“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 14 November 2013 01:00

Paideia napoletana. “Gli alunni del sole” di Giuseppe Marotta

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Gli alunni del sole di Giuseppe Marotta vede la luce – ossia il sole della realtà immanente – nel 1952, quando l’autore ha cinquant’anni ed è ormai un affermato giornalista (per il Corriere della sera), sceneggiatore (con Vittorio de Sica scrive la sceneggiatura de L’oro di Napoli, tratto da un libro dello stesso Marotta; con Eduardo De Filippo e Mario Soldati adatta al cinema Questi fantasmi) e narratore (svariate sono le sue opere: romanzi, raccolte di racconti, saggi, opere teatrali).

 

Il titolo

L’opera è, apparentemente, l’esposizione – in forma edulcorata – dei miti greco-romani dalle origini del mondo alla fine della vita, della vita del protagonista: don Federico Sòrice1. Eppure, oltre alle narrazioni delle avventure – o, piuttosto, delle disavventure – degli dèi da Saturno a Mercurio (per cui si potrebbe dire del romanzo di Marotta quanto diceva Senofane dei poemi omerici ed Esiodei2) il testo racchiude altro.
Questo altro, questo “di più”, è già nel titolo: “alunni” è una parola utilizzata da Omero nell’Iliade, dove i re vengono chiamati alunni di Zeus perché si riteneva che ricevessero la loro dignità e autorità dallo stesso padre degli dèi3. Nel contesto iliadico, quindi, sia il Sole che gli alunni detengono un primato sociale rispetto al resto degli dèi e degli uomini. Non così nel testo di Marotta dove Sole e alunni rappresentano, invece, gli elementi più bassi – non a caso si utilizza questa parola, visto che tutti i protagonisti del romanzo abitano nelle case popolari napoletane – della società. Tra essi ci sono infatti: Sòrice (il Sole), ex bidello di un liceo di Piazza Dante; Antonio Pagliarulo, barbiere; don Catello Debbiase, ciabattino; Salvatore Cadamartori, l’Agamennone della situazione: "il fruttivendolo 'guappo' e becco"4; don Rosario Nèpeta, il gobbo.
Questa, che ho definito “paideia5 napoletana”, nel senso di un insegnamento non già di erudizione quanto piuttosto di stampo esistenziale, è in fondo una rappresentazione, ancora una volta addolcita, della vita dello stesso autore.

La vita di Marotta (1902 – 1925)

Nato il 5 aprile 1902 a Napoli da una famiglia avellinese agiata, nel 1911 Marotta perde il padre. Da allora la madre è costretta a svolgere lavori umili per sopperire alle spese familiari. In quegli anni Marotta conosce la vita del basso napoletano.
Poco più che ragazzino, lavora come operaio, ma non perde mai la passione per lo studio che continua, da autodidatta, al ritorno dal lavoro e di notte, riuscendo anche a farsi pubblicare diverse novelle.
Nel 1925 si trasferisce a Milano con l’intenzione di intraprendere la professione di giornalista.
Anche qui, però, conosce la paideia della strada: poiché il lavoro come pubblicista non gli consente di comprare una casa, è costretto a dormire sulle panchine pubbliche, finché non entra a far parte della casa editrice Mondadori in qualità di redattore, dando una svolta alla sua vita.

La paideia esistenziale

L’insegnamento del Sòrice in fondo è semplice: è la comprensione della mitologia, è la volontà di far capire che la logica del mondo non è l’unica logica esistente; nella mitologia, ad esempio, è ancora possibile credere che un cigno possa giacere con una donna oppure che un toro rapisca una fanciulla e attraversi parte del Mediterraneo per distendersi in sua compagnia.
Ma anche questo tipo di insegnamento da maestro ad allievo è ribaltato da Marotta: sono infatti gli alunni a chiarire al maestro quanto sia proprio la mitologia a “dare alla testa” e, quindi, a dover essere rigettata. Il nuovo insegnamento è tutto nelle battute del capitolo intitolato Il cigno abitato in cui, ai lamenti di don Alfredo Tascione per la perdita della moglie, risponde don Federico Sòrice con delle battute che sembrano rievocare L’attimo fuggente del favolista latino Fedro6: "'Don Alfredo, calmatevi', esclamò il Sòrice. 'La vita è un'apertura di finestra nel mese di marzo. Un'affacciata e basta. Donna Nunziata, buonanima, ha rinchiuso le imposte; e noi? Fu ieri che qui fermavamo le diligenze, ieri si inaugurò la Galleria Umberto e spuntò tra i lustrascarpe e l'acquaiolo il chiosco di Miccio! Ah caro don Alfredo, se vogliamo fu pure ieri che Giove e Leda si unirono, salute a loro, nello stagno... io comunque ho una paura invincibile, mi debbo sforzare per non convincermi che, ormai, sia ieri anche domani! Mi sembra di esistere in fondo a una via, sbirciando me e chiunque da lontano, è chiaro?'".7 Ma alle dichiarazioni del Sòrice ecco rispondere con impeto un alunno, divenuto per un momento maestro: "'No', replicò il barbiere Antonio Pagliarulo. 'Perché dunque caricate ogni mattina l'orologio? Perché quando vi si spiombano le ginocchia non vi mettete a ridere dicendo: 'Roba vecchia, acqua passata', bensì riempite di lamenti mezza Napoli? Don Federico, è la mitologia che vi rovina, datemi retta... e per esempio, un completo amore di Leda col cigno è matematicamente impossibile, non risulta, non quadra'".8

Conclusione

C’è solo un ultimo barlume di mitologia, una specie di unione, ed avviene alla morte di don Federico: "Piangiamo senza ritegno, dapprima uniti, e poi alternandoci, come a un impeccabile congresso del pianto.
Il morto rimane con le arance addosso. Lo guardiamo. Nessuna carrozza irrompe dal soffitto e lo rapisce; ma il suo guanciale, come la sfera di cristallo dei negromanti, si screzia di varie immagini che sembrano navigarvi.9
In fondo la mitologia non lascia mai il mondo reale. Anzi, ed è questo il lascito del Sòrice (e di Marotta), la realtà è sempre mitologica.



 

 

 

 

Giuseppe Marotta
Gli alunni del sole

Bompiani, Milano, 1964
pp. 265

Esopo e Fedro
La favola antica
Traduzione italiana a cura di Cecilia Benedetti e Fernando Solinas
Mondadori, Milano, 2007
pp. 640

Alessandro Lami (a cura di)
I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle
Rizzoli, Milano, 2005
pp. 602

Omero
Iliade
Traduzione italiana a cura di Giovanni Cerri
Rizzoli, Milano, 2005
pp. 1330

Giuseppe Zanetto (a cura di)
I miti greci
Rizzoli, Milano, 2008
pp. 456



1) Giuseppe Zanetto, ad esempio, descrive in questi termini l’opera: "il romanzo di G. Marotta, Gli alunni del sole, Milano 1952, è ambientato per le vie di Napoli, dove un vecchio bidello di liceo dà lezioni di mitologia a un gruppo di sfaccendati" (G. Zanetto (a cura di), I miti greci, Milano 2008, p. 33).

2) "Tutte le cose agli dèi attribuirono Omero ed Esiodo, quante tra gli umani sono oltraggio e vituperio: rubare, fornicare, l’un l’altro ingannare" (A. Lami (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle (21 B 11), Milano 2005).

3) Cfr. Omero, Iliade (I, 176), tr. it. G. Cerri, Milano 2003, ma soprattutto cfr. Ivi. (II, 102 – 108).

4) G. Marotta, Gli alunni del sole, Milano 1964, pp. 8-9.

5) Paideia è parola greca; originariamente significa “cura dei fanciulli”. Più in generale, è l’insegnamento che gli adulti impartiscono ai più giovani.

6) "Alata la corsa, sospeso sul filo del rasoio, calvo ma con un gran ciuffo sulla fronte, nudo il corpo (e se lo hai afferrato, non mollarlo, neppure Giove Padre saprebbe riacciuffarlo): ecco il simbolo delle occasioni fugaci. Proprio perché il pigro indugio non impedisse l'esecuzione dei nostri progetti, gli antichi idearono questa immagine del Tempo" (Esopo e Fedro, La favola antica, tr. it. C. Benedetti e F. Solinas, Milano 2007, p. 577.)

7) G. Marotta, Gli alunni del sole, cit. p. 42.

8) Ibidem.

9) Ivi., p. 182.

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