praticato.

 

 

 

Prima del silenzio
di Giuseppe Patroni Griffi
regia Fabio Grossi
con Leo Gullotta, Eugenio Franceschini
le apparizioni di Sergio Mascherpa, Andrea Giuliano
e con l'apparizione speciale di Paola Gassman
video Luca Scarzella
musiche Germano Mazzocchetti
disegno luci Umile Vainieri
risoluzione scenica Luca Filaci
disegno audio Franco Patimo
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Teatro Eliseo
in collaborazione con Fuxia – Contesti d'Immagine
durata 1h 25'
Napoli, Teatro Mercadante, 21 novembre 2013
in scena dal 20 novembre al 1° dicembre 2013

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