“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 21 November 2013 01:00

Attenzione a giocare con gli specchi

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In un precedente articolo dedicato al Premio Strega, Walter Siti, mi ero concentrato non tanto sulla trama quanto sulle categorie letterarie. La tesi era che con Resistere non serve a niente emergono due verosimili intenti a specchiarsi l’uno sull’altro. Mentre è reale-verosimile la tradizionale dicotomia che ha retto le sorti di questo prodotto specifico della cultura occidentale: appunto, il romanzo. Possiamo porci il problema di quando cominciare a parlarne, chiederci se bastino Gargantua e Don Chisciotte a determinare l’anno zero oppure se occorra risalire al ciclo bretone o addirittura alle Metamorfosi, quelle di Ovidio non quelle di Kafka. L’ambito geografico mi pare lambisca latitudini a noi prossime.

Il romanzo affascina per l’ambiguità del suo realismo. Anche quando viene definito realista, paradossalmente: difatti i naturalisti francesi o i veristi italiani non raccontavano la biografia di una persona o di una famiglia con la Teresa Raquin o i Malavoglia. Uno specchio c’era sempre, ovvero, e mi sovviene soprattutto Stendhal, esisteva una realtà esterna da riflettere, possibilmente non tutta ma solo per frammenti. L’autore prendeva il reale senza obblighi di obiettività bensì determinando il campo visivo e orientando il lettore. Cito due famosi passaggi che trattano dello stesso argomento: le battaglie militari, quella della Moscova narrata da Tolstoj in Guerra e Pace e quella di Waterloo de La Certosa di Parma. Nonostante la coincidenza, chiedo di non essere tacciato come anti-napoleonico.
Allora, leggendo Tolstoj vedo la grande armata avanzare nella steppa, Napoleone accigliato per la perdita continua di uomini e mezzi e finalmente le porte di Mosca dove Kutuzov, partendo da Smolensk, si è ritirato. E qui si scatena l’apocalisse di Borodino, secondo Tolstoj uno scontro che non conveniva a nessuno e che tuttavia si tenne incomprensibilmente. Scopriamo solo dopo che a trarne vantaggio è stato lo stesso Kutuzov, secondo gli storici uno stratega eccezionale per Tolstoj uno che nella circostanza ha goduto di una gran botta di…
Stendhal a Waterloo volutamente rinuncia ai grandi panorami, non descrive affatto la battaglia ma soltanto i particolari che capitano sotto gli occhi del giovanissimo, ingenuo e disorientato protagonista.
Lo specchio è usato per raggiungere fini diversi, più fedeli alla realtà in Tolstoj, più deformanti, se vogliamo più moderni, in Stendhal. La tecnica però è la stessa.
Ho trovato un romanzo italiano che gioca proprio con gli specchi. Perché non c’è tanto lo specchio reale/rappresentazione a farla da padrone. Parlo di Riccardo Gazzaniga e del suo libro d’esordio A viso coperto. Il reale da deformare è il mondo ultrà e la Genova ancora in preda ai fantasmi del G8, la curva rosso-blu dello stadio Marassi, i celerini e giovani che decidono di fondare un nuovo gruppo piuttosto incazzato: Facce Coperte.
Il palcoscenico è il capoluogo ligure e tanto per accentuare l’atmosfera plumbea l’autore sceglie come tempo dell’azione undici giorni di gennaio. A gennaio Genova è fredda e umida, c’è uno di quei freddi del nord che ghiaccia prima i cuori poi le ossa. Su chi cala questa cappa pesante come una frana? Su tre coppie oppositive, vite comuni, un infermiere, un addetto alla macelleria di un supermercato, addirittura un dipendente del ministero dell’interno che si nascondono dietro una sciarpa e si chiamano Lollo, Ale e Lupo. Di là ci stanno le visiere e i caschi d’ordinanza di Nicola, Gianluca e Ferro.
Lollo e Nicola, Ale e Gianluca, Lupo e Ferro: amano allo stesso modo, si lacerano allo stesso modo, condividono lo spirito del clan nello stesso modo. Solo che i rispettivi clan si odiano. Lo specchio, anzi se vogliamo qui di specchi ne abbiamo vari, serve a mediare la complessa coralità del romanzo. Non sempre l’operazione riesce ma è un mio personale parere.
Le coppie devono arrivare, in modo piuttosto convulso, allo scontro decisivo dove, questo è l’intento di Gazzaniga, le differenze tendono ad annullarsi e restano soltanto uomini eccitati, rabbiosi e istintivi che generano violenza, la quale ne causa di ulteriore. Il concetto non è originalissimo e ci sono passaggi un po’ scontati come quando è il poliziotto guarda caso più buono e sfigato a rimetterci di più. Maneggiare una tecnica come quella degli specchi che si moltiplicano, per cinquecento pagine oltretutto, non è agevole.
Ma concediamo l’alibi dell’esordio a Gazzaniga, che dunque avrà tutto il tempo di perfezionarsi. D’altronde non possiamo ambire di colpo ai mosaici di James Ellroy, affreschi neri dove da un incrocio di personaggi apparentemente senza fine esce fuori una sinfonia. L’esperimento delle coppie opposti/uguali funziona quando sviscera il sentimento primordiale della lealtà, una molla potentissima, specie se declinata al maschile. Esso si nutre di autodifesa, violenza e omertà. E a un certo punto costringe a scegliere tra amici e amori, tra affetti e gruppo stesso. Questi strappi tormentati arrivano puntuali. In una dinamica interiore che è peggiore dello scontro fisico. Perché soffrire per un cazzotto non è soffrire per un figlio. Mi pare che in tanto riflettersi l’uno sull’altro Lollo e Nicola, Ale e Gianluca, Lupo e Ferro ce lo dicano senza eccessiva retorica.


 

 

 

Riccardo Gazzaniga
A viso coperto

Einaudi, Torino, 2013
pp. 532

 

 

NB. L'immagine di copertina, a corredo dell'articolo, è di Han Soete ed è stata scattata nei giorni del G8 di Genova.

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