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Monday, 18 November 2013 01:00

Alle radici del Male

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La scena spazio vuoto, come vuoto universo all’atto della creazione. Si parte dalla Genesi – “o ‘dal’ Genesi, come direbbero i puristi” – per raccontare come in quello spazio vuoto possa insinuarsi ed allignare il Male. In scena un solo attore, portatore di parola, corpo e gesti, che dalla parola parte nelle sue definizioni primigenie, nelle sue formulazioni ancestrali, per andare alla radice ed alle viscere del Male, per raccontare una menzogna (quella della storia, che inganna) attraverso una menzogna (quella del teatro, che finge), per coniugare infine quella parola con l’espressione corporea e gestuale.

Il corpo in scena è quello di uno straordinario Francesco Manetti, inizialmente fasciato di candide vesti sottili che sembrano lino e che in realtà sono di carta. Per circa un’ora e un quarto la scena sarà tutta sua, e dalla ribalta promanerà un’energia debordante, come se l’attore dimenticasse d’essere uomo per farsi egli stesso macchina scenica. Macchina di carne viva che urla, suda e geme, le cui membra si flettono, si contraggono, e pulsano.
Agglomerato di carni in tensione, riprodurrà in ribalta l’essenza del male, allusa in una delle sue forme ipostatiche nella figura di Adolf Hitler, incarnazione del Male (quello supremo, con la ‘M’ maiuscola), simbologia inequivoca della barbarie del Novecento. Sintomaticamente, la lettera ebraica da cui si principia la Genesi presenta nel suo centro un elemento grafico che richiama un paio di corti baffetti: un’unica lettera principio del cosmo significativamente coincide con un mezzo baffetto principio del Male.
Comincia così una cosmogonia recitata a monologo, la mano destra a mimare una chioma – rigorosamente con la riga a destra – due dita sotto le nari a mimare i sinistri baffetti, la lingua ostentata, insinuante e oscena, come quella d’un cane cui la bramosia ferina umetta le fauci fino a farle grondare, fino a scomparire nel buio ed in un ridda di latrati, fino a che la mimica cede il posto al trucco di scena ed un barattolo di Nutella offre l’impiastro che colora nocciola una chioma vagamente “adolfina” ed i famigerati baffetti.
Il cane sbavante diviene così un Hitler al cioccolato, piegato sulle gambe, sempre più in basso, inginocchiato e quasi prono nel ripercorrere le tappe della creazione. L’urlo belluino, quasi un pianto, si mescola agli strepiti irradiati dall’altoparlante, fino ad un botto roboante che lo lascia in centro di scena, sempre inginocchiato, a scandire torrenti di vocali.
Ma quello che va in scena è ben lontano dall’essere (e da voler essere) una personificazione del Führer: sul palco ci si esprime per allusioni, per concetti generali, e quel che prende forma, nei gesti e nelle parole, è una quadreria d’immagini del Male, evocata fino all’estenuazione: estenuazione fisica del protagonista, estenuazione verbale e visiva degli elementi evocati, come la carta stracciata in brandelli infinitesimali e lanciata nell’aria in un tempo dilatato, sminuzzata e sparsa nel vento come le miriade di corpi dissolti nell’Olocausto, o ancora come l’estenuante teoria delle armi di ogni tipo evocate e mimate in una successione senza soluzione di continuità, quasi a trasformare quel corpo scenico in una macchina da guerra, capace di infliggere il male estremo in nome di un’idea esecranda.
Un’idea, quella del Male, che si alimenta col sangue, carburante della storia e che in A.H. si fonde e si confonde nella cosmesi della Nutella, trucco di scena, ma anche guano di melma e sudore in cui affondano e sguazzano le radici del Male medesimo.
Tutt’intorno macerie che rimbombano, crollando, danno il senso e la misura di quale sia l’approdo ultimo del Male: è l’uomo che manipola l’uomo; è l’uomo che prevarica l’uomo; è – infine – l’uomo che annienta l’uomo.
Manipolazione e annientamento: un piccolo burattino di legno in un lato d’assito diviene giocattolo d’una pantomima menzognera: manipolato, plasmato nei gesti e nei movimenti, ligneo simulacro della menzogna e della manipolazione nelle sue mani, egli lo afferra, lo piega in avanti come fosse uno sprinter sui blocchi di partenza, lo stende, lo risolleva, gli fa battere una mano sul cuore (di legno, che non ha), ne scimmiotta la posa piegata in avanti e ci si dondola alle spalle; una bacchetta di legno viene maneggiata simulando un naso che s’allunga, finzione nella finzione, che lo trasforma in una specie di Pinocchio fittizio, menzogna su menzogna. Il naso di Pinocchio si sposterà in breve in luogo dei baffetti, per poi diventare una bacchetta da direttore d’orchestra, con cui dirigere il sibilo sinistro degli allarmi antiaerei.
Il Male, la “riflessione” (se così sia poi giusto chiamarla) su di esso, si sposta dalla parola al gesto, al corpo, che si spoglia di ogni orpello rimanendo nudo avvolto in una nuvola bianca di talco, mentre la voce di Anthony and the Johnsons dispiega le note di Hitler in My Heart, quasi a voler suggellare la presenza del germe maligno nella coscienza umana.
Tutto questo è stato A.H. Ovvero una straordinaria performance di attore su una tematica che s’apparenta in teoria alle discussioni filosofiche sui massimi sistemi. Lasciando però un dubbio ed una perplessità: al di là del notevolissimo lavoro performativo di Francesco Manetti, cosa aggiunge questo testo, in termini di riflessione, che non sia stato già detto? Si esce davvero con l’accresciuta consapevolezza di essere andati in profondità alle radici del Male grazie alla visione?
Forse A.H. resta più negli occhi per la potente bellezza della visione oculare di quanto non rimanga nella coscienza per aver aggiunto alcunché alla visione concettuale.
E ci pare più limite che pregio.

 

 

A.H.
regia Antonio Latella
drammaturgia Federico Bellini, Antonio Latella
con Francesco Manetti
elementi scenici e costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
assistente alla regia Francesca Giolivo
fonico Giuseppe Stellato
organizzazione e foto di scena Brunella Giolivo
management Michele Mele
produzione stabilemobile compagnia Antonio Latella
in coproduzione con Centrale Fies
in collaborazione con KanterStrasse/Valdarno Culture
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Teatro Nuovo, 14 novembre 2013
in scena dal 14 al 17 novembre 2013

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