“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 30 October 2013 01:00

Le possibili interpretazioni di un testo

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Il ritorno di Virginia e sua zia – a sedici anni dal debutto a Galleria Toledo, protagonista Gina Perna; a undici dalla “prima volta” di Tina Femiano – è soprattutto l’occasione per riammirare la scrittura teatrale di Manlio Santanelli.

Nell’assistere a questa vicenda assai effimera – una donna al suo ultimo appuntamento, alla sua ultima possibile chance – ciò che s’apprezza è la drammaticità dell’inchiostro dove, per “drammaticità”, deve intendersi non il contenuto tragico delle parole ma la sua funzionalità per il palco. Nel breve volgere dei cinquanta minuti, infatti, Santanelli ha l’abilità di offrire, agli occhi più attenti, non tanto la triste faccenda di questa vecchia carcassa di femmina che si maschera trascinandosi ancora verso un tentativo, un’uscita, una peregrinazione amorosa quanto una vera e propria lezione sulla composizione da ribalta. Notiamo infatti: la forma del dialogo per la resa di un monologo; la scena nella scena ovvero il teatro nel teatro attraverso il racconto nel racconto; la reiterata allusione all’invisibile; la preparazione (trucco, costume, dettagli d’abito) compiuta a vista; il gioco prima/durante per cui il “durante” della messinscena è anche il “prima” di un’altra messinscena (quella che l’anziana Virginia dovrà svolgere al cospetto del possibile compagno sentimentale).
Non è un caso se – terminata l’opera – ci si interroga volentieri sulle possibili interpretazioni: davvero la zia esiste? Siamo dinnanzi a una matta o ad un’anima sola ed in pena? Virginia e sua zia è l’interpretazione di una speranza, di una disillusione o di una consapevolezza crescente? Ha un valore metatetrale questa giocosa ostentazione d’amaro?
L’ambigua formulazione delle risposte rende merito al testo: probabilmente la zia con cui Virginia dialoga esiste tanto quanto esistono davvero i fantasmi e gli spettri con cui facciamo dialogo ogni giorno, forse ogni ora della nostra esistenza; potrebbe anche dirsi che la zia non è che l’illusione medesima, che infatti sfuma e perisce non appena l’incontro non è andato a buon fine; ma può anche dirsi che la zia esiste ed esiste in carne e corpo e malattia (“cionca” è quest’anziana più anziana dell’anziana, ad un tempo compagnia giocosa e disperazione pesante, fastidio e causa di chiacchiera, preoccupazione e ristoro: “'a zia è la mia dote, anzi: la mia ipoteca”) per cui – se esiste tanto quanto i fantasmi e le illusioni ma anche quanto una seconda interprete potenziale ma non effettiva – pare scelta teatralmente interessante quella di renderla con lo stridio di un violino, delicato nei passaggi più placidi, soffusi e più rosei; acidulo quando si tratta di rintuzzare, di litigare, di fare dispetti o di battibeccare con astio caritatevole ma ormai incarognito. A breve sonata corrisponde domanda; a breve domanda corrisponde tirata: (suono) “Sì, m'aggia vestere, sì signore”; (suono) “So' zoccola? E so' zoccola!”; (suono) “Dove vado zoccoliando?”; (suono) “Con chi vado zoccoliando?”; (suono) “Allora stasera vulite sape’ tutt’ cose”; (suono) “'A zia, e calmatevi, aggio pazziato…”. Intersezione orale per cui, a nota, segue la voce, può dirsi ad un tempo che tanto la parola s’esprime per musica quanto la musica sospinge la parola ad esprimersi: pungolo, il violino genera le repliche discorsive diventandone punto di partenza e di approdo.
Se ciò corrisponde al vero poco importa definire Virginia una matta che parla con se stessa, con l’aria, con le pareti che ha intorno o – più semplicemente – una persona che riflette e bisticcia con una seconda non vedibile giacché ne viene ugualmente – e senza ridursi di un minimo – una sensazione triste ma dolciastra di penultima stazione della vita, di penultimo scampolo da sopportare. Quasi guardando alla lezione di Beckett (finché non è giunto l’applauso si rimane su scena; finché non giunge la morte si continua a sopravvivere pur non volendo) questa Virginia impegna ed impiega quasi un’ora nel trucco-e-parrucco, alla stessa maniera con cui i vecchi del teatro beckettiano impiegano quasi un’ora nel rendere e ripetere le loro stramberie senza senso: si racconta una storiella, un’altra, si inganna l’orologio inventandosi un piccolo giochetto divertito (qui la sparizione delle mutandine di pizzo), ancora una storiella, ancora un giochetto ed ecco che l’ora è trascorsa, superata nonostante l’amarezza, la solitudine, la condizione terribile di chi non ha più niente davvero da fare, da attendersi, da ottenere oramai.
Il testo funziona talmente tanto che dona anche una suggestione ulteriore. Il piccolo tavolino posizionato sulla destra, infatti, se è vero che deve dare l’idea di un angolo-trucco domestico e quotidiano (un beauty rosso di pelle, uno specchio da tavolo, uno specchietto portatile, rossetti, ciprie, mascara, acetone, fazzoletti, batuffoli, una spazzola, una tazzina da caffè effettivamente ricolma, un telefono) tanto pare anche un camerino pre-recita: Virginia è un’attrice che s’addobba, s’imbelletta, s’acconcia non tanto per incontrare un uomo quanto per interpretare la sua ultima parte in commedia. Ciò cui assistiamo, nel caso, è dunque la preparazione ad uno spettacolo che non vediamo ma di cui misuriamo le ansie, le paure, le piccole speranze assai fragili e di cui veniamo a sapere – infine – la cattiva riuscita. Rimando, in qualche modo, alla vita del teatro ed al teatro della vita, l’ipotesi tramuta lo spazio della platea in un’altra-stanza-dalla-stanza-teatrale, nella camera a lato dalla camera in cui davvero si deve "fare la parte".
Così, spettatori seduti a ridosso da dove avviene Virginia e sua zia, ne siamo di fatto esclusi dall’esistenza di una quarta parete che ci tramuta in spioni, in fortunati visitatori in trasparenza, in guardoni di un qualcosa che avviene al chiuso perché al chiuso deve avvenire. Non è un caso che Tina Femiano, più volte, inclini lo sguardo verso destra o sinistra, verso qualche angolo in alto o verso un diritto che non ha alcun legame con chi assiste: è lo sguardo di chi è sola, di chi parla ai muri che la cingono e a se stessa.
Se ci siamo soffermati tanto sulla scrittura di Santanelli è perché ravvediamo in essa il valore specifico dello spettacolo che, di contro, soffre di ritmi talora troppo blandi, che richiamano una spossatezza legittima ma che pare − a momenti − eccessiva. Certo, va notato che Tina Femiano offre o tenta di offrire a Virginia e sua zia ogni lembo di pelle, ogni muscolo, ogni piccolo moto: le lievi grinze notabili agli occhi, alle labbra, alla fronte, tra i seni; i passi incerti al momento di indossare le scarpe, la gonna, la giacca; l’isterica maniera di pulire le unghie dagli impiastri dello smalto (la sinistra, immobile, tiene un batuffolo; la destra s’agita con un fare da esaurimento, da panico, da parossismo maligno e ormai intrattenibile) segnalano una condivisione diretta − come non filtrata da una regia − con il personaggio immaginato da Santanelli ("Virginia sono io" dirà a messinscena avvenuta, flaubertianamente). La Femiano parla, sospira, si lamenta, alterna tono basso ad acuto, fretta a riposo, fonde uno sbuffo, una rabbia, un sorriso mentre genera il suo cumulo di ricordi antiquari, di fantasie bugiarde, di attese fuggevoli, di allusioni oscene. Nei suoi occhi l’ingenua credenza della vecchiaia, ancora disposta a lasciarsi ingannare un’ultima volta; nella lentezza di certi suoi moti (un passo, un borbottio strascicato, un piccolo ghigno che termina prima di cominciare davvero) la stanchezza di chi affanna prima di fermarsi del tutto.
"'A zia, da qui a cento anni il Signore vi chiamerà ed io me ne vengo con voi: che ci faccio quaggiù, io sola…".
Lesione della vitalità, abbandono dei falsi entusiasmi, ripiegamento alla propria condizione, attesa dell’ultimo istante, amara pazienza, fine dei giochi, delle arguzie, dei goffi preparativi per ingannare ingannandosi.
Il battito delle mani sancisce la fine, l’applauso del pubblico coincide con il termine: la recita non ha più ragione di esistere.

 

 

 

Il Teatro cerca Casa
Virginia e sua zia
di Manlio Santanelli
regia Mario Gelardi
con Tina Femiano
violino Aurora Sanarico
durata 50'
Napoli, Associazione Giacoia, 27 ottobre 2013
in scena 27 ottobre 2013 (data unica)

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