“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 November 2013 01:00

Irrealtà e straniamento

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La premessa è che, per Interno familiare di Anna Maria Ortese, valga il principio di irrealtà ovvero che tutto ciò che è scritto nel racconto non risponda alla volontà di fare ritratto, scorcio, tranche de vie ma a quella di rendere fiaba, favola, invenzione effimera, immagine passante ed amara, corrusca, eccessiva.

Occorre comprendere che non solo la messa di Natale, il presepio, i bicchieri verdi col filo dorato, il fazzoletto profumato, il cappello blu, la torta non esistono davvero ma che, quando pure appaiono nel racconto, sono comunque proiezioni fantasmatiche, decori nell’aria, fantasie, luccicori effimeri e passeggeri, bolle d’immagini, disegni possibili destinati a sparire in gran fretta. “Temo di non aver mai visto davvero Napoli, né la realtà in genere.” – scrive la Ortese – “Ciò che mi ha consentito di parlarne, in qualche libro” – prosegue – “sono state le emozioni, e anche i suoni e le luci, e lo stesso senso di freddo e di nulla che da questa realtà procedeva. Insomma, io non amavo il reale” e “fra misura e visione preferii la visione”.
Un reale da cui non viene che il freddo ed il nulla e – in questo freddo e questo nulla (e contro questo freddo e questo nulla) – il fiorire sfavillante, l’avvampo cromatico, la coreografia variopinta, la scenorealizzazione di un sogno: “Accadeva che i sogni, per me, mandassero gran rumore e la vita nessuno”.
La scrittura della Ortese – amara e folle, barocca e grondante – ne Il mare non bagna Napoli è “allucinata”, “ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti” presentando, in ogni pagina, “un che di troppo” capace di generare deformazioni, eccessi, storture e bagliori improvvisi tra cumuli di nero e di triste. Così, ad esempio, si spiega il trucco che disumanizza le figure del racconto mutandole in sagome dai tratti paurosi: Anastasia è “figura cavallina”, Petrillo è uno “scarafaggio studioso” mentre Eduardo tanto somiglia a “un ragno mezzo essiccato, che dondola talora da una ragnatela”. Così si spiega anche il finale del racconto, nel quale Anastasia – passata la sbornia di un possibile ritorno all’amore (il giovane Antonio Laurano è tornato a Napoli e manda i suoi saluti: chissà, forse, magari…) – si ritrova seduta sul letto, di nuovo circondata dai “particolari più disadorni e noti della stanza” (le sedie, i vecchi quadri, i ramoscelli secchi d’ulivo), intenta a prendere coscienza che tutto il prodigio accaduto e pensato (la suggestione, il desiderio, un brivido; la passione, il matrimonio, la vita dedicata al proprio uomo) non è che un’illusione, una magia, un inganno disperato e malvagio: “Stupì, ricordando la grande festa della mattina, quell’affiorare di speranze, di voci. Un sogno, era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita… era una cosa strana la vita. Ogni tanto sembrava di capire cosa fosse, e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno”.

 

Il principio di irrealtà della Ortese, posto a teatro, diventa principio dello straniamento. Paolo Coletta, infatti, genera una partitura di segni (antro buio e vuoto con un velo di fondo e un grosso quadrato al soffitto, destinato a dare colore all’emotività) in cui tutto è funzionale a sottolineare che siamo su un palco, che ciò che vediamo non è veritiero, che ad essere offerta è l’illusione di un’illusione, la fantasia di una fantasia. Costruendo una piccola opera buffa egli calca ulteriormente il principio della Ortese (secondo cui Interno familiare è “un rifluire dell’immaginazione”), aggiungendovi tutti i dettagli possibili perché risulti evidente la natura fasulla della messinscena: il canto; i movimenti sincopati e privi di scopo apparente; i passaggi danzerini sul fondo; le coreografie singole o di gruppo; le apparizioni schizzate di un personaggio; i vezzi rivolti alla platea; il falsume di certe pose; l’annuncio degli eventi in luogo della rappresentazione degli eventi medesimi. Ne viene una stilizzazione (melodica e plastica) che riforma – nella direzione di una resa antiveristica – ogni aspetto: la realizzazione di un’attitudine, di un rapporto, di una vicenda; la resa di una frase, la composizione di uno sguardo, il movimento di una mano.
È per questo che un pianoforte suona quando le dita tastano l’aria; per questo che si può correre, scattare, affrettarsi senza percorrere davvero un centimetro; per questo che si può invitare a guardare un presepio senza che, il presepio, sia davvero guardabile. È per questo che ombre da retro-fondo, volute deformazioni carognesche, risate agghiaccianti, brutte smorfie aggrottate e brandelli di gestualità vagamente nevrotica fanno visione incrinata, distorta, inquietante: quasi alla maniera di una pagina (al femminile) di Poe, quasi alla maniera di un racconto (al femminile) di Dickens.
Conseguenza di questo straniamento – sia chiaro – è l’impossibilità di partecipazione e condivisione emotiva: noi non soffriamo il disinganno di Anastasia e mai compatiamo la sventurata che spera per poi rassegnarsi. Lo straniamento, infatti, genera piuttosto consapevolezza che di una trama – e non di una vita – si tratta e che è alla trama – e non tanto alla vita che ne è oggetto – che si pone attenzione. Così Interno familiare di Paolo Coletta viene veduto e goduto come tentativo d’arte – espressionistico, chimerico, teatrografico – che ha la forma di una campionatura ritmata ed armonica, che muove le megere in una danza funesta facendo loro intonare un canto di cattiveria: che muoia ciò che si sperava al mattino, che cada ciò che tentava il suo volo, che torni a star zitta ogni passione, ogni possibile libertà, ogni ansia da fuga o da vita diversa: “Anastasia!” – chiama oltre la quinta di destra la madre – “Vengo”, risponde meccanicamente la giovane donna: di nuovo intorpidita, di nuovo invischiata, di nuovo ridotta al proprio destino di zia e di zitella.
Non sfugge – di quest’episodio del ciclo ortesiano – il lavorìo compiuto sul testo: l’invenzione di piccole scene (l’inizio, ad esempio, caratterizzato da un’Anastasia che, nel pieno della messa si ricorda e s’appunta “l’amido per le camicie” e “la cassata di Palermo”: a sottolineare il ruolo “tutto responsabilità” che le tocca in famiglia); la soppressione delle figure maschili; la riscrittura delle descrizioni con il passaggio dalla terza alla prima persona singolare (si pensi alla madre e alla zia che pronunciano ciò che – nel testo – è affidato all’autrice); la ri-assegnazione di battute da un personaggio ad un altro; così come non sfugge che – quasi rafforzata ulteriormente dall’organizzazione schematica e allegorica dello spazio e dal posizionamento simbolico delle interpreti – rimane intatta la sensazione letteraria che Interno familiare sia un quattro contro uno, un attacco collettivo e comune ad una vittima, una crudele tortura che le altre fanno ad Anastasia imponendole voci, allusioni, brevi commenti capaci di incidere quanto incide un coltello.
“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale.” – scrive la Ortese in Mosaico italiano – “Qui tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate…“. Perché lo strazio, il dolore, la vera sensazione di sé trovi un’espressione sopportabile, una grazia e una leggerezza che alleggerisca e trasformi, occorre far gioco, tramutando la tetraggine in un caleidoscopio, in una decorazione, in una mascherata simbolica, scintillante, falsa: “il male”, “lo spasimo”, “il dolore più lacerato” insomma, hanno da farsi “felicità più cantante”.
Così uno stuolo di ombre e di risentimenti che siede alla tavola, abita le stanze, e prega, cucina, dorme nei letti o passa o ripassa in corridoio si veste di gioia, si mostra con forma felice, fa recita dichiarando palesemente la propria recita: l’amarezza s’accuccia, come una voce nascosta dietro ad un muro, mentre a chi guarda si dona la frivolezza precisa, la puntualità rigogliosa, la musicalità traboccante.
Anastasia – rigida, severa ed austera – continuerà ad essere rigida, severa ed austera: terminato il sogno, finito il teatro, si torna infatti alla vita.  

 

 

 

Il mare non bagna Napoli
Interno familiare
drammaturgia, musica e regia Paolo Coletta
con Monica Assante di Tatisso, Daniela Fiorentino, Ivana Maione, Antonella Romano, Peppa Talamo
costumi Zaira de Vincentiis
disegno luci Gigi Saccomandi
assistente alla regia Roberta Di Palma
datore luci Angelo Grieco
fonico Diego Iacuz
assistente ai costumi Elena Soria
sartoria Zambrano
materiale fonico Emmedue
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli
durata 55'
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 31 ottobre 2013
in scena dal 29 ottobre al 3 novembre 2013

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